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1 Convegno SISP - Università di Firenze 12-14 settembre 2013 Sezione: Regionalismo e politiche locali Panel: I nuovi enti intermedi in Italia e in Europa Chair: Silvia Bolgherini Discussant: Luciano Vandelli e Luca Lanzalaco Enti intermedi, sviluppo locale e sostenibilità istituzionale: una chiave di lettura a partire dal caso del Veneto 1 di Patrizia Messina [email protected] Abstract Il tema degli enti intermedi in Italia in questi anni va strettamente riferito alla riforma di riordino territoriale avviata con la L.135/2012. Le riforme istituzionali avviate dal Governo Monti e continuate con il Governo Letta, prospettano infatti il ridimensionamento o l’abolizione delle Province, la costituzione delle città metropolitane, ma anche l’attivazione di forme di gestione associata dei servizi locali per i comuni con meno di 5000 abitanti, come le convenzioni e soprattutto le unioni di comuni. Queste riforme sono state avviate all’insegna dei tagli della spesa pubblica e di economia di scala. Tuttavia quella del riordino territoriale si configura come una delle più importanti riforme dei governi locali del nostro Paese, che ha indotto le diverse Regioni italiane ad attivare, con apposite leggi regionali, piani di riordino territoriale volti a migliorare la gestione dei servizi e la governance del territorio. In questa prospettiva, il paper, prendendo in esame il caso del Veneto, intende focalizzare l’attenzione sugli enti intermedi, in particolare le Unioni di comuni, i Gal e le Intese Programmatiche d’Area, mettendone in luce da un lato le caratteristiche e funzionalità e, dall’altro, la loro sostenibilità istituzionale attraverso un’analisi delle sovrapposizioni , ridondanze o sinergie, ma anche delle relazioni funzionali con il livello di governo regionale. Particolare attenzione verrà data, in tal senso, ai problemi connessi con la costituzione della città metropolitana di Venezia, vista la sostanziale non coincidenza delle funzioni metropolitane presenti nell’area metropolitana del Veneto centrale, con la città metropolitana che, a norma di legge, dovrebbe coincidere con i confini amministrativi della provincia di Venezia. A conclusione del paper, verranno messi in luce alcuni aspetti salienti della sostenibilità istituzionale per gli enti intermedi e, più in generale, per le riforme dell’intero assetto istituzionale. Sommario 1. Dai Comuni alle reti urbane 2. In Italia: un contesto normativo incerto e in continua evoluzione 3. Dimensioni dei Comuni e reti intercomunali in Veneto 4. Gli ambiti territoriali di settore 5. Il Piano di riordino territoriale regionale (L.r. 18/2012) 6. Strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale: IPA e GAL 7. L’area del Veneto centrale: dalla campagna urbanizzata alla città metropolitana? 8. Riordino territoriale e sviluppo guidato: un cambiamento del modo di regolazione 9. Sostenibilità istituzionale e sviluppo strategico del territorio Riferimenti bibliografici 1 Questo paper presenta una sintesi dei principali risultati della ricerca PRIN “Nuove forme di governance locale come strumento di sviluppo strategico territoriale. Una ricerca comparata in sei Regioni europee: Andalusia, Brandeburgo, Puglia, Sicilia, Toscana, Veneto”, coordinata da Mario Caciagli, focalizzandosi sul caso Veneto. Ringrazio per le osservazioni puntuali il gruppo di lavoro dell’Università di Padova che ha collaborato alla ricerca: Gianni Riccamboni, Mauro Salvato, Ekaterina Domorenok e Marco Bassetto, ringrazio inoltre Luciano Gallo, Direttore della Federazione dei Comuni del Camposampierese e la Regione Veneto - Direzione Enti Locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti.

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Convegno SISP - Università di Firenze 12-14 settembre 2013

Sezione: Regionalismo e politiche locali Panel: I nuovi enti intermedi in Italia e in Europa

Chair: Silvia Bolgherini Discussant: Luciano Vandelli e Luca Lanzalaco

Enti intermedi, sviluppo locale e sostenibilità istituzionale:

una chiave di lettura a partire dal caso del Veneto1

di

Patrizia Messina [email protected]

Abstract Il tema degli enti intermedi in Italia in questi anni va strettamente riferito alla riforma di riordino territoriale avviata con

la L.135/2012. Le riforme istituzionali avviate dal Governo Monti e continuate con il Governo Letta, prospettano infatti il

ridimensionamento o l’abolizione delle Province, la costituzione delle città metropolitane, ma anche l’attivazione di

forme di gestione associata dei servizi locali per i comuni con meno di 5000 abitanti, come le convenzioni e soprattutto le

unioni di comuni. Queste riforme sono state avviate all’insegna dei tagli della spesa pubblica e di economia di scala.

Tuttavia quella del riordino territoriale si configura come una delle più importanti riforme dei governi locali del nostro

Paese, che ha indotto le diverse Regioni italiane ad attivare, con apposite leggi regionali, piani di riordino territoriale volti

a migliorare la gestione dei servizi e la governance del territorio.

In questa prospettiva, il paper, prendendo in esame il caso del Veneto, intende focalizzare l’attenzione sugli enti

intermedi, in particolare le Unioni di comuni, i Gal e le Intese Programmatiche d’Area, mettendone in luce da un lato le

caratteristiche e funzionalità e, dall’altro, la loro sostenibilità istituzionale attraverso un’analisi delle sovrapposizioni,

ridondanze o sinergie, ma anche delle relazioni funzionali con il livello di governo regionale. Particolare attenzione verrà

data, in tal senso, ai problemi connessi con la costituzione della città metropolitana di Venezia, vista la sostanziale non

coincidenza delle funzioni metropolitane presenti nell’area metropolitana del Veneto centrale, con la città metropolitana

che, a norma di legge, dovrebbe coincidere con i confini amministrativi della provincia di Venezia.

A conclusione del paper, verranno messi in luce alcuni aspetti salienti della sostenibilità istituzionale per gli enti

intermedi e, più in generale, per le riforme dell’intero assetto istituzionale.

Sommario

1. Dai Comuni alle reti urbane

2. In Italia: un contesto normativo incerto e in continua evoluzione

3. Dimensioni dei Comuni e reti intercomunali in Veneto

4. Gli ambiti territoriali di settore

5. Il Piano di riordino territoriale regionale (L.r. 18/2012)

6. Strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale: IPA e GAL

7. L’area del Veneto centrale: dalla campagna urbanizzata alla città metropolitana?

8. Riordino territoriale e sviluppo guidato: un cambiamento del modo di regolazione

9. Sostenibilità istituzionale e sviluppo strategico del territorio

Riferimenti bibliografici

1 Questo paper presenta una sintesi dei principali risultati della ricerca PRIN “Nuove forme di governance locale come strumento di

sviluppo strategico territoriale. Una ricerca comparata in sei Regioni europee: Andalusia, Brandeburgo, Puglia, Sicilia, Toscana,

Veneto”, coordinata da Mario Caciagli, focalizzandosi sul caso Veneto. Ringrazio per le osservazioni puntuali il gruppo di lavoro

dell’Università di Padova che ha collaborato alla ricerca: Gianni Riccamboni, Mauro Salvato, Ekaterina Domorenok e Marco Bassetto,

ringrazio inoltre Luciano Gallo, Direttore della Federazione dei Comuni del Camposampierese e la Regione Veneto - Direzione Enti

Locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti.

2

1. Dai Comuni alle reti urbane

I governi locali nel contesto europeo sono chiamati ad affrontare oggi numerose sfide che arrivano dai processi congiunti di globalizzazione dell’economia e di europeizzazione del sistema politico ed economico nella prospettiva multilivello. In questo mutato scenario, il livello di governo più vicino al cittadino è infatti, ancora oggi, quello del Comune che, salvo poche eccezioni, costituisce l’unità di base di tutta la costruzione politico-amministrativa del sistema europeo. Tuttavia, il Comune europeo è perlopiù un’unità piccolissima, tra i 500 e i 5.000 abitanti che, per esempio, ha poco a che vedere con la nostra idea di città, soprattutto con la grande città (Bennet, 1993), in cui oggi tendono generalmente ad addensarsi i servizi del terziario avanzato, propri dell’economia della conoscenza. In questo contesto economico globale, caratterizzato da una forte intensità dei flussi che attraversano i territori, spesso snaturandoli, il rischio per i Comuni, soprattutto i più piccoli, è duplice: da un lato, quello di rimanere ai margini delle principali linee di flussi (commerciali, informativi, finanziari, migratori), dall’altro, quello di venire attraversati dai flussi stessi venendone travolti, a meno che essi non riescano a connettersi “in rete” per intercettarli in modo funzionale e, in qualche modo, riuscire a “governarli” (Bassetti 2007; Perulli 2000). Si tratta di una sfida a cui tutti i governi locali europei sono chiamati a rispondere, riposizionandosi nello spazio europeo e globale, come ha chiaramente sottolineato in più occasioni anche l’UE

2.

La cooperazione intercomunale, pertanto, rappresenta oggi una strategia perseguita da molti Paesi, specialmente quelli in cui sono presenti realtà municipali fortemente frammentate, poiché essa risponde prevalentemente ad almeno due ordini di necessità: offrire servizi qualitativamente migliori ai cittadini, mediante la creazione di economie di scala, e promuovere sinergie organizzative mediante la condivisione di personale qualificato.

La crisi economica e finanziaria di questi anni, che impone politiche di rigore della spesa

pubblica, ha ulteriormente accelerato questo processo, ponendo come prioritario il tema delle riforme

di riordino territoriale, correlate all’imperativo dei tagli della spesa. In questo scenario, i piccoli

comuni, in particolare, sono gli enti più sollecitati al cambiamento, perché considerati3 costosi e

inefficienti, non essendo in grado di offrire prestazioni e servizi qualitativamente adeguati, anche per

mancanza di professionalità e vulnerabilità finanziaria. La cooperazione intercomunale consentirebbe

di rispondere in buona misura a queste sfide, evitando da un lato che si giunga alla privatizzazione

dei servizi pubblici e, dall’altro, salvaguardando l'identità locale.

Anche in Italia le riforme istituzionali, avviate di recente dal Governo Monti e continuate con il

Governo Letta, insieme all’attivazione di forme obbligatorie di gestione associata di servizi locali per

i comuni con meno di 5.000 abitanti, come le convenzioni e soprattutto le unioni di comuni4,

prospettano contestualmente anche il ridisegno degli enti intermedi, con il ridimensionamento/

abolizione delle Province e la costituzione delle Città metropolitane. Si tratta di riforme che, seppure

dettate da ragioni di taglio della spesa, si configurano di fatto come una delle più importanti

trasformazioni dei governi locali del nostro Paese che, per la loro rilevanza e complessità,

richiederebbero di essere analizzate e disegnate con particolare attenzione. Le Regioni italiane stanno

attivando infatti, con apposite leggi regionali, piani di riordino territoriale volti a migliorare la

gestione dei servizi, ma anche la governance del territorio. Tali riforme pertanto dovrebbero essere

opportunamente analizzate congiuntamente ad altri strumenti di policy per lo sviluppo del territorio,

che prevedono, per esempio, altrettante definizioni di ambiti territoriali di programmazione

decentrata e di gestione settoriale che coinvolgono gli stessi comuni con geometrie variabili e

frequenti sovrapposizioni. Senza questa lettura integrata del riordino territoriale si corre infatti il

2 A questo riguardo si vedano, tra l’altro: il Rapporto del Comitato Esecutivo sulla Democrazia Locale e Regionale del

Consiglio d'Europa (2001) e la Raccomandazione 221 (2007) Quadro istituzionale per la cooperazione intercomunale

del Congresso delle Autorità Locali e Regionali del Consiglio d'Europa (2007). A questo riguardo cfr. Domorenok e

Nesti (2009). 3 Sulla complessità di una valutazione dei costi effettivi dei piccoli comuni si veda Messina P. (2011; 2012a).

4 A queste vanno aggiunte anche le fusioni di comuni, che tuttavia non costituiscono una forma associata intercomunale.

3

rischio di creare inevitabilmente forme di “ridondanza” tutt’altro che utili, le quali finiscono spesso

col vanificare i vantaggi derivanti da una semplificazione dei livelli di governance territoriale.

Queste forme di sovrapposizione di più ambiti territoriali verranno analizzate valutando la

sostenibilità istituzionale5 delle riforme in materia di riordino territoriale.

Le ipotesi che qui vorrei avanzare a questo riguardo possono essere così sintetizzate: 1) In assenza di un macro-disegno condiviso di riforma istituzionale, sia a livello europeo sia a

livello nazionale, oggi «sono le politiche che fanno la politica», ovvero, sono proprio i cambiamenti introdotti in questa fase, a partire dal livello di governo locale e regionale, negli stili di policy e negli stili amministrativi, che possono costituire un importante indizio per le trasformazioni in corso che andranno ad incidere sulla definizione di nuove forme di politics e di polity.

2) Proprio la dinamica incrementale e congiunturale che definisce lo scenario europeo e nazionale entro cui le riforme di riordino territoriale stanno prendendo forma nelle diverse regioni, fa sì che tali riforme stiano avvenendo seguendo un percorso path dependet, strettamente legato alle variabili culturali e istituzionali del contesto regionale e al modo di regolazione dello sviluppo prevalenti in quel dato contesto, ed è quindi in relazione ai reali cambiamenti introdotti sul modo di regolazione regionale che queste riforme devono essere analizzate in prima istanza, possibilmente in chiave comparata.

In questo paper, focalizzando l’attenzione sul caso studio del Veneto, cercheremo di mappare le diverse forme associative intercomunali, congiuntamente con le diverse istituzioni intermedie, definibili anche come “organizzazioni per lo sviluppo”, che operano sul territorio regionale. In particolare verranno richiamate le zonizzazioni relative agli ambiti territoriali di settore delle principali utilities, ma anche quelle relative ai principali strumenti di programmazione decentrata per lo sviluppo locale (Intese Programmatiche d’Area e GAL) con particolare riguardo alla programmazione regionale per lo sviluppo rurale e per lo sviluppo dell’area metropolitana.

A conclusione della presentazione, verranno messi in luce alcuni aspetti salienti della sostenibilità istituzionale per gli enti intermedi e, più in generale, per le riforme di riordino istituzionale regionale, valutandone la coerenza rispetto alla programmazione regionale complessiva.

2. In Italia: un contesto normativo incerto e in continua evoluzione

Il fenomeno dell’associazionismo intercomunale non è un fenomeno recente. Già a partire dagli

anni Settanta, pochi anni dopo l’attivazione delle Regioni a statuto ordinario, furono approvate in

Veneto, come in altre regioni italiane, alcune leggi regionali6 volte a dare vita alle prime forme

istituzionali di associazionismo tra comuni che avevano come obiettivo sia la gestione associata di

alcuni servizi pubblici locali sia la programmazione decentrata allo sviluppo del territorio.

È tuttavia negli anni Novanta, con la L. 142/1990 e le successive riforme Bassanini, che vengono

meglio disciplinate a livello nazionale le forme di collaborazione tra Comuni, quali la convenzione,

il consorzio e l’unione di comuni, quest’ultima pensata come premessa per giungere, dopo 10 anni,

5 Sul concetto di sostenibilità istituzionale (Lanzalaco 2009) mi soffermerò nel paragrafo conclusivo, cfr. nota 38 infra.

6 Nel caso del Veneto, per esempio, si vedano in particolare: la L.r. n. 64 del 30 maggio 1975 che promuoveva su tutto il

territorio regionale la costituzione di consorzi fra i Comuni e le Province, denominati Unità Locali dei Servizi Sociali e

Sanitari, per la gestione unitaria di una serie di servizi obbligatori (ivi specificati), con la possibilità da parte di dei

Comuni di delegare ulteriori funzioni facoltative, e la L.r. n. 80 del 9 giugno 1975, Norme per l’istituzione e il

funzionamento dei Consigli di Comprensorio, che ripartiva il territorio regionale in 52 Comprensori, alcuni dei quali

interprovinciali, individuando gli ambiti territoriali entro cui promuovere e sviluppare in cooperazione con gli enti locali,

relativamente a: una politica di attuazione della programmazione regionale; un’azione di riequilibrio economico e

territoriale; il riordino e la razionalizzazione dell’attività amministrativa regionale e locale; il processo di aggregazione

fra enti locali anche in funzione dell’attribuzione della delega di funzioni regionali; la partecipazione degli organismi

democratici rappresentativi alle scelte politiche della Regione. I Comprensori non sono mai decollati, ma costituiscono

un’esperienza ancora oggi significativa per l’individuazione di 52 aree omogenee.

4

alla fusione dei comuni (art. 26, L. 142/1990). In questa fase i Comuni italiani cominciano di fatto

ad associarsi, usufruendo di contributi significativi da parte dello Stato e delle Regioni, spesso

erogati al di fuori di una politica di riordino territoriale. Questa tenenza aumenta visibilmente

soprattutto in seguito alla riforma introdotta dal TUEL (D.Lgs. 267/2000, art. 33), che istituisce le

unioni di comuni come enti locali di secondo livello, introducendo una serie di modifiche della

normativa che riguardano:

- l’eliminazione del vincolo della contiguità territoriale,

- l’eliminazione del vincolo di appartenenza alla medesima provincia,

- l’eliminazione del limite demografico per i comuni aderenti

- e, soprattutto, l’abolizione dell’obbligo di sciogliersi o trasformarsi in fusione di comuni dopo 10

anni.

Tuttavia, senza una legge quadro nazionale7, in questo periodo, e fino al 2006, il panorama delle

politiche nazionali e regionali a favore delle forme associative si presenta, di fatto, decisamente

variegato e disomogeneo. Le unioni di comuni, incentivate direttamente dallo Stato, si sviluppano

su tutto il territorio nazionale, a prescindere da specifiche politiche regionali. Mentre altre forme

associative nascono grazie a specifiche politiche regionali di riordino territoriale che definiscono i

requisiti, in termini di caratteristiche istituzionali e strutturali, richiesti alle forme associative per

poter accedere agli incentivi economici8.

Il 2006 segna invece un’importante svolta in questo ambito, grazie alla Conferenza Unificata fra

Stato, Regioni ed Enti Locali sui «criteri per il riparto e la gestione delle risorse statali a sostegno

dell’associazionismo comunale». L’intesa ha un’importanza strategica decisiva sia per

l’assegnazione alle Regioni delle risorse statali utilizzabili per incentivare la gestione associata dei

servizi locali, sia perché definisce alcune caratteristiche minime che tutte le legislazioni regionali

devono possedere per accedere a questi fondi.

Successivamente, con la legge finanziaria del 2008, per ragioni di contenimento della spesa, le

Regioni vengono inoltre obbligate a riformare il sistema delle Comunità montane, prevedendo una

loro riduzione e una revisione del loro assetto istituzionale.

Più recentemente, il D.L. 78 del 31 maggio 2010 ha obbligato i Comuni con popolazione inferiore a

5.000 abitanti, e 3.000 per i comuni montani, alla gestione associata di servizi e di almeno tre

funzioni fondamentali, mediante convenzione, unione o fusione di comuni (non sono più ammessi i

consorzi), in un bacino di almeno 10.000 abitanti e comunque non inferiore a 5.000, salvo diverse

disposizioni regionali.

Da allora, la conversione del decreto in legge, seguita da una serie di interventi normativi introdotti

dalle successive manovre finanziarie, hanno comportato numerose e importanti modifiche della

disciplina prevista, in relazione:

- al numero delle funzioni fondamentali da gestire in forma associata,

- alle diverse tempistiche,

- alle forme previste per la realizzazione di tali gestioni associate (in parte precisate nel D.L.

95 del 6/7/12 e L. 228/2012).

Ciò ha impresso un’accelerazione notevole ai processi di riordino territoriale delle Regioni aprendo

una nuova stagione di riforme istituzionali su base regionale.

È in questo contesto che si inserisce, nel caso del Veneto, la L.r. 18/2012 Disciplina dell’esercizio

associato di funzioni e servizi comunali, che prevede un piano di riordino territoriale volto ad

individuare ambiti territoriali adeguati ed omogenei per la gestione associata dei servizi pubblici

locali, sul quale ci soffermeremo più avanti.

7 Per un’analisi della normativa sul tema cfr. Vandelli (2005; 2007); Ongarato (2007), Salvato (2013).

8 Si vedano, per esempio, i casi delle associazioni intercomunali previste dalla normativa regionale dell’Emilia Romagna

e del Friuli Venezia Giulia, oppure le comunità collinari del Piemonte. Cfr. Xilo e Ravaioli (2009).

5

3.Dimensioni dei Comuni e reti intercomunali in Veneto

Per cogliere più a fondo le dinamiche di associazionismo intercomunale del Veneto è opportuno

partire da una conoscenza delle caratteristiche dimensionali dei Comuni.

Confrontando il Veneto con in contesto italiano (Tab.1), dal punto di vista dimensionale si può

rilevare, in primo luogo, che i Comuni del Veneto sono di dimensioni demografiche mediamente

maggiori: il fenomeno dei micro-comuni al di sotto dei 500 abitanti è quasi inesistente (1,72%),

mentre solo il 6,7% dei Comuni si colloca al di sotto dei 1.000 abitanti, contro il 24% nazionale. I

Comuni fino a 5.000 abitanti incidono per il 57% sul totale (15 punti meno rispetto alla media

nazionale del 72%), mentre significativa è la presenza di Comuni medio-piccoli fra i 5.000 e i

15.000 abitanti, che incidono sul totale per il 35%, contro circa il 20 % nazionale.

Tab.1 – Comuni del Veneto per classi demografiche e confronto con l’Italia

N. Comuni Fino a 500 ab

501-1000 ab

1001-2000 ab

2001-3000 ab

3001-5000 ab

5001-15.000 ab

Oltre 15.000 ab

Totale Comuni

Veneto 10 29 86 89 115 204 48 581

% Veneto 1,72 4,99 14,80 15,32 19,79 35,11 8,26 100

Italia 846 1128 1679 977 1206 1601 664 8101

% Italia 10,44 13,92 20,72 12,06 14,89 19,76 8,19 100

Fonte: elaborazioni su dati Istat 2009.

La distribuzione dei Comuni per provincia (Tab.2) permette di rilevare, in proporzione, una

maggiore presenza di piccoli Comuni sotto i 5.000 abitanti nelle province di Belluno (88,4%) e di

Rovigo (80%).

Tab. 2 – Distribuzione dei Comuni per numero di abitanti

Fonte: elaborazioni su dati Istat 2009.

Questa concentrazione di piccoli comuni, soprattutto nell’area montana, del Rodigino, della Bassa

Padovana e del Basso Vicentino, è messa ancora meglio in luce dalla Fig. 1.

6

Fig. 1 - I Comuni del Veneto per classe dimensionale demografica Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

Come è stato rilevato dalle ricerche sul tema (Messina 2009; Salvato 2009), il Veneto registra un

notevole sviluppo delle forme di gestione associata per numero di enti coinvolti e di funzioni

associate.

Le forme dell’associazionismo in questa regione sono state fin ora il frutto di uno sviluppo

spontaneo, di scelte volontarie dei Comuni, a geometria variabile, spesso motivate solo dall’intento

di ottenere risorse aggiuntive ai magri bilanci comunali. La rete intercomunale, infatti, interessa oggi

il 73% dei comuni veneti, partecipanti a una o più forme associative (in quest'ultimo caso per la

gestione di servizi diversi): una caratteristica che è destinata a creare inevitabili problemi di

sostenibilità istituzionale.

La figura 2 mostra la collocazione geografica delle diverse forme di associazionismo intercomunale

presenti nel Veneto e le numerose aree di sovrapposizione di più forme associative che insistono sul

medesimo Comune.

Al 31/12/2010 si contavano nel Veneto 28 Unioni di Comuni, comprendenti 96 comuni associati, per

una popolazione di 457.352 abitanti (il 9,26% della popolazione regionale), mentre le Comunità

Montane (che, come previsto dalla normativa regionale, si trasformeranno, entro il 1 gennaio 2014,

in Unioni di comuni montani), sono 18 e riguardano 155 comuni, interessando una popolazione di

698.137 abitanti pari 14,14% della popolazione regionale e una superficie di 6.461 kmq, pari al

36,30% del territorio regionale.

Le Unioni sono presenti in prevalenza nelle province di Padova, Vicenza e Verona. Le convenzioni

sono diffuse in tutta la Regione, spesso in abbinamento con altre forme associative.

Belluno si distingue dalle altre province per essere un territorio completamente associato in

Comunità Montane: ne sono presenti 8, corrispondenti a 67 Comuni sui 69 della provincia,

coinvolgendo quindi quasi tutta la superficie provinciale e la popolazione residente.

7

Figura 2 – Una mappa sull’associazionismo intercomunale del Veneto

Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

Treviso si distingue invece perché è l’unica provincia che non presenta unioni di comuni, ma

prevalentemente consorzi e/o convenzioni. Questo probabilmente perché la Provincia di Treviso, a

differenza delle altre Province del Veneto9, ha svolto una funzione di sostegno dei piccoli comuni,

attuando un modo di regolazione più centrato sull’attore politico istituzionale, oltre che sulla

comunità locale, una specificità che può avere ancora un certo significato nel dibattito sul riordino

territoriale e sul ruolo degli enti intermedi come le Province.

In seguito alla recente normativa che obbliga i comuni sotto i 5000 abitanti ad associarsi, in

prevalenza si è fatto ricorso alla Convenzione fra 2-3 Comuni (Tab.3), perché meno impegnativa e di

ambito funzionale limitato. La Convenzione è infatti la forma privilegiata dai piccoli Comuni per

assolvere all’obbligo di gestione associata (47% dei Comuni veneti).

I Consorzi sono un numero limitato (9), anche se coinvolgono un numero rilevante di comuni. In

genere hanno svolto in modo soddisfacente le funzioni loro delegate, per questo sono stati mantenuti

dalla Regione, anche dopo il divieto di costituirne di nuovi.

Le Comunità montane (19) oltre a svolgere le funzioni proprie di tutela delle aree montane, in molti

casi sono destinatarie di deleghe da parte dei comuni. I Comuni, eccetto in alcuni casi, spesso non

sono soddisfatti della gestione associata della CM e in alcuni casi hanno costituito forme associate

9 Le Province nel Veneto, a differenza delle regioni “rosse” come la Toscana e l’Emilia Romagna, non hanno giocato un

ruolo significativo nelle politiche di sviluppo territoriale. Questo perché il “modo di regolazione” proprio della subcultura

politica bianca che ha caratterizzato questa regione non è stato centrato sull’attore politico istituzionale, ma sulla

comunità locale (localismo antistatalista) (Messina 2012b). In questo senso il caso della Marca Trevigiana si differenzia

notevolmente dal resto del Veneto, questa differenza è in buona misura riconducibile al peso esercitato storicamente,

almeno fino agli anni Settanta, dalla corrente Fanfaniana della DC (più laica) rispetto alla corrente Dorotea (più clericale)

dominante soprattutto nel Vicentino, che ha attribuito un ruolo centrale al governo locale, soprattutto provinciale. Cfr.

Jori (2009); Liverta L., Zagato F. (2009). Alla luce di questi elementi, può essere rilevante ricordare che il Governatore

della Regione, Luca Zaia, è stato Presidente della Provincia di Treviso.

8

“endo-comunitarie”.

Le unioni di comuni sono tendenzialmente piccole (in media 2-3 comuni), fatta eccezione per alcune

grandi unioni come la Federazione dei Comuni del Camposampierese (11) e l’Unione di Padova

Nord-Ovest (6), che costituiscono esempi di buone pratiche di gestione associata10

, mentre le fusioni

dei Comuni sono al momento ancora solo 2, anche se sono in corso studi di fattibilità per la

costituzione di nuove fusioni11.

Nel complesso, il risultato è un tessuto associativo disorganico, costituito da forme di gestione

associata tendenzialmente piccole, fatta eccezione per le C.M. e i Consorzi.

Tab. 3 - Forme di gestione associata intercomunali per comuni coinvolti, funzioni delegate e

numero di abitanti (2010)

Forme di gestione associata

N. gestioni associate

N. comuni

coinvolti 2

N. funzioni delegate

N. abitanti

compresi 3

Convenzioni1

119 213 132 n.r.

Consorzi 9 109 15 n.r.

Comunità Montane4 18 155 99 741.583

Unioni di Comuni 26 92 274 457.352

TOTALE 173 573 520 1.198.935

Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti. Dati al 31/12/2010 (1) Dato lordo comprendente l’adesione dei Comuni a più forme associative.

(2) Il totale è riferito solo alle CM e alle Unioni di Comuni.

(3) Dati riferiti a forme associative finanziate dalla Regione Veneto - Direzione Enti locali.

(4) La popolazione delle CM indicata nella Tab.3 è il risultato della popolazione delle 19 CM meno quella della CM

Bellunese. Si tratta pertanto di una stima, ancorché abbastanza attendibile.

Il Piano di riordino territoriale proposto dalla Regione parte dall’analisi di questi elementi, correlati a

un’analisi degli ambiti di settore riconosciuti dalla normativa regionale, al fine di giungere a una

razionalizzazione e a una semplificazione amministrativa. Di conseguenza il numero e la geografia

delle forme associative sono destinati a subire quindi una profonda trasformazione.

4. Gli ambiti territoriali di settore

L’analisi viene estesa, a questo punto, agli ambiti territoriali (ATO) individuati attraverso la gestione

di servizi pubblici locali, riconosciuti con legge regionale, che coprono l’intero territorio regionale,

quali: i Distretti di polizia locale, i Distretti di protezione civile, i Distretti socio-sanitari, i Bacini di

raccolta dei rifiuti, e gli Ambiti dei servizi idrici integrati.

La Tab.4 mette in evidenza l’articolazione di queste zonizzazioni in relazione alla numerosità media

dei Comuni coinvolti e al numero di abitanti.

Come si può evincere da questi dati, tanto gli Ambiti dei servizi idrici integrati, quanto i Bacini di

raccolta dei rifiuti fanno riferimento a un numero di abitanti elevato e vanno riferiti pertanto ad

ambiti territoriali di area vasta.

Al contrario, i Distretti di protezione Civile e i Distretti socio-sanitari, ma anche i Distretti di Polizia

locale, fanno riferimento ad un bacino di area omogenea, mediamente più contenuti, ed è pertanto su

questi ultimi che soffermeremo l’attenzione nella parte cartografica.

10

Sui casi di buone pratiche delle Unioni di comuni si veda anche Frieri, Gallo, Morenti (2012). 11

Sulle nuove fusioni, in corso di definizione, si veda la nota 19 infra.

9

Tab.4 – Ambiti territoriali di settore riconosciuti dalla normativa regionale

Ambiti territoriali

Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2011

(*) Le zonizzazioni sono riferite ad alcune delle funzioni fondamentali dei Comuni previste dal DL 95/2012.

Sono presenti 22 ASL suddivise in Distretti socio-sanitari, che gestiscono anche funzioni assistenziali delegate dai Comuni e

31 Aree di Polizia locale, suddivise operativamente in Distretti Polizia locale, costituiti su base volontaria.

La cartografia, riportata nelle fig. 3 fig. 4 e fig. 5, evidenzia la scarsa sovrapponibilità degli Ambiti di

area omogenea tra loro, soprattutto nell’area del Veneto centrale e, quindi, la frequente appartenenza

dello stesso Comune a zonizzazioni differenti, con evidenti problemi di sovrapposizione, maggiori

costi di coordinamento e conseguente spreco di risorse impiegate.

Fig. 3 – Distretti di Polizia locale del Veneto Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

Ambiti territoriali (*) N. ambiti

territoriali

N. medio

comuni

N. medio

abitanti

Distretti di Polizia locale 83 7,0 59.492

Distretti di Protezione civile e

anti-incendio b. 57 10,2 86.629

Distretti Socio-Sanitari 54 11,0 93.167

Bacini di raccolta dei rifiuti 24 24,2 205.744

Ambiti Servizi idrici integrati 8 72,6 617.232

10

Fig. 4 – Distretti di Protezione civile del Veneto Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

Fig. 5 – Aziende ULSS e Distretti socio-sanitari Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

11

Questi elementi, letti nel loro complesso, come sottolineato dalla stessa Regione Veneto, fanno

emergere la necessità di «razionalizzare i livelli di governance in un’ottica di semplificazione e di

ricomposizione secondo una logica plurifunzionale tale da consentire una maggiore efficacia

decisionale con conseguente ricaduta nell’efficiente gestione dei servizi a tutto vantaggio dei

cittadini» (Regione Veneto, 2013b, p.17).

Il Piano di riordino quindi, in questo contesto, intende offrire una serie di opportunità per una nuova

generazione di progetti di associazionismo comunale, soprattutto per i piccoli comuni che sono

maggiormente colpiti dall’impatto della crisi economica e della carenza di risorse pubbliche,

cogliendo questa occasione per ridisegnare la governance complessiva della regione.

5. Il Piano di riordino territoriale regionale (L.r. 18/2012)

Alla luce di questi elementi, la Regione Veneto, attraverso la L.r. 18/2012 (art.4), ha varato un

Piano di riordino territoriale12 che individua gli ambiti territoriali adeguati ed omogenei per lo

svolgimento in forma obbligatoriamente associata da parte dei comuni, delle funzioni fondamentali.

Il Piano di riordino, che viene aggiornato dalla Giunta regionale ogni tre anni, individua a questo

riguardo le seguenti aree geografiche omogenee, riportate dalla Fig.6: area montana e parzialmente

montana; area ad elevata urbanizzazione; area del Basso Veneto; area del Veneto centrale.

Figura 6 – Aree geografiche omogenee L.r. 18/2012, Art.8.

Fonte: Regione Veneto –Direzione Enti locali, Persone Giuridiche e Controllo Atti, 2013b

Soprattutto, il Piano di riordino individua, al tempo stesso (Art.8), 4 diversi tipi di Ambito

territoriale che si distinguono, oltre che per estensione territoriale, anche per funzioni conferite e

12

Il Piano di riordino territoriale, approvato dal Consiglio regionale con Deliberazione/CR n.72 del 28.06.2013, è stato

definitivamente approvato con la DGR n. 1417 del 6 agosto 2013. Inoltre le DGR 1419 e 1420 del 6 agosto 2013

definiscono i Criteri e modalità per l’assegnazione e l’erogazione di contributi ordinari e contributi statali

“regionalizzati” per favorire l’esercizio associato di funzioni e servizi comunali. Anno 2013 (Art. 10 c.1 L.R. 18 del

27.04.2012).

12

per “livelli di governance”, come evidenzia la Tab.5.

Tab.5 - Ambiti territoriali adeguati, L.R. 18/2012, Art. 8 (DGR n. 1417 del 6 agosto 2013)

Ambito territoriale Funzioni Livello dimensionale Governance e forme

associate

AMBITO DI AREA VASTA

-Funzioni di area vasta

(rifiuti, idrico … ecc.)

-Funzioni delle Province

-Funzioni della città

metropolitana

Provincia

Area città metropolitana

-Provincia

-Città metropolitana

-ATO Consigli di Bacino

(R.s.u.)

AMBITO TERRITORIALE

ADEGUATO E OMOGENEO DI

PROGRAMMAZIONE

Funzioni di programmazione Area ULSS

IPA

-Soggetto responsabile

dell’IPA

-Conferenza dei Sindaci

AMBITO TERRITORIALE

ADEGUATO GESTIONALE

-Funzioni non fondamentali

dei Comuni

- Funzioni fondamentali dei

Comuni

-Funzioni conferite da leggi

regionali

- Funzioni derivanti da leggi

statali

Dimensioni associative

funzionali alle politiche di

settore.

-Distretti sociosanitari,

-Distretti di polizia locale,

-Distretti di protezione

civile

-Unione di Comuni

-Unione montana

-Convenzione

-Consorzio

monofunzionale

AMBITO FUNZIONALE Funzioni fondamentali

a), b), c), d)

La dimensione della forma

associativa è riferita ai

valori demografici

dell’area omogenea, art. 8,

c.3, lett. d) LR 18/12

-Unione di Comuni

-Unione montana

-Convenzione

-Consorzio

monofunzionale

Fonte: Regione del Veneto – Direzione Enti locali, Persone giuridiche e Controllo atti, 2013

Per la definizione “a regime” degli ambiti territoriali adeguati (Tab.5) sono previste due fasi.

Dal 2014, per il primo triennio, partendo dall’individuazione del livello dimensionale minimo di

“adeguatezza funzionale”, si seguirà la seguente logica:

- Ambito funzionale minimale: viene individuato un livello dimensionale minimo di adeguatezza

funzionale, che i Comuni o le loro forme associative devono raggiungere, basato sui livelli

demografici previsti per ciascuna area omogenea definita dalla stessa normativa (Fig.6):

- Area montana, almeno 5.000 ab.

- Area elevata urbanizzazione, almeno 20.000 ab

- Area basso Veneto, almeno 8.000 ab

- Area Veneto centrale, almeno 10.000 ab.

- Ambito territoriale adeguato gestionale: è il riferimento per le politiche di settore, in particolare

il distretto socio-sanitario, il distretto di polizia locale, il distretto di protezione civile.

- Ambito adeguato ed omogeneo di programmazione: è l’ambito delle ULSS e delle IPA.

- Ambito di area vasta: è l’ambito provinciale, della città metropolitana, degli ATO/Consigli di

bacino.

Dopo il primo triennio, anche in seguito ad ulteriori aggiornamenti del Piano, l’obiettivo da

raggiungere sarà quello di ridurre i livelli di governance, fissando l’ambito dell’ULSS come ambito

prioritario, al quale anche gli ambiti di settore dovranno conformarsi.

I principi base che consentono di individuare la dimensione degli ambiti adeguati e della forma

associativa sono inoltre definiti come segue:

- Semplificazione dei livelli di governo a 4 livelli (Tab.5).

- Modularità della zonizzazione: l’ambito più grande deve contenere gli ambiti minori.

13

- Flessibilità della zonizzazione: all’interno dell’ambito gestionale, lo sviluppo delle forme

associative potrà realizzarsi in modo differente, nel rispetto dei limiti demografici e dei parametri

fissati dal Piano di riordino territoriale.

- Integrazione tra ambiti di programmazione e ambiti di gestione: nell’ambito territoriale deputato

alla programmazione decentrata, devono essere ricompresi gli ambiti dei soggetti preposti alla

gestione dei servizi e delle funzioni in forma associata.

Secondo i vincoli posti dalla normativa nazionale, risulterebbe obbligato ad associarsi il 47,7% dei

comuni veneti, mentre la popolazione regionale coinvolta sarebbe (solo) il 13,5%.

Tuttavia, come mette in luce la stessa Regione Veneto (2013b), la novità di maggior rilievo del Piano

di riordino regionale è data proprio dall’aver introdotto il concetto di “dimensione territoriale

adeguata e omogenea”, distinguendo, e al tempo stesso collegando, il livello di gestione dei servizi

da quello di programmazione dello sviluppo locale, con una portata di rinnovamento complessivo

della geografia politica e amministrativa in esso contenuta. Se infatti obiettivo del legislatore

nazionale è, in prima istanza: «il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese

per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni», per la Regione Veneto questa riforma

costituisce invece anche un’occasione importante per «guidare un percorso, concertato e condiviso

con gli Enti Locali, volto alla promozione delle gestioni comunali associate» (corsivo mio), con

l’obiettivo primario di dare vita a un riordino territoriale non imposto dall’alto, ma condiviso con i

Comuni stessi, oltre naturalmente a realizzare risparmi di spesa e, quindi, a ridurre la pressione

fiscale locale. Obiettivo della riforma è infatti quello di incentivare le unioni di comuni che siano in

grado di raggiungere una dimensione territoriale coincidente con quella degli ambiti territoriali

adeguati ed omogenei in cui gestione dei servizi e programmazione dello sviluppo locale coincidano

in un unico ambito territoriale 13.

Il Piano di riordino territoriale intende costituire quindi un punto di svolta per il modo di regolazione

del Veneto avviando, da una lato, un ripensamento del quadro istituzionale delle autonomie locali,

attraverso l’individuazione di una ‘dimensione territoriale adeguata ed omogenea’ e, dall’altro,

guidando un processo di concertazione del quale possano essere parte attiva, non solo i Comuni

obbligati (con meno di 5.000 abitanti), ma tutti i Comuni del Veneto (quindi anche le città

capoluogo), in relazione alle proposte di aggregazione dei Comuni stessi.

Per il modo di regolazione del Vento, tradizionalmente segnato da uno stile amministrativo non

interventista e da un modo di regolazione tipicamente localistico (Messina 2012b), questa

trasformazione, se riuscirà ad essere effettivamente implementata, costituirà senz’altro una vera e

propria rivoluzione del modo di regolazione: da un modo di regolazione non guidato, a un modo di

regolazione guidato e coordinato dal livello di governo regionale. Per questa ragione il percorso di

riforma è particolarmente interessante e va seguito in tutte le sue implicazioni e i suoi possibili

sviluppi.

Vista la portata dei cambiamenti introdotti, si è consapevoli che i tempi di attuazione non potranno

essere brevi e che sarà perciò opportuno un monitoraggio costante dell’implementazione della

policy, oltre ad una forte volontà politica che persegua questo obiettivo con costanza e

determinazione nel tempo. In questa prospettiva, la Regione ha deciso di investire, opportunamente,

da un lato, sulla formazione di nuove figure professionali, chiamate a svolgere, in questo ambito, un

lavoro di “manager di rete”, più che di tipo amministrativo in senso tradizionale14 e, dall’altro, su

13

Al momento questo avviene solo nel caso della Federazione dei Comuni del Camposampierese (Gallo 2009), che

tuttavia presenta un’estensione territoriale pari a quella del Distretto di polizia locale, ma non della rispettiva ULSS (a

questo riguardo si sta valutando infatti l’estensione dell’Unione anche ai due Comuni mancanti di Vigodarzere e

Vigonza). 14

In questo ambito vanno considerate: la convenzione quadro tra Università di Padova e Regione Veneto, attivata nel

2009, per la formazione di funzionari e dirigenti comunali in materia di associazionismo intercomunale, e la

14

forme specifiche di incentivo15 alla costituzione di unioni di comuni che rispondano ai criteri degli

“ambiti territoriali adeguati ed omogenei”.

Da un primo monitoraggio16 compiuto in questo contesto tra il 2012 e il 2013, si è potuta riscontrare

una serie di evidenze empiriche utili per cominciare ad analizzare questo processo di

trasformazione.

In primo luogo si è riscontrato che, alla fine del 2012, la maggioranza delle amministrazioni locali

venete aveva adempiuto all’obbligo della gestione associata di tre funzioni fondamentali mediante

la stipula, ove possibile, di “convenzioni a geometria variabile” con partner diversi per funzioni

diverse, nell’illusione di continuare a gestire in proprio tutte le funzioni: ciò che, di fatto, sta

impedendo di continuare a farlo è l’oggettiva mancanza di risorse. Anche se la convenzione viene

considerata dalla Regione una forma “transitoria” funzionale al passaggio graduale verso un assetto

territoriale che privilegia le unioni di comuni, possiamo concludere, pertanto, che ciò che impedisce

la continuazione di una gestione individuale e localistica dei servizi è di fatto, in prima istanza, la

mancanza di risorse economiche e che molta strada c’è ancora da fare sul piano culturale per

accompagnare il cambiamento di prassi amministrative consolidate.

In secondo luogo, si è riscontrato che gli amministratori che non possono scegliere i partner per

motivi geografici (es. comuni delle valli di montagna, comuni ai confini della provincia), hanno

fatto di necessità virtù e si sono adattati, chi più chi meno, all’idea di governare insieme, attraverso

convenzioni polifunzionali o l’unione dei comuni.

In terzo luogo, si riscontra che gli amministratori che percepiscono la gestione associata, o la

fusione, come un’opportunità e come un cambiamento ineludibile sono ancora in realtà una

minoranza (spesso disorientata dal cambiamento continuo della normativa e dai continui tagli della

finanza locale) che sta tentando di cambiare il proprio modo di governare puntando alla

costituzione di nuove unioni dei comuni17, e in qualche caso provando a intraprende la strada della

fusione18, anche tra comuni non obbligati, alla luce anche degli incentivi regionali.

Ma per avere un quadro più completo dell’impatto effettivo che il Piano regionale di riordino

collaborazione realizzata nell’ambito del Master di I livello in Governo delle reti di sviluppo locale dedicato alla

formazione della figura professionale del manager di rete. 15

A questo riguardo si veda la DGR n. 1420 del 6 agosto 2013. Inoltre, di particolare interesse in questo ambito è anche

il Progetto “ELOGE”, realizzato in collaborazione tra Regione Veneto, Università di Padova e Consiglio d’Europa, che

prevede la definizione di una certificazione europea di buona governance per le Unioni di Comuni “virtuose”, rispondenti

ai principali criteri definiti dal Piano di riordino territoriale regionale. 16

I dati raccolti con la ricerca sul campo (Messina, 2009) sono stati aggiornati e completati grazie alla ricerca PRIN

citata e alla partecipazione ai lavori del Centro di competenza regionale sul Riordino territoriale, per conto

dell’Università di Padova, attivato in seguito alla promulgazione della L.r. 18/2012. 17

I Comuni che si stanno attivando per definire nuove Unioni sono diversi e, poiché il processo è in corso, non è

possibile al momento avere un quadro complessivo perché è in continua evoluzione. A titolo esemplificativo possiamo

segnalare i seguenti casi per i quali è stato realizzato lo studio di fattibilità: nel Veneziano l’unione del Miranese (Noale,

Martellago, Mirano, Salzano, S. Maria di Sala, Scorzè, Spinea); nel Rodigino l’unione del Delta del Po (Ariano nel

Polesine, Corbola, Porto Tolle, Taglio di Po) e dell’Alto Polesine (Calto, Castelmassa, Castelnovo Bariano, Ceneselli);

nel Vicentino l’unione della Val Brenta (Campolongo, Cismon, Pove, S. Nazario, Solagna, Valstagna) e della Valle del

Chiampo (Nogarole, Altissimo, Crespadoro, S. Pietro Mussolino, Chiampo); nella Bassa Padovana, l’unione della

Saccisica (Piove di Sacco, Arzergrande, Brugine, Codevigo, Corezzola, Legnaro, Polverara, Pontelongo, S. Angelo di

Piove) e del Conselvano (Conselve, Agna, Anguillara Veneta, Arre, Bagnoli di Sopra, Bovolenta, Candiana, S. Pietro

Viminario, Terrassa Padovana); nel Trevigiano l’unione di Treviso Est (Breda di Piave, Carbonera, Maserada sul Piave). 18

Stanno valutando l’ipotesi della fusione di comuni, per esempio, 6 Comuni del Rodigino (Arquà Polesine, Costa di

Rovigo, Frassinelle Polesine, Pincara, Villamarzana e Villanova del Ghebbo) che daranno vita al Comune di Civitanova

Polesine, di circa 11.600 abitanti. E così pure 4 Comuni trevigiani della Sinistra Piave (Trichiana, Mel, Limana e Lentia);

4 Comuni della Bassa Padovana (Due Carrare, Cartura, Pernumia e San Pietro Viminario); 2 Comuni del Bellunese

(Longarone e Castellavazzo); i Comuni padovani di Este e Ospedaletto Euganeo, ma anche alcuni comuni della cintura

urbana di Padova, come Cadoneghe, che stanno valutando la fusione con il Comune capoluogo.

15

territoriale intende apportare alla governance territoriale è necessario allargare l’analisi anche agli

strumenti di programmazione e pianificazione territoriale multilivello che incidono sul territorio.

Questo proprio perché l’ambizione del Piano di riordino è quello di costituire un’occasione per

ripensare globalmente la governance territoriale, non solo dal punto di vista delle gestione dei

servizi associati, ma anche da quello delle politiche di sviluppo locale.

6. Strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale: IPA e GAL

Analizzeremo adesso alcuni dei principali strumenti di programmazione dello sviluppo territoriale

regionale, che operano anch’essi attraverso forme di zonizzazione, che hanno un impatto

significativo sul governo del territorio, e con i quali il Piano di riordino territoriale sarà chiamato a

raccordarsi. Verranno di seguito presi in esame le IPA e i GAL con riferimento alla pianificazione

territoriale per le aree rurali e al Piano Territoriale Regionale di Coordinamento.

L’intesa Programmatica d’Area (IPA) rappresenta il principale strumento attraverso cui la Regione

Veneto offre ai territori la possibilità di definire una propria strategia di sviluppo, condivisa tra gli

attori istituzionali, economici e sociali di riferimento, coerentemente con la stessa programmazione

regionale. L’istituto dell’IPA19

si propone sostanzialmente di tracciare una linea di continuità con

l’esperienza della Programmazione negoziata in Veneto, ponendosi come un’evoluzione e

declinazione particolare del Patto Territoriale, volto a diffondere e promuovere tale modello anche in

altre realtà sub-regionali dotate di un elevato grado di omogeneità dal punto di vista socio-economico

e delle necessità di intervento. L’IPA non è quindi un istituto amministrativo, ma ha carattere

prettamente politico: un tavolo permanente di concertazione fra attori locali, e tra questi e i livelli di

governo superiori, per delineare strategie di sviluppo del territorio condivise e coerenti con la

programmazione regionale, nazionale ed europea.

Fig. 7 - Le Intese Programmatiche d’Area del Veneto, 2013. Fonte: Regione Veneto. Direzione Programmazione.

Attualmente (agosto 2013), sono attive sul territorio regionale 25 IPA, 16 delle quali sono composte

19

La IPA sono state istituite con la L.r.35/2001 Nuove norme sulla programmazione e promosse con il DGR. 2796/2006

Programmazione decentrata - Intese Programmatiche d'Area (IPA). Per l’attuazione dei progetti delle IPA si fa

riferimento a risorse regionali ex L.r.13/1999, Interventi regionali per i patti territoriali, risorse statali FAS (Fondo Aree

Sottoutilizzate) 2000 – 2006 e risorse pubbliche degli EE.LL. sottoscrittori.

16

dal nucleo di soggetti già promotori dei Patti Territoriali (L.r.13/1999) e/o da altre iniziative che ne

hanno ampliato il partenariato originario, mentre ulteriori 9 IPA fanno riferimento a nuove iniziative

nate a partire dal 2007. Come mostra la Fig.7, le aree non coperte dalle IPA sono principalmente

quelle delle città di Venezia, Padova e Verona e di (pochi) altri comuni limitrofi che, salvo qualche

rara eccezione, gravitano prevalentemente sulle città capoluogo.

Al novembre 2012 la copertura del territorio regionale si attestava all’86,1% dei suoi Comuni e al

69,1% della popolazione residente, passando, in confronto ai dati del 2007, da 355 a 500 enti locali

aderenti e da poco meno di due milioni, a oltre tre milioni di abitanti, su un totale di poco meno di 5

milioni di abitanti del Veneto.

Beneficiari dei contributi sono stati gli Enti locali, in prevalenza i Comuni, che hanno realizzato

opere e infrastrutture pubbliche nell’ambito dello sviluppo locale, con particolare riferimento al

turismo, alla promozione di prodotti tipici locali, alla valorizzazione dei beni culturali e delle risorse

paesaggistiche, alla riqualificazione urbana, mentre sono stati esclusi gli ambiti della mobilità, della

difesa del suolo, del ciclo dell’acqua e delle reti telematiche.

I partenariati risultano composti da un numero medio di circa 41 membri, di cui gli enti locali

costituiscono circa il 50%, seguiti dalle associazioni di categoria (22%) e rappresentanze sindacali

(6,5%), Province o Comunità montane (4,7%), mentre i soggetti privati in media non superano

l’1,7%. La difficoltà di coinvolgimento dei soggetti non istituzionali, soprattutto privati, costituisce

infatti il maggior punto di debolezza delle IPA segnalato dagli stessi soggetti responsabili (Bassetto

2011, p. 92). La quasi totalità delle IPA (95,7%) si è avvalsa inoltre, come avveniva già per i Patti

territoriali, dell’assistenza tecnica di un soggetto esterno specializzato sia per il supporto all’attività

del partenariato, sia per la realizzazione del documento di programmazione. Dal punto di vista della

velocità di realizzazione degli interventi, considerando i progetti beneficiari di finanziamento tra il

2004 e il 2010, alla data del 1° gennaio 2013, solamente il 42% di questi risultava essere concluso, il

40% era in fase di esecuzione, mentre il 18% dei progetti si trovava ancora nella fase progettuale.

Dal punto di vista gestionale, poiché le IPA sono solo un tavolo tecnico e non un ente gestore,

risultano essere più funzionali quelle IPA che coincidono per estensione territoriale con unioni di

comuni, come nel caso del Camposampierese, oppure con i GAL nelle aree rurali, come per esempio

nel caso dell’IPA Prealpi Bellunesi20

.

Gruppi di Azione Locale (GAL): attivati in relazione all’iniziativa comunitaria LEADER per lo

sviluppo rurale, progettano e attivano gli interventi ritenuti prioritari nelle singole aree, in sintonia

con gli obiettivi individuati dal Programma di Sviluppo Rurale del Veneto (PSR Asse 4 – LEADER

2007-2013), promuovendo progetti di sviluppo rurale ideati e condivisi a livello locale, al fine di

rivitalizzare il territorio, creare occupazione e migliorare le condizioni generali di vita delle aree

rurali. I 14 GAL attivati per il periodo di programmazione 2007-2013 (Fig.8) hanno coinvolto

un’elevata quota di territorio regionale (13.144,21 kmq) e 378 comuni (su 581), interessando aree

rurali con notevoli fragilità. In particolare, sono stati inclusi tutti i Comuni classificati dalla Regione

come aree rurali con problemi complessivi di sviluppo (area D), il 93% dei Comuni ricadenti nelle

aree rurali intermedie (area C) e il 48% dei Comuni classificati come aree ad agricoltura

specializzata (area B). Si notino in particolare i due GAL del Veneziano della Fig.8 (Venezia

Orientale e Antico Dogado).

Si è avuto inoltre un incremento della superficie (fino al 71%) e della popolazione (al 40%)

beneficiarie rispetto alla programmazione precedente 2000-2006. Il numero dei GAL è aumentato da

8 a 14, e 4 dei 6 nuovi GAL (Alta Marca Trevigiana, Bassa Padovana, Pianura Veronese, Polesine

Adige, Terra Berica, Terre di Marca) insistono su territori che non hanno beneficiato del precedente

20

Un’analisi comparata di questi due casi studio di IPA, Camposampierese e Prealpi Bellunesi, è stata realizzata

nell’ambito della ricerca PRIN citata, cfr. Bassetto, Domorenok, Messina, Salvato (2013). Sul caso dell’Unione del

Comuni e dell’IPA del Camposampierese, in particolare, cfr. Gallo (2009); Messina, Gallo, Parise (2011).

17

programma LEADER+.

Fig. 8 - Gruppi di Azione Locale (GAL) e PIA-R (Progetti Integrati per le Aree Rurali) del Veneto. 2013 Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).

I PIA-R Progetti Integrati per le Aree Rurali, sono invece i partenariati pubblico-privati che

elaborano, promuovono e danno attuazione a specifiche strategie di sviluppo rurale che si applicano

esclusivamente alle aree non interessate dall’attuazione dei GAL e dei relativi Programmi di

Sviluppo Locale, approvati dalla Regione ai sensi dell’Asse 4 – LEADER. Come mette bene in luce la

Fig.8, i PIA-R sono localizzati essenzialmente nell’area della campagna urbanizzata del Veneto

centrale, mentre risultano essere escluse dalle politiche di sviluppo rurale solo le città capoluogo di

Venezia, Padova, Vicenza e Verona e alcune parti delle relative cinture urbane.

A differenza delle IPA, i GAL si costituiscono come enti gestori. Tra le forme giuridiche adottate dai

GAL prevale l’Associazione con personalità giuridica di diritto privato riconosciuta (8), seguita da

Società consortile a responsabilità limitata (4), Società cooperativa (2). Nella composizione del

partenariato dei GAL veneti (440 soci) si registra una maggioranza di enti pubblici (56%), che per la

maggior parte (174) è costituita da Comuni e loro associazioni (19 comunità montane e un’unione).

Va notata, tuttavia, la variazione del numero di soci e la diversità di equilibrio tra la componente

pubblica e quella privata nei diversi GAL, messa in luce dalla Tab.6: quattro GAL si distinguono per

il partenariato particolarmente numeroso, con una preponderante componente pubblica, mentre i

GAL supportati da partenariati più ridotti si caratterizzano per una più numerosa adesione dei soci

privati.

18

Tab.6 - Composizione dei partenariati locali dei GAL Veneti

05

10152025303540

Soci Pubblici Soci Privati

Fonte: Regione Veneto, Direzione Settore Primario 2013.

La valutazione intermedia del PSR FEASR 2007-2013 ha messo in evidenza come le progettualità

sostenute in questo ambito, quando sono state realizzate con l’appoggio delle reti delle IPA21, hanno

dimostrato una più alta capacità di integrazione tematica e intersettoriale, in particolare con

riferimento alle misure dedicate alla valorizzazione e qualità del paesaggio, al recupero,

riqualificazione e valorizzazione del patrimonio storico-architettonico, all’incentivazione e allo

sviluppo delle imprese e dei servizi. Tale tendenza si è verificata anche nelle aree di attuazione dei

PIA-R, quando essi coincidevano con l’area di unioni di comuni e/o di IPA. Per converso, è stato

segnalato un impatto negativo prodotto dalla coincidenza/sovrapposizione territoriale dei GAL e

delle IPA, nel momento in cui i due strumenti hanno sollecitato diverse proposte progettuali su temi

simili dallo stesso bacino di soggetti locali. I casi di perfetta o sostanziale coincidenza dei GAL e

PIA-R con le rispettive IPA mostrano quindi interessanti punti di forza nella capacità di integrazione

intersettoriale della progettualità, ma anche casi di ridondanza progettuale, tutt’altro che strategica,

quando manca la capacità (o la volontà) di coordinamento dei diversi tavoli.

Questi stessi dati sono ancora più importanti se analizzati alla luce dei dati sull’efficacia delle IPA in

termini di progettualità: di 383 progettualità presentate sul bando ex.l.r.13/1999 per il periodo 2004-

2010, ritenute strategiche ai rispettivi tavoli di concertazione, il 32,8% ha conseguito il

finanziamento, il 19,2% è stato ritenuto ammissibile ma non finanziabile grazie al bando, mentre il

48% è stato dichiarato non coerente con i criteri stabiliti dal bando in questione. Un dato che mostra

mediamente un’accresciuta capacità della Regione di valutare le proposte di finanziamento pervenute

e di selezionarle sulla base di precise priorità, coerenti con i documenti di programmazione su fondi

europei22. Tuttavia, poiché l’istituzione delle IPA non è avvenuta nello stesso periodo, diventa

impossibile compiere una valutazione complessiva della loro efficacia, che tenga conto anche delle

progettualità implementate dalle IPA al di fuori delle risorse dedicate dal suddetto bando regionale.

Si possono individuare, però, alcune esperienze virtuose che sono segnate da un numero

particolarmente elevato di iniziative come, per esempio, le IPA Dolomiti Venete (48 progetti),

Sistema Polesine (40) e Prealpi Bellunesi (28).

21

I casi di coincidenza sostanziale (S) e perfetta (P) dei territori GAL con i rispettivi ambiti IPA sono: Alta Marca

Trevigiana (S), Alto Bellunese (P), Baldo Lessinia (S), Pianura Veronese (S), Prealpi Bellunesi (P), Terra Berica (P) e

Venezia Orientale (P). 22

Sull’impatto delle politiche europee sulle politiche regionali di sviluppo territoriale e sull’europeizzazione, con

particolare riferimento al caso del Veneto, si veda la ricerca in Messina (2011).

19

La costruzione dei nuovi partenariati locali, quindi, dovrebbe tener conto della sovrapposizione dei

diversi ambiti di gestione e di programmazione esistenti nel territorio regionale e aumentarne

l’efficacia. La valorizzazione e il consolidamento dei legami esistenti tra i diversi soggetti coinvolti

nella progettazione dello sviluppo locale può costituire una reale opportunità di razionalizzazione

delle risorse e di ottimizzazione dell’intervento sostenuto dai diversi fondi regionali ed europei.

Ciò che fa la differenza, a questo punto, è però la capacità dei territori di perseguire, attraverso le

progettualità presentate, obiettivi di sviluppo locale in senso strategico davvero condivisi e in grado

di catalizzare le risorse disponibili con un approccio plurifondo23, che sia al tempo stesso

effettivamente condiviso e sostenuto dal livello regionale di governo, oltre che da quello nazionale.

Questo richiede tuttavia un cambiamento significativo del modo di regolazione regionale, con

l’adozione di un approccio integrato ed intersettoriale delle politiche di sviluppo locale, a

cominciare dai criteri adottati per la lettura del territorio, in senso strategico, già nei documenti di

programmazione regionali che costituiscono un riferimento per i documenti e le politiche di sviluppo

locali.

7. L’area del Veneto centrale: dalla campagna urbanizzata alla città metropolitana?

Per comprendere la radicalità del cambiamento di approccio richiesto dalle politiche integrate di

sviluppo locale, cambiamento per altro promosso e fortemente sostenuto anche dalla nuova

programmazione24 europea 2014-2020, diventa importante focalizzare a questo punto l’attenzione sui

documenti di programmazione regionali che classificano il territorio in funzione delle politiche di

sviluppo locale variamente inteso. In particolare soffermeremo l’attenzione sulla classificazione delle

aree rurali e delle aree urbane-metropolitane per mettere in luce le principali contraddizioni

emergenti che riguardano in particolare l’area del Veneto centrale della campagna urbanizzata e

industrializzata che, va ricordato, ha costituito l’area di riferimento del “modello veneto” di sviluppo

dei sistemi di piccola e media impresa: un “modello” che richiede oggi di essere fortemente ripensato

per traghettare il Veneto manifatturiero verso un’economia globale della conoscenza (Rullani 2006).

Zonizzazione delle Aree rurali. In relazione alla programmazione comunitaria per lo sviluppo rurale

(PSR-FEASR) la Regione Veneto ha adottato una classificazione delle aree rurali, presentata nella

Fig.9, che sostanzialmente copre quasi l’intero territorio regionale, con esclusione delle città

capoluogo di provincia del Veneto centrale25

.

23

L’approccio plurifondo, sostenuto dalla nuova programmazione europea 2014-2020, sta sollevando in realtà diversi

problemi di praticabilità a livello regionale, poiché richiede un approccio integrato ed intersettoriale delle politiche di

sviluppo che risulta essere ancora difficilmente attuabile, poiché incongruente con la prassi amministrativa consolidata,

ancora tipicamente settoriale. Molte sono infatti le resistenze al cambiamento che arrivano sia dalla componente politica

sia da quella amministrativa. 24

Sull’approccio place based fatto proprio dalla nuova programmazione europea 2014-2020 si veda il “Rapporto Barca”,

cfr. Barca F. (2009), Un’agenda per la riforma della politica di coesione. Una politica di sviluppo rivolta ai luoghi per

rispondere alle sfide e alle aspettative dell’Unione Europea, DpS, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Roma,

http://www.dps.tesoro.it 25

Gli elementi di analisi sulla programmazione regionale per lo sviluppo rurale sono stati raccolti in occasione della

ricerca realizzata in collaborazione con la Regione Veneto – Direzione Settore Primario, in occasione della redazione del

nuovo PSR 2014-2020, Priorità 6. Il gruppo di lavoro che sto coordinando per l’Università di Padova è costituito da

Ekaterina Domorenok, Nicoletta Parise e Luca Simone Rizzo.

20

Fig. 9 - Le aree rurali del Veneto. 2013

Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario 2013. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).

Come mettono in luce le Tab.7 e Tab.8, secondo le aree rurali individuate da tale classificazione

(costruita a partire dalla dimensione demografica, incrociata con le caratteristiche altimetriche del

territorio), le due province prevalentemente, se non esclusivamente, rurali risultano essere infatti

quelle di Belluno e di Rovigo.

Tab.7 – La classificazione regionale delle Aree rurali – Censimento 2011

Area montana n° Comuni Popolazione Superficie (kmq) D -Aree rurali con problemi complessivi di sviluppo Si 117 344.801 7% 5.346,29 29%

C -Aree rurali intermedie No 77 394.896 8% 2.437,89 13% Si 11 67.404 1% 320,52 2%

B2-Aree rurali ad agricoltura intensiva specializzata No 232 1.490.373 31% 6.494,06 35% Si 37 180.435 4% 788,63 4%

B1-Aree urbanizzate No 95 1.324.964 27% 1.963,32 11% Si 7 141.749 3% 212,71 1%

A-Poli urbani No 4 660.068 14% 645,07 4% Si 1 252.520 5% 198,92 1%

Totale 581 4.857.210 100% 18.407,42 100%

Fonte: Regione Veneto - Direzione Settore Primario 2013. Programma di Sviluppo Rurale (PSR).

La parte più consistente della regione (70%), sia in termini di popolazione che di superfice, risulta

classificata invece come area intermedia di “campagna urbanizzata” (e industrializzata), coincidente

con l’area B1 e B2 della Fig.9, che è l’area produttiva del Veneto centrale.

21

Tab.8 – Ripartizione del territorio Veneto per tipologia (Rurale, Urbano, Intermedio)

Label Tipi di regione (NUTS3) NUTS 2010

Total Regioni rurali Regioni intermedie Regioni Urbane

km2 km2 % of total km2 % of

total km2 % of total

European Union (27) 4.404.166 2.274.607 51,6 1.691.579 38,4 437.980 9,9 Nord-Est 62.310 22.994 36,9 38.638 62,0 678 1,1

Veneto 18.399 5.468 29,7 12.931 70,3 0 0,0 Verona Intermedia 3.121 3.121 Vicenza Intermedia 2.725 2.725 Belluno Prevalentemente rurali 3.678 3.678 Treviso Intermedia 2.477 2.477 Venezia Intermedia 2.467 2.467 Padova Intermedia 2.142 2.142 Rovigo Predominanti rurali 1.790 1.790

Fonte: Eurostat 2012

A questo riguardo va evidenziato che l’area B, della campagna urbanizzata e industrializzata,

presenta ancora oggi una serie di carenze di servizi di base e infrastrutturali che impediscono di

classificarla come area urbana a pieno titolo, pur essendo di fatto una realtà territoriale fortemente

antropizzata e densamente popolata, segnata da forti flussi pendolari casa-lavoro di carattere

metropolitano, da una forte espansione dell’urbanizzazione diffusa e costituendo, al tempo stesso,

una delle aree manifatturiere più importanti d’Europa (circa un’impresa ogni 9 abitanti).

Per queste ragioni l’area del Veneto centrale, pur presentando ancora significativi elementi di

ruralità, andrebbe considerata in maniera diversa, in relazione a una serie di altre variabili dello

sviluppo del territorio di tipo urbano-metropolitano che la classificazione regionale delle aree rurali

non consente di rilevare in modo adeguato rispetto alle esigenze del contesto e alle sue

trasformazioni anche recenti e, soprattutto, di un suo sviluppo evolutivo in senso strategico: da area

rurale-urbanizzata ad area metropolitana.

In quest’area sono stati implementati i PIA-R, ma sono presenti anche 12 IPA. Queste ultime hanno

costituito una interessante forma di coordinamento26, con l’obiettivo di poter interloquire con la

Regione in materia di politiche per lo sviluppo dell’area vasta in senso strategico. Una scelta di

sviluppo strategico di cui certo non possono farsi carico i singoli Comuni, ma che richiede un

progetto di lungo periodo di sviluppo dell’area vasta, condiviso da più livelli di governo, regionale,

ma anche nazionale.

Area urbana-metropolitana

Gli studi sull’area metropolitana del Veneto centrale, nota anche come “città diffusa” (Indovina,

1990; 1999), o “arcipelago metropolitano” (Indovina 2005; 2009), sono ampiamente noti e richiamati

anche dai documenti di programmazione per lo sviluppo territoriale regionale, come il Piano

Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) del 1992, rinnovato del 2007 (Documento

preliminare Dgr. 2587/2007), che individua due principali sistemi metropolitani: uno veronese a

struttura monocentrica, l’altro nell’area del Veneto centrale a struttura policentrica, a cui si collega

l’area della Pedemontana ad “aggregazione dispersa”, che presenta relazioni di tipo metropolitano.

L’area del Veneto centrale compresa tra le province di Venezia, Padova e Treviso e Vicenza ha

infatti tutte le caratteristiche proprie di un’area ad alta densità metropolitana (Fig.10), ovvero di un

territorio legato a una o più città centrali da rapporti di «interdipendenza funzionale» e di «elevata

integrazione economica e sociale» (Fregolent 2013), che tuttavia presenta una forte frammentazione

26

Di particolare interesse è il coordinamento “dal basso” operato dalla IPA del Veneto centrale, partito dapprima con le 5

IPA del Camposampierese (PD), Castellana (TV), Montebellunese (TV), Cittadellese (PD) e Bassanese (VI), durante la

programmazione 2007-2013, che hanno dato vita al “Pentagono centrale Veneto” (Doriguzzi Bozzo, Galati, Nicolao,

Venturin, 2008). Oggi il coordinamento comprende 8 IPA convenzionate fra loro, ma si estende fino a comprendere 12

IPA dell’area. Il coordinatore è oggi il sindaco del Comune di Schio (VI).

22

dal punto di vista politico-amministrativo, essendo suddivisa in 4 Province e oltre 200 Comuni, con

evidenti difficoltà di governo dell’area vasta.

Fig.10 - L’area centrale veneta. Il costruito fino al 1970 (colore scuro) e il costruito dal 1970 al 2007 (colore chiaro).

Fonte: Fregolent (2013)

In questo contesto, quindi, la riforma di riordino territoriale, a partire dall’abolizione delle Province e

dei loro confini amministrativi, diventa di importanza strategica decisiva per potenziare il processo

di metropolizzazione come strategia di sviluppo, promossa dalle prossime politiche europee27

: una

strategia che punta sul potenziamento di quelle “funzioni metropolitane”, riconosciute anche nel

nuovo Statuto regionale (art.14), necessarie per attrarre quelle risorse proprie di un’economia della

conoscenza e del terziario avanzato, che sostituiscono una condizione fondamentale per collegare i

territori con le reti globali. Si tratta di un’area che per dimensioni demografiche (2,6 milioni di

abitanti) supererebbe il caso della città metropolitana di Torino, e sarebbe del tutto simile alle aree

metropolitane di Toronto e Barcellona, che produce un PIL di circa 40 milioni di dollari annui, come

Londra e Stoccolma, ma che necessita di un progetto politico condiviso di governo di area vasta che

sia in grado di traghettare il Veneto manifatturiero nell’era dell’economia globale e del terziario

avanzato. L’integrazione politica di questa area metropolitana “di fatto”, potrebbe costituire,

senz’altro, un’importante occasione per migliorare la qualità dei servizi per le persone e per le

imprese che operano sul territorio e, più in generale, per la qualità della vita dei suoi abitanti, come è

stato messo bene in luce dal Rapporto OCSE (2010). Ma, soprattutto, potrebbe costituire un traino per

lo sviluppo dell’intera regione e rispondere in modo adeguato a quanto richiesto dalle politiche

dell’Unione Europea per le City Regions nei prossimi anni.

La Fig.11, costruita sulla base dei flussi pendolari, mostra ancora meglio la rilevanza delle relazioni

intercomunali che collegano in modo sistematico l’area di Padova-Venezia-Treviso con la

Pedemontana che si estende fino alla provincia di Vicenza, e la sostanziale distanza da queste

27

La programmazione 2014-2020 del FESR destinerà almeno il 5% delle risorse del Fondo su base nazionale ad azioni

integrate per lo sviluppo urbano sostenibile delegate alle città metropolitane (City regions). In questa prospettiva la

Commissione europea istituirà e finanzierà una piattaforma per lo sviluppo urbano costituita da 300 città, con un

massimo di 20 città metropolitane per ciascuno Stato membro. In Italia: circa 20 miliardi di euro. Circa 1 miliardo di euro

per Città metropolitana. A questo riguardo, con riferimento al caso del Veneto, cfr. Messina (2013).

23

dinamiche di aree della stessa provincia di Venezia, come la Venezia Orientale di San Donà di Piave

e Portogruaro e l’area meridionale di Chioggia, Cavarzere e Cona, che sono infatti classificate come

aree rurali (con i relativi GAL) dalla stessa programmazione regionale.

Fig. 11 - Regione Veneto. Relazioni intercomunali con più di 200 spostamenti giornalieri (2001).

Fonte: Elaborazione Regione Veneto – Direzione Sistema Statistico Regionale e Trastec scpa, 2007.

Quello del Veneto si presenta quindi come un caso di estremo interesse perché segnato da un

marcato policentrismo dell’area metropolitana del Veneto centrale e dalla sostanziale sfasatura di

questa rispetto al territorio attribuito di diritto alla Città metropolitana di Venezia, ovvero il territorio

della Provincia di Venezia (L.135/2012). Ci troviamo cioè in presenza di un caso esemplare in cui

l’Area metropolitana “di fatto” non coincide per nulla con la Città metropolitana “di diritto”,

costruita, ancora una volta, a partire dal territorio della provincia di Venezia28

, i cui confini

amministrativi risultano essere del tutto inadeguati. I dati raccolti mostrano oltretutto un’evidente

incongruenza con le politiche di sviluppo locale in atto sul territorio regionale, tra aree rurali e area

metropolitana. Ma, soprattutto, mostrano una palese difficoltà culturale della classe politica locale,

dei piccoli comuni dell’area del Veneto centrale, a percepirsi come rappresentanti di un territorio in

corso di metropolizzazione, piuttosto che (ancora) di periferia29.

28

Un altro esempio di area metropolitana policentrica è, non a caso, quello toscano di Firenze-Prato-Pistoia (Morandi,

Bai, Screpanti, 2012), in cui è strategicamente opportuno dare forma a reti policentriche di città valorizzando i territori

produttivi che gravitano sulle città capoluogo. Anche nel caso toscano si tratta infatti di un’area produttiva della “Terza

Italia” ad economia diffusa, caratterizzata storicamente dallo sviluppo di sistemi produttivi locali di piccola e media

impresa. 29

Durante l’acceso dibattito sulla possibilità di estendere l’area metropolitana all’area del Veneto centrale, nell’autunno

2012, non è stato infrequente imbattersi nelle dichiarazioni di sindaci dei comuni interessati, come quello di

Camposampiero che, impreparato ad affrontare il tema, si difendeva dichiarandosi “Sindaco di campagna”.

24

La sfasatura tra area metropolitana di fatto e città metropolitana di diritto è ancora più visibile se

confrontata con la fig.12 che presenta l’assetto istituzionale che il territorio regionale verrebbe ad

assumere a compimento della riforma di riordino territoriale prospettata30 dalla L.135/2012.

Fig.12 – Regione Veneto. Ipotesi di riordino territoriale delle Province e la Città metropolitana di Venezia.

Fonte: http://www.veneziacittametropolitana.it (2012)

Ricordando che questo assetto probabilmente verrà superato dal disegno di legge costituzionale che

prevede l’abolizione delle Province e dal disegno di legge ordinaria in merito, recentemente varato

dal Governo Letta31

, è interessante rilevare che esso è il risultato (provvisorio) di una serie di

proposte che si sono susseguite, occupando i giornali quotidiani tra settembre e dicembre 2012.

Questo dibattito ha visto le posizioni più disparate tra chi, in nome della difesa di una non meglio

definita “identità locale”, si opponeva all’accorpamento per difendere in realtà rendite di posizione

politiche legate al vecchio assetto istituzionale e ai relativi collegi elettorali (centro-destra e Lega) e

chi vedeva invece in questa riforma un’opportunità da cogliere per un rilancio del governo del

territorio (centro-sinistra).

Un confronto caratterizzato dalla sostanziale debolezza della classe politica regionale nel gestire

questo importante processo, con l’assenza sostanziale della Giunta regionale e il tentativo del

Consiglio regionale di giungere a una mediazione con le istanze espresse dal territorio.

Dopo una prima ipotesi di minima di accorpamento delle Province di Padova con Rovigo e di

Treviso con Belluno, meramente aritmetica32, scartata per l’opposizione “dal basso” di molti Comuni

interessati, di fronte all’evidente difficoltà della Regione Veneto di pronunciarsi in merito, i giochi

sono stati riaperti quando il Comune di Padova e alcuni comuni della sua cintura urbana e dell’area

termale Euganea hanno espresso la volontà di passare alla Città metropolitana di Venezia.

30

Secondo la normativa italiana (L.135/2012) il territorio della Città Metropolitana coincide con quello della provincia

contestualmente soppressa, fermo restando il potere dei Comuni interessati di deliberare, con atto del Consiglio,

l'adesione alla Città Metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa. 31

Il riferimento è al disegno di legge ordinaria di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali, coordinata dal

Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie locali, Graziano Delrio, del 5 luglio 2013, che ha come obiettivo:

l’istituzione della Città metropolitana, la nuova disciplina delle Province quali enti di secondo livello per il governo di

area vasta, la nuova disciplina organica delle Unioni di Comuni. Cfr. De Sanctis (2013). 32

La normativa varata dal Governo Monti aboliva le Province con meno di 350mila abitanti e un’estensione inferiore a

2.500 Kmq, ovvero: Belluno, Treviso, Padova e Rovigo, mentre la provincia di Venezia diveniva città metropolitana.

25

La crisi del Governo Monti nel dicembre 2012 ha sostanzialmente congelato ogni cosa, rimandando

il problema al 2013 e al successivo Governo Letta. Il dibattito è proseguito con le elezioni

amministrative del Comune di Treviso, del maggio-giungo 2013, in cui il tema dell’area

metropolitana è stato al centro della campagna elettorale33, che ha visto la vittoria del sindaco del

centro-sinistra Giovanni Manildo, dopo vent’anni di governo della Lega Nord. Inoltre, la nomina del

sindaco di Padova, Flavio Zanonato, fautore della costituzione della città metropolitana estesa ai

comuni del Veneto centrale, a Ministro dello Sviluppo del Governo Letta, è un elemento che

aggiunge rilevanza politica al tema del riordino territoriale e della costituzione della città

metropolitana a partire dall’asse Venezia-Padova.

Nel frattempo, con sentenza n.220/2013, la Corte Costituzionale ha cassato tutte le norme introdotte

dal Governo Monti34 che avevano trasformato le Province in enti di secondo livello, le avevano

svuotate di competenze e ne avevano mutato le circoscrizioni con legge ordinaria (con la

soppressione di quelle Province con meno di 350mila abitanti e un’estensione inferiore a 2.500

Kmq), in quanto si tratta di enti locali regolati dalla Costituzione. La sentenza della Consulta ha

costretto il Governo Letta ad intervenire approvando il 5 luglio 2013 un disegno di legge

costituzionale avente ad oggetto l’eliminazione del termine “Province” dagli art. 114 e seguenti della

Costituzione. Inoltre, visti i tempi di approvazione della Legge costituzionale, il Governo ha

approvato anche un disegno di legge ordinaria che dovrebbe disciplinare il ruolo futuro delle

Province nel lasso di tempo che intercorrerà fino alla loro definitiva soppressione costituzionale (De

Sanctis 2013). Tutto ciò rende ancor più di stringente attualità il problema della definizione dei livelli

intermedi di governo e di gestione fra Comune e Regione e del loro rapporto con la Città

metropolitana, la cui costituzione si dovrebbe avere (salvo ulteriori proroghe) a partire dall’1/7/2014.

8. Riordino territoriale e sviluppo guidato: un cambiamento del modo di regolazione

Questo dibattito fa emergere però anche un’antica frattura, mai risolta, tra città e campagna, una

frattura che storicamente ha caratterizzato, da sempre, il radicamento della subcultura politica bianca

nel Veneto: mentre infatti la roccaforte della subcultura bianca è stata l’area della campagna (ora

urbanizzata e industrializzata) del Veneto centrale, le città capoluogo della stessa area sono state

invece un presidio delle forze progressiste (Dimanti, Riccamboni 1992).

Come le ricerche comparate sui modi di regolazione dello sviluppo locale nei casi delle due

subculture politiche bianca e rossa hanno messo in luce (Messina 2012b), il modo di sviluppo “non

guidato” della piccola e media impresa del Veneto è stato sostenuto da un modo di regolazione

centrato sulla regolazione comunitaria locale che ha dato vita a un modello istituzionale aggregativo

caratterizzato da localismi forti e da una regionalità debole, come sommatoria dei sistemi locali, ma

funzionale al mantenimento degli equilibri locali. Il ceto politico che governa la Regione Veneto è

sempre stato espressione di questa realtà territoriale “della provincia” e della sua cultura di

regolazione, segnata da uno stile amministrativo non interventista e dal prevalere di politiche

distributive.

Al contrario, le città capoluogo di Venezia e Padova, se da un lato costituiscono le realtà territoriali

più terziarizzate della regione, espressione di un modo di sviluppo che richiede di essere “guidato”

con un progetto strategico innovativo e condiviso, dall’altra sono governate dal centro-sinistra,

portatore di una diversa cultura di governo, più interventista e interessato a raccogliere la nuova

33

Rilevante a questo riguardo è stata la conferenza organizzata da Unindustria di Treviso e da tutte le associazioni di

categoria della Marca Trevigiana a sostegno dell’ipotesi dell’area metropolitana del Veneto centrale che includa anche la

provincia di Treviso. Cfr. Padova, Treviso Venezia. Una grande area metropolitana per lo sviluppo del Veneto centrale,

20 maggio 2013, BHR Treviso Hotel, Quinto di Treviso. 34

Il riferimento è sia all’articolo 23 del D.L. n.201/2011 (convertito in legge n.214/2011), meglio noto come “Decreto

salva-Italia”), che trasformava le Province in enti di secondo livello, sia agli art. 17 e 18 del D.L. n.95/2012 (convertito in

Legge n. 135/2012) meglio noto come Spending review.

26

domanda politica di regolazione che arriva dal territorio, raccordandola con i cambiamenti introdotti

dalle politiche europee.

La resistenza della Regione Veneto alla costituzione della Città metropolitana di Venezia, specie se

allargata all’area metropolitana di Padova e Treviso, nonostante il potenziamento delle “funzioni

metropolitane sia previsto anche dall’art. 14 del nuovo Statuto regionale, è spiegabile pertanto, più

probabilmente, con una evidente diffidenza nei confronti di un cambiamento di equilibri che, in

un’epoca di tagli della spesa in cui non è più possibile attuare politiche distributive, finirebbe con lo

spostare inevitabilmente il baricentro dello sviluppo dalla “provincia” della campagna urbanizzata,

alle città capoluogo di Padova e Venezia, con la conseguente trasformazione del modo di regolazione

prevalente, più aperto alla pianificazione strategica del territorio e a nuove politiche regolative, che

trova impreparata la classe politica erede della subcultura bianca.

A ben guardare, anche le altre regioni del Nord Italia a statuto ordinario, come Piemonte e

Lombardia, sono caratterizzate da questa marcata differenza tra il colore politico della città

capoluogo (Torino e Milano) di centro-sinistra, e quello del governo regionale, di centro-destra, un

dato che sottolinea ancora una volta la rilevanza politica della riforma istituzionale di attivazione

delle Città metropolitane e di riordino territoriale. D’altra parte la stessa cosa non accade invece nelle

Regioni rosse del centro, come l’Emilia Romagna e la Toscana, in cui il PD è al governo sia delle

città capoluogo sia delle Regioni, le quali mostrano di avere a loro volta un atteggiamento molto più

favorevole nei confronti della costituzione delle rispettive Città metropolitane. Si tratta di una

differenza significativa che potrebbe offrire spunti interessanti per una comparazione per contesti tra

queste regioni.

Allo stato attuale del dibattito, per l’ipotesi della Pa-Tre-Ve, di cui si discute peraltro da oltre

vent’anni, è importante sottolineare che le maggiori difficoltà, paradossalmente, non vengono da

Roma, ma dalla Regione35 che difende le Province attuali36 e vede con diffidenza e preoccupazione la

nascita della Città metropolitana per le ragioni che abbiamo ricordato. A queste ragioni, tuttavia ne

va aggiunta probabilmente anche un’altra di rilevate importanza, dal momento che non sono stati

ancora opportunamente chiariti i criteri di ripartizione delle funzioni tra Città metropolitana e

Regione: una Città metropolitana che, nell’ipotesi della Pa-Tre-Ve, verrebbe a contare oltre due

milioni e mezzo di abitanti, in una regione che ne conta in tutto meno di cinque milioni, e che con le

nuove politiche europee sarebbe destinataria di circa un miliardo di euro di finanziamenti, contro i

circa 500 milioni di euro di fondi FESR destinati alla Regione. La domanda di fondo rimane aperta,

soprattutto alla luce delle nuove politiche europee di coesione 2014-2020: come è destinata a

cambiare la relazione tra Unione Europea, Regioni e Città metropolitane? E soprattutto, nella

prospettiva del potenziamento dei processi di metropolizzazione di cui abbiamo detto, che senso ha

parlare ancora in Italia di regioni con le dimensioni di quelle attuali? Forse avrebbe più senso parlare

di macro-regioni, ridisegnando anche le geografie politiche delle regioni stesse in senso funzionale?

Si tratta insomma di elementi di cruciale importanza, necessari per definire il nuovo scenario su cui i

diversi attori saranno chiamati ad operare, nodi cruciali che dovranno essere sciolti al più presto dal

governo nazionale, ma che dimostrano, al tempo stesso, quanto il tema del riordino territoriale risulti

essere centrale per una governabilità più efficiente e moderna del nostro Paese nella prospettiva

europea.

35

Le posizioni del Presidente della Regione Luca Zaia e del centro-destra sono state fin ora decisamente contro l’ipotesi

della Pa-Tre-Ve: si vada in proposito Benet (2013b): “La Regione stronca la città metropolitana: «Non si capisce a che

cosa serva, si pensi a razionalizzare i costi». Bitonci: «è un mostro rosso»”. 36

Questa posizione, sostenuta soprattutto dalla Lega Nord e dal Governatore della Regione Luca Zaia, può essere forse

meglio compresa se si pensa che Zaia è stato Presidente proprio della Provincia di Treviso che, secondo la normativa,

avrebbe dovuto essere abolita e/o accorpata con un'altra provincia e che, come si è detto, presenta caratteristiche molto

specifiche nel contesto del Veneto. Si veda a questo riguardo la nota 9 infra.

27

9.Sostenibilità istituzionale e sviluppo strategico del territorio

Per le ragioni che si sono evidenziate, il riordino territoriale avviato in nome della spending review

costituisce, allora, una delle più importanti riforme istituzionali che meriterebbe di essere colta come

un’occasione storica per ridisegnare la governance territoriale e sarebbe opportuno valutare quindi

non solo in relazione alla riduzione della spesa pubblica, ma soprattutto in relazione all’innovazione

istituzionale e al rilancio dello sviluppo di territori che si sono nel frattempo profondamente

trasformati.

Restano certamente ancora alcuni nodi cruciali da sciogliere in questo ambito, a cominciare, in primo

luogo, dalla ripartizione delle funzioni fra Regione e Città metropolitana per consentire un’efficace

governo di area vasta; dai criteri di riordino territoriale che le Regioni dovranno darsi anche nella

prospettiva dell’abolizione delle Province; dagli incentivi da dare ai piccoli Comuni per attivare

strategie di associazionismo intercomunale, su basi funzionali, con l’obiettivo di entrare in rete con le

aree metropolitane più dinamiche e meglio servite in una logica di complementarietà, che vada oltre

la tradizionale dicotomia città-campagna. Sciogliere questi nodi consentirebbe di ridisegnare in modo

coerente l’architettura istituzionale del Paese, anche nella prospettiva di una governance europea

multilivello. In assenza di un macro-disegno condiviso di riforma istituzionale, i casi regionali di

riforma istituzionale risultano di particolare interesse per rilevare la capacità dei territori di esprimere

le istanze di cambiamento e la capacità delle istituzioni politiche di adeguarsi a queste nuove

domande.

Pur con i limiti dettati dall’incertezza normativa ancora prevalente, possiamo concludere questo

lavoro facendo tesoro di alcune evidenze empiriche ricavate dal caso studio del Veneto, con

l’obiettivo di contribuire in modo costruttivo al dibattito sulle politiche di riordino territoriale,

proponendo alcuni indicatori di valutazione della sostenibilità istituzionale che possono essere utili

anche in altri contesti.

In concetto di sostenibilità istituzionale qui utilizzato37 fa riferimento alla capacità che una istituzione

ha di sopravvivere nel tempo senza erodere le risorse a sua disposizione, senza dover ricorrere

continuativamente al supporto esterno e svolgendo le funzioni a cui è preposta. La sostenibilità

istituzionale ha quindi a che fare con l’autonomia organizzativa e finanziaria, una leadership

fortemente legittimata e spiccate capacità di apprendimento e adattamento. In questa accezione,

quindi, la sostenibilità è una proprietà di una istituzione che prescinde dalle politiche di sviluppo

sostenibile, ma che può caratterizzare qualunque tipo di istituzione: una università, un’impresa, un

ospedale, un’agenzia della pubblica amministrazione (Stato apparato), un organo decisionale.

Le dimensioni della sostenibilità istituzionale, così intesa, possono essere sintetizzate nella Tab.9.

37

Il concetto di sostenibilità istituzionale utilizzato in questo ambito va riferito a un contesto tipico dei paesi con un

elevato grado di sviluppo e consolidamento delle istituzioni politico-amministrative in regimi democratici avanzati.

Come ricorda Lanzalaco (2009) a questo riguardo, Agenda 21 ha definito la sostenibilità istituzionale come: «la capacità

di assicurare condizioni di stabilità, democrazia, partecipazione, informazione, formazione e giustizia», sottolineando

come: «uno dei prerequisiti fondamentali per raggiungere lo sviluppo sostenibile è la più ampia partecipazione nei

processi decisionali». Altri autori mettono inoltre l’accento sulla capacità dell’attore politico di “governare la

governance”, ovvero di coordinare il processo di governance perseguendo l’obiettivo di produrre una decisione condivisa

e vincolante. Ciò che in sintesi si può ricavare da questi elementi è che, nel contesto istituzionale di un regime

democratico, le politiche per la sostenibilità dello sviluppo di un territorio sono strettamente correlate a pratiche di

“buona governance” dello sviluppo dello stesso territorio. A ciò tuttavia va aggiunto, come suggerisce ancora Lanzalaco,

che la sostenibilità istituzionale attiene essenzialmente alla dimensione dinamica e non statica di un’istituzione. Questo

28

Tab.9 - Dimensioni analitiche della sostenibilità istituzionale

INCLUSIVITÀ Composizione ed estensione del partenariato; Intensità delle relazioni interne

INTEGRAZIONE Coordinamento verticale e orizzontale tra i principali soggetti

APPROCCIO PRO-ATTIVO Capacità programmatoria e progettuale

RIFLESSIVITÀ Cultura di auto-valutazione e capacità di apprendimento

IMPATTO SUL TERRITORIO Sviluppo locale

Attraverso questa chiave di lettura è possibile valutare:

- Il grado di congruenza/incongruenza degli ambiti di gestione e programmazione

- La convergenza/divergenza fra gli ambiti territoriali

- La continuità/discontinuità strategica e organizzativa.

La ricerca sul caso Veneto ha permesso di evidenziare una serie di elementi che proveremo a

sintetizzare con questa chiave di lettura, in vista di una possibile comparazione con altri casi

regionali38.

In primo luogo, nel caso Veneto la governance locale risulta essere caratterizzata da molteplici

elementi di sovrapposizione funzionale e incongruenza degli ambiti di gestione e di programmazione

ed è a partire da questo scenario che si inserisce la riforma regionale del Piano di riordino territoriale.

In questo contesto, l’obiettivo che questa riforma si ripromette di perseguire è duplice: da un lato,

creare le condizioni per garantire l’efficacia della gestione associata dei servizi pubblici locali nella

prospettiva di una razionalizzazione della spesa pubblica, ma dall’altro anche quello di garantire

l’attrattività dei territori attraverso politiche di sviluppo locale multilivello, le quali richiedono

capacità progettuale e organizzativa delle reti di partenariato e sostenibilità istituzionale degli ambiti

territoriali di riferimento. Gestione dei servizi e programmazione dello sviluppo devono essere visti,

quindi, come strettamente correlati. Senza l’una, anche l’altra dimensione diventa difficilmente

sostenibile, soprattutto nel lungo periodo.

Nel caso del Veneto, le forme di governance locale che rispondono meglio alle caratteristiche di

sostenibilità istituzionale e organizzativa sono riscontrabili in quelle Unioni di Comuni e quei GAL i

cui ambiti territoriali coincidono con l’ambito delle rispettive IPA, poiché presentano tutte le

caratteristiche sintetizzate nella Tab.9. Ed è in questa direzione che si sta orientando

l’implementazione del Piano di riordino territoriale regionale, anche attraverso l’individuazione di

una serie di opportuni incentivi per quei comuni che sono in grado di realizzare forme di

associazionismo virtuose, ovvero coerenti con la definizione di “ambiti territoriali adeguati ed

omogenei”.

Dall’analisi effettuata sul campo39, emergono le seguenti variabili rilevanti che possono costituire un

riferimento per l’analisi comparata.

Leadership: se l’impatto della leadership politica appare in genere piuttosto debole, perché ha natura

contingente e variabile nel tempo, determinante è invece il ruolo svolto dalla leadership tecnica, in

concetto è stato applicato in modo puntuale nell’analisi del caso studio dell’IPA del Camposampierese: cfr. Messina,

Gallo, Parise (2011). 38

La ricerca PRIN in cui questo paper si inserisce prevede la comparazione tra sei casi regionali: oltre al Veneto,

Andalusia, Brandeburgo, Puglia, Sicilia e Toscana. 39

Con particolare riferimento, come si è detto, alla comparazione dei due casi studio dell’IPA del Camposampierese e

dell’IPA Prealpi Bellunesi, cfr. Bassetto M., Domorenok E., Messina P., Salvato M. (2013).

29

particolare dalla figura di Direttore dell’UC o del GAL. Questa figura gioca un ruolo trainante nella

promozione di strategie di sviluppo locale comuni, trasversalmente alle forme di governance locale

analizzate e si configura come una nuova professionalità, centrata sulle competenze del management

di rete. Il manager di rete deve essere in grado di “tenere insieme” la rete dei Comuni associata in

Unione (volontaria) e di raccordarla con il livello regionale di governo, ma anche di coordinare le

reti di governance pubblico-privato, proprie dei tavoli delle IPA e dei GAL. Sulla formazione di

questa nuova figura professionale la Regione Veneto ha deciso infatti di investire in modo

significativo, in collaborazione con l’Università di Padova.

Partenariato stabile e interconnesso: nel caso in cui l’ambito di gestione dei servizi coincide con

l’ambito di programmazione dello sviluppo, i medesimi soggetti interagiscono in sedi istituzionali

diverse (unione di comuni, comunità montane, GAL, PIA-R, IPA). Ciò consente una maggiore

continuità e il coordinamento reciproco e garantisce, inoltre, una certa coerenza di decisioni politiche

sia nell’ambito gestionale sia in quello programmatorio e la costruzione di reti di capitale sociale e

“beni relazionali”. Questo è senz’altro un elemento che contribuisce a garantire sostenibilità

organizzativa e istituzionale e, nel lungo periodo, costituisce anche un’occasione di apprendimento

istituzionale e terreno di formazione della classe politica, oltre che della classe amministrativa.

Identità locale e rappresentanza politica: quando prevale la dimensione dell’identità locale in senso

localistico, come per esempio in alcuni contesti montani, ma anche di pianura, questo costituisce

spesso un elemento che impedisce di arrivare a soluzioni efficaci dal punto di vista tecnico per la

costituzione di reti sovralocali (es. economie di scala, maggiore efficacia nella gestione dei servizi,

ecc.); quando invece la dimensione dell’identità locale acquista una valenza glocale, come accade in

alcune realtà come quella del Camposampierese e di alcune IPA del Veneto centrale, proprio la

“salvaguardia” di un’identità locale, da ridefinire in funzione di una nuova idea di sviluppo da

ripensare, diventa l’elemento di forza verso la costruzione dell’identità sovracomunale, senza per

questo negare le identità dei singoli comuni. Questo avviene soprattutto quando la rappresentanza

degli interessi genuinamente territoriali, in senso funzionale, prevale sulla rappresentanza di tipo

partitico in senso ideologico, spesso infatti queste due dimensioni della rappresentanza politica

tendono a non coincidere, con effetti decisamente negativi per le chances di sviluppo del territorio in

senso innovativo40.

Finanziamenti esterni: questo è un tema da considerare con particolare attenzione poiché la presenza

dei finanziamenti regionali e/o europei ha fortemente influenzato l’evoluzione delle reti di

governance locale analizzate, fino a determinare in alcuni casi la loro stessa creazione, finalizzata in

prima istanza all’accesso ai finanziamenti pubblici, sia nei casi di alcune unioni di comuni, sia di IPA

e di GAL. Questo può costituire, di fatto, un elemento di notevole criticità che ne mina dalle

fondamenta la capacità di sopravvivenza del lungo periodo, una volta esauriti i finanziamenti.

Diventa pertanto di importanza decisiva per la sostenibilità istituzionale della nuova struttura-rete

trovare le risorse organizzative e motivazionali che ne garantiscano nel lungo periodo la sostenibilità.

In questa prospettiva anche gli incentivi finanziari andrebbero opportunamente indirizzati dall’attore

pubblico, soprattutto in un periodo di crisi finanziaria come quello attuale, per orientare il

comportamento degli attori locali e la loro capacità di cooperare, perseguendo l’obiettivo della

sostenibilità istituzionale. Con riferimento soprattutto al passaggio dalla vecchia alla nuova

programmazione europea, ora si pone infatti il problema del mantenimento di queste reti, nel

momento in cui dovessero cessare le “vecchie” linee di finanziamento europee e nascerne delle altre,

con altri obiettivi e altre procedure. Il ritardo e l’incertezza nella programmazione regionale dei fondi

40

Questo è quanto è accaduto, per esempio, nel corso del dibattito sull’area metropolitana del Vento centrale tra ottobre e

dicembre 2012, in cui le direttive di partito del PdL e della Lega Nord erano fortemente negative (e basate su

argomentazioni di tipo localistico) e in contrasto con quelle espresse dai territori comunali del Veneto centrale, più aperti

verso il cambiamento.

30

europei (FEASR e FESR) è destinato a creare pertanto una serie di difficoltà nella capacità progettuale

degli attori locali.

Vincoli normativi esterni: le continue variazioni delle norme regionali e nazionali relative all’assetto

e al funzionamento delle diverse forme di governance locale hanno fortemente inciso sulla

sostenibilità istituzionale delle stesse (obbligatorietà/volontarietà) e sono un importante fattore che

va adeguatamente considerato nel contesto del cambiamento complessivo. I territori auspicano infatti

una maggiore capacità di coordinamento regionale e, quindi, un cambiamento del modo di

regolazione, con un maggior peso riconosciuto all’attore politico regionale nella governance

(multilivello e multi-attore) per lo sviluppo del territorio in senso strategico.

In questa prospettiva, l’eliminazione del livello di governo provinciale e dei vincoli costituiti dai

relativi confini amministrativi, risalenti al periodo napoleonico e oggi del tutto inadeguati, è di fatto

una condizione necessaria per poter ridisegnare la geografia politica e amministrativa dell’intera

regione con un approccio più funzionale al governo dello sviluppo del territorio. Questo vale sia per

la costituzione dei nuovi ambiti territoriali adeguati ed omogenei sia, soprattutto, per la costituzione

della nuova città metropolitana.

Dalla capacità di risposta dei livelli di governo sovralocale, regionale e nazionale, a questo problema

dipenderanno non solo la sostenibilità istituzionale della riforma, ma anche le chances di sviluppo

dei territori e la legittimazione dell’attore politico nel suo complesso.

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