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La retorica Perché tirare in ballo la retorica – una disciplina che ha più di duemila anni - quando si parla di pubblicità? La risposta è semplice, nel senso che sia l’una che l’altra hanno quale fine principe la persuasione. E condividono anche gli stessi mezzi. O meglio sarebbe dire che la pubblicità mutua dalla retorica gli strumenti che costruiscono la sua comunicazione. Per l’una e per l’altra tre sono infatti gli obiettivi fondamentali da raggiungere: docere, movere, delectare. Ossia far uso di strategie che influenzino opinioni e comportamenti altrui in modo intelligente, trasmettendo cioè informazioni (docere) che sappiano appellarsi sia alla razionalità dell’uomo, emisfero sinistro, che alla sua emotività, emisfero destro, e che quindi (vedremo, Aristotele ce lo insegnava, quanta importanza riveste per un buon comunicatore poter contare sull’adesione emotiva del suo uditorio) ne mantengano vivo l’interesse (delectare) fuggendo la noiosa ripetitività dell’abitudine. Retorica dunque come strumento per individuare le strategie linguistiche e discorsive per produrre argomentazioni persuasive. Come “cassetta degli attrezzi” da cui estrarre “sfumature/coloriture” che sottraggano la lingua, l’immagine, il suono al déjà vu. 1

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La retorica

Perché tirare in ballo la retorica – una disciplina che ha più di duemila anni - quando si parla di pubblicità? La risposta è semplice, nel senso che sia l’una che l’altra hanno quale fine principe la persuasione. E condividono anche gli stessi mezzi. O meglio sarebbe dire che la pubblicità mutua dalla retorica gli strumenti che costruiscono la sua comunicazione. Per l’una e per l’altra tre sono infatti gli obiettivi fondamentali da raggiungere: docere, movere, delectare. Ossia far uso di strategie che influenzino opinioni e comportamenti altrui in modo intelligente, trasmettendo cioè informazioni (docere) che sappiano appellarsi sia alla razionalità dell’uomo, emisfero sinistro, che alla sua emotività, emisfero destro, e che quindi (vedremo, Aristotele ce lo insegnava, quanta importanza riveste per un buon comunicatore poter contare sull’adesione emotiva del suo uditorio) ne mantengano vivo l’interesse (delectare) fuggendo la noiosa ripetitività dell’abitudine.Retorica dunque come strumento per individuare le strategie linguistiche e discorsive per produrre argomentazioni persuasive. Come “cassetta degli attrezzi” da cui estrarre “sfumature/coloriture” che sottraggano la lingua, l’immagine, il suono al déjà vu.In questa breve introduzione ai linguaggi della pubblicità ho dovuto, oltre che voluto, fare riferimento alla storia della retorica sia per evidenziare quanto la pubblicità deve ai vari oratori, filosofi, studiosi, che alla prima si sono dedicati, sia per dimostrare, attraverso un esempio celebre, ossia il Giulio Cesare di Shakespeare, la forza che la parola esercita sulle menti dell’uomo. Una parola che però deve essere manipolata in modo sapiente. Una parola che non è semplice ornatus, vuoto artificio, ma che si fa ponte per stabilire inediti e affascinanti contatti con significati altri. Parola, ma anche immagine (la retorica riguarda anche quest’ultima), che improvvisamente illumina aspetti dell’esistente che avevamo fino a quel momento ignorato. Parola che organizza le nostre idee di e sul reale. Parola che si espande (catacresi), si dilata1, a partire dal suo significato originario, sino a comprenderne di nuovi alterando,

1 Ad esempio “il collo della bottiglia”.

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accrescendo, migliorando le nostre conoscenze. Illuminando aspetti della vita spesso ignorati.

§ Breve excursus storicoQui di seguito traccio una breve storia della retorica per sottolineare quanto ogni forma di comunicazione sia debitrice nei suoi confronti.La retorica nasce nel V secolo a.C., in Sicilia (Magna Grecia), assieme alla democrazia. Infatti con la caduta dei tiranni Gelone e del suo successore Gerone I, nel 467 a.C., le famiglie di Siracusa, tornate in patria, dopo un esilio forzato, danno vita a una serie di cause con cui tentano di rientrare in possesso delle proprietà confiscate a favore dei soldati mercenari. Dunque la retorica si sviluppa come tecnica del costruire discorsi persuasivi per confrontarsi coi giudici. E anche se, come attesta Cicerone, essa si sviluppa prima del V secolo, tuttavia “sono Corace e Tisia che teorizzano la pratica retorica “con metodo e precettistica” (via et arte)”2.Secondo Corace e Tisia il sembrar vero conta più dell’essere vero. Essi cioè pongono al centro della retorica la ricerca di tutte le prove atte a dimostrare la verosimiglianza di una tesi.Sempre in Sicilia un’altra scuola va teorizzando la retorica cosiddetta psicagocica ossia “trascinatrice degli animi”3. Si tratta cioè di una retorica che si fonda sul fascino irrazionale che la parola può esercitare sull’ascoltatore trascinandolo nella magia che emana dall’abile uso della parola, facendo quindi leva sulla sua emotività. I due punti fondamentali di questa concezione della retorica sono la politropia, ossia la capacità di cambiare le proprie modalità espressive in funzione del proprio pubblico e l’antitesi, ovvero la dimostrazione di un argomento attraverso la sua comparazione ad un altro di segno opposto. E proprio della magia del verbo parla Parmenide quando sottolinea come “caratteristica del mondo della verità è il ragionamento scientifico, invece caratteristica del mondo della δóξα è l’essere soggetta al fascino ingannatore della parola4”. Nello stesso periodo, ad Atene, Protagora sostiene che è possibile

2 A. PLEBE, Breve storia della retorica antica, Bari, Laterza, 1996, p.16.3 B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Sonzogno, Bompiani, 1988, p.18.4 A. PLEBE, Breve storia della retorica antica, op.cit, p.16.

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“rendere più potente anche il discorso meno valido”. Egli sottolinea così il potere della parola nel modellare i discorsi in modo tale da renderli più convincenti. Protagora sviluppa inoltre la teoria dell’antitesi secondo cui uno stesso argomento può essere affrontato da punti di vista opposti. Gorgia, altro grande sofista, insiste sulla forza psicagogica del logos. In cui si combinano la malia esercitata dalla poesia con la forza della persuasione che induce all’azione. La persuasione retorica, nello specifico, “fa credere che le cose siano diverse da quelle che sono a seconda degli intenti dell’oratore5”.Una retorica, quella dei sofisti, condannata severamente da Platone secondo cui essa è puramente formale, indifferente ai contenuti, fondata sulla manipolazione degli argomenti in funzione dell’obiettivo che l’oratore intende raggiungere.La vera retorica per Platone è la dialettica che si divide in sintesi e analisi, ossia induzione e divisione. Si tratta cioè di arrivare, attraverso la sintesi, alla definizione di un argomento individuando le nozioni che si possono reperire relativamente a un’unica idea, mentre con l’analisi l’idea viene divisa nei suoi elementi. Aristotele (IV secolo a.C.) individua i fattori fondamentali di ogni discorso: il parlante, l’argomento di cui si parla e l’ascoltatore. In particolare Aristotele sottolinea come sia l’ascoltatore a determinare la struttura del discorso: è su di lui che si dirige infatti l’azione dell’oratore che ne deve catturare l’attenzione e il consenso. Introduce così anche il concetto di passione quale elemento rilevante per il sostegno dell’argomentazione. E’ cioè necessaria una “retorica emozionale6” accanto a una dimostrativa. L’oratore deve possedere la capacità di suscitare passioni nell’ascoltatore in modo tale da disporre a suo favore l’atteggiamento emotivo di quest’ultimo. “Le passioni – dice Aristotele – sono i mezzi per cui si fanno mutare gli uomini nei loro giudizi e che hanno per conseguenza il piacere e il dolore: come l’ira, la compassione, la pietà e tutte le altre passioni siffatte e quelle ad esse contrarie7”.Alla logica Aristotele contrappone la retorica. Propri della prima sono i sillogismi, ossia ragionamenti deduttivi irrefutabili per cui, 5 Ivi, p.30.6 Ivi, p.61.7 Da, Rhet. II, 1, 1378a, citazione contenuta in A. PLEBE, Breve storia della retorica antica, op. cit., p.61.

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date due premesse, ne segue necessariamente un conseguenza (ad esempio: “tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono animali, dunque tutti gli uomini sono mortali”), propri della seconda sono invece gli entimemi (frequentemente usati in pubblicità), ovvero sillogismi retorici confutabili perché derivano da premesse che non posseggono lo stesso grado di certezza di quelle logiche e che, pertanto, arrivano a conclusioni probabili e confutabili. A Roma, siamo nel I sec. a.C., la retorica è ridotta a precettistica di eloquenza e di stile. Rinasce col De Oratore di Cicerone che sottolinea invece l’importanza della retorica per un’oratore che voglia dar vita ad argomentazioni di successo. “Docere, movere, delectare (insegnare, commuovere, piacere) sono gli scopi indissolubili l’uno dall’altro che vanno perseguiti in ogni orazione. “[…] non si può separare il contenuto (res) dell’espressione (verba), come non si può scindere la “cultura generale”, il sapere nella sua globalità, dalla parola che lo manifesta e dall’arte del comunicare8”.

§Retorica e pubblicitàUn rapido accenno alla storia della retorica, al suo passato, trova il suo senso nella volontà di sottolineare i punti di contatto, i legami che quest’arte del persuadere intrattiene con una forma di comunicazione fortemente persuasiva come la pubblicità.Tra le eredità che la retorica classica9ci ha lasciato (mi riferisco in particolare alla “Retorica ad Herennium”) di notevole rilievo, per la elaborazione di qualsiasi tipo di testo, è la individuazione, con riferimento al discorso, di cinque sezioni dell’arte del dire:

inventio, ossia trovare gli argomenti adeguati a quanto si intende sostenere;

dispositivo, ovvero organizzare il proprio discorso secondo un determinato ordine;

8 B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, op. cit, p37.9La retorica classica è “il prodotto della sedimentazione di apporti di età diverse.[…] La storia della retorica classica è storia degli ampliamenti parziali e delle riduzioni, degli acquisti e delle perdite, ridistribuite le parti e mutati i rapporti di forza, nell’immane congegno impiantato dai greci, passato poi ai romani e modellato esemplarmente, nel suo ultimo assetto antico dalla summa quintilianea”. In B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, op. cit., p.57.

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elocutio, l’uso delle figure retoriche atte a rendere più efficaci gli argomenti individuati nell’inventio e organizzati nella dispositivo;

memoria, vale a dire la memorizzazione degli argomenti che formano il discorso;

pronuntiatio, cioè il modo in cui l’oratore propone al suo uditorio il discorso quanto a voce e a gesti.

Anche la pubblicità, nel costruire i propri messaggi, si rifà a questo modello. E non può che essere così dal momento che il suo primo intento è quello di convincere il pubblico ad ascoltarla, a guardarla e soprattutto a crederle. Comunicare in pubblicità significa conoscere bene il proprio target e quindi i suoi gusti, i suoi interessi, i suoi atteggiamenti, le sue abitudini: è l’aristotelica attenzione all’uditorio che ritorna alla memoria. Ed è in funzione dell’uditorio, oltre che, ovviamente, del prodotto (di quest’ultimo si devono conoscere la storia, il mercato, il consumatore poiché la pubblicità deve creargli una personalità, un linguaggio) da promuovere che vanno ricercati gli argomenti (inventio). Un esempio di argomentazione ampiamente usata in pubblicità è l’entimema ossia un sillogismo approssimativo che, a partire da premesse plausibili (una delle quali spesso sottintesa), arriva a conclusioni probabili. Ad esempio: A è un ottimo fondotinta perché contiene silicone è conseguenza delle due premesse, esplicite, A è un ottimo fondotinta e A contiene silicone e di quella implicita, sottintesa Tutti i migliori fondotinta contengono silicone.Gli argomenti non possono però semplicemente succedersi gli uni agli altri, ma necessitano di una coerenza (dispositio) che li renda comprensibili, chiari, credibili. E come fare a colpire l’attenzione del destinatario, in un’epoca di ipercomunicazione, se non attraverso l’elocutio? Ecco allora che alle espressioni comuni se ne sostituiscono altre in cui le parole rifiutano i loro consueti significati per assumerne di nuovi, magari spostandosi in contesti assolutamente inediti. A questo proposito cito qui una affermazione di Emanuele Pirella, uno tra i maggiori creativi italiani:

in ogni gesto del creativo [deve] comunque risiedere uno spunto innovativo, un piccolo strappo alla regola, un momento inaspettato in un contesto atteso […] il gioco di parole, l’iterazione, l’alliterazione, la rima

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tend[ono] ad instaurare uno scarto dalla norma del parlare comune, una sorpresa nel ron ron della comunicazione10.

Il risultato è la commozione del destinatario, commozione intesa come scuotimento, sconvolgimento, turbamento dello stesso. E’ la retorica psicagogica ossia una parola che trascina il destinatario nel vortice delle emozioni, che lo costringe a partecipare a quanto sente e vede. Uso il verbo vedere perché la retorica riguarda anche l’immagine – un campo non considerato dalla retorica classica - che può essere metaforica, metonimica, sinestesica e così via.

[La pubblicità] affida il suo appello all’immagine, al suono e al ritmo del montaggio, suscitando una lettura pluricodica globale[…]la grammatica – la costruzione del testo globale – della pubblicità è essenzialmente una retorica: nel messaggio tutti i codici coinvolti vengono usati in modo marcato, in direzione di una ipersignificazione che forza i limiti e gli usi consueti di ciascuno di essi.Ipersignificazione perché la pubblicità si muove nel regno della connotazione. I suoi messaggi sono carichi di implicazioni e di echi, maggiormente ispirati alle funzioni espressiva e conativa11.

Parlare di retorica in pubblicità significa quindi prendere coscienza di come le figure agiscono sui messaggi, modellandoli, sottraendoli a una funzione puramente referenziale (ossia informativa)/conativa per colorarli invece del fascino dell’inedito, del nuovo, dell’imprevisto. A questo proposito mi pare particolarmente pertinente un’affermazione di Umberto Eco:

è altresì pacifico che un pubblicitario responsabile (e dotato di ambizioni estetiche) tenterà sempre di realizzare il proprio appello attraverso soluzioni che si impongano per la loro originalità – di modo che la risposta dell’utente non consista solo in una reazione di tipo inconscio alla stimolazione erotica, gustativa o tattile che l’annuncio mette in opera, ma anche in un riconoscimento di genialità, riconoscimento che riverbera sul prodotto, spingendo ad un consenso che si basi non soltanto sulla risposta del tipo “questo prodotto mi piace” ma anche “questo prodotto mi parla in

10 E. PIRELLA, Il copywriter. Mestiere d'arte, Milano, Il saggiatore, 2001, p.13.11 G. E. BUSSI PARMIGGIANI, L’arte bastarda. Analisi del linguaggio della pubblicità televisiva inglese, Bologna, Patron, 1998, p.31.

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modo singolare” e di conseguenza “questo è un prodotto intelligente e di prestigio”12.

La pubblicità usa cioè le figure retoriche come altrettanti codici attraverso cui far parlare il prodotto. Un prodotto che si veste di novità, di sorpresa per farsi accettare, per farsi ascoltare da un pubblico ormai maturo che non condanna più (come era prassi in passato) la pubblicità in toto (per ragioni ideologiche o per timore che quest’ultima, in quanto arte dei trucchi e delle manipolazioni, lo induca a scelte non volute) ma la sa giudicare a seconda delle sue realizzazioni. Dalla pubblicità si aspetta, in cambio della sua attenzione, del suo dispendio di tempo, una qualche forma di gratificazione, di piacere. Si è cioè creato una sorta di rousseauniano “contratto sociale”, di do ut des, tra consumatore e pubblicità. Il primo cioè concede alla seconda la propria attenzione a patto che non sia troppo invasiva, che lo faccia divertire, che gli sia utile. Ecco quindi che saranno più suscettibili di essere seguiti, di sottrarsi alla censura da zapping, quegli spot che sanno intrigare, coinvolgere lo spettatore/lettore/ascoltatore. Di qui l’importanza della retorica capace di conferire la magia dell’inaspettatezza, dell’imprevisto, del non usuale ai messaggi su cui interviene. Tra le figure retoriche più usate in pubblicità vorrei qui ricordare la metafora e la metonimia. La metafora consiste nella sostituzione di un termine con un altro che intrattiene col primo un rapporto di somiglianza. Della metafora va sottolineato il carattere conoscitivo che si esprime nella capacità di proporci aspetti dell’esistente che altrimenti ignoreremmo. Essa è infatti interazione tra elementi diversi, abitualmente lontani. Non ha quindi solo carattere ornamentale, ma soprattutto creativo. Sa cogliere le somiglianze. Realizza delle “fusioni” che creano un di più di significato. E’ polisemica. Le sensazioni, i ricordi, le impressioni legate a un elemento si sommano ad altre, generalmente associate a elementi che appartengono a realtà diverse. “Essa esprime ciò che è familiare mediante ciò che non lo è, e perciò è essenziale nel linguaggio poetico13”. Ed anche in quello pubblicitario in cui,

12 U. ECO, La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Sonzogno, Bompiani, 1968, p. 166.13 S. MAGISTRETTI, Retorica e pubblicità, in AA.VV , Manuale di tecniche pubblicitarie. Il senso e il valore della pubblicità, a cura di Marco Lombardi, Milano, Franco Angeli, 1998, p.247

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come afferma Eco, “vige il precetto barocco per cui “è del poeta il fin la meraviglia14”. Il prodotto viene cioè in qualche modo sottratto alla sua concretezza, alla sua fisicità per essere invece presentato al pubblico in una forma nuova, simbolica. Il prodotto si fa così seduttivo, viene avvolto da un alone di magia. Viene illuminato da una luce diversa. Alcuni esempi. La pubblicità a stampa di Dixan piatti propone l’immagine di una bella donna che si accarezza le mani. Il claim è: “Dixan piatti gel Aloe vera. Mani di velluto”.L’headline di Ariel recita: “Ariel. Fredda lo sporco. Accarezza i colori”. Da notare il doppio senso di freddare che indica da una parte “l’eliminare con decisione” (solitamente viene usato per indicare l’uccisione di qualcuno con arma da fuoco o, in senso figurato, il colpire qualcuno al punto da lasciarlo senza parole), dall’altra la possibilità di “lavare a freddo” con sicurezza. In accarezza i colori è chiaro lo spostamento di significato dal concetto di accarezzare, che è segno di affetto e che, come tale, implica delicatezza, a quello di “essere delicato” con i capi, rispettandoli.Se nella metafora la sostituzione avviene tra due termini legati da una relazione di somiglianza, nella metonimia invece la relazione si fa di contiguità. E si esprime all’interno dello stesso campo semantico. Per cui, ad esempio, se dico di “ascoltare De André” anziché “la canzone “Amore che vieni, Amore che vai” di De André” sostituisco un’opera con il suo autore: e quest’ultimo è, ovviamente, legato alla prima da un rapporto di contiguità.Esistono numerosi tipi di contiguità. Qui ne ricorderò solo qualcuno: il brand per il prodotto, “una Porsche, una Ferrari, una Mont Blanc, i Levis’”; il produttore per il prodotto, “un Campari, un Barbour”; il contenente per il contenuto, “bere un bicchiere”; il simbolo per la cosa simboleggiata, “i bianco neri esultano per la vittoria”, ecc.Alcuni esempi di metonimia in pubblicità. Ricordo la famosa campagna “lo zucchero è pieno di vita”. In cui si attribuisce allo zucchero l’effetto che la sua assunzione produce nelle persone. Oppure: “l’Italia che si muove ha trovato un punto fermo: The bridge”. In questo caso il luogo, l’Italia, sta per la cosa simbolizzata, ossia gli italiani.

14 U. ECO, La struttura assente, op. cit., p.168.

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E ancora: “Mi teuco un po’”. In questo caso abbiamo l’autore per l’opera. Il senso reale è infatti: “mi lavo nell’idrodoccia di marca “Teuco”.Non va però dimenticato che nel testo pubblicitario avviene un’interazione continua tra segno iconico e linguistico. Nel senso che non solo il linguaggio verbale ma anche quello iconico si serve delle figure retoriche per acquistare in fascino, in efficacia e quindi in interesse, in attenzione rispetto allo spettatore con cui intende comunicare. “Il valore estetico dell’immagine retorica rende persuasiva la comunicazione, se non altro perché la rende memorabile15”.

L’immagine possiede al livello massimo la capacità e la possibilità di ricostruire sensazioni reali e fantastiche attraverso vari artifici mentre con la parola ciò non è così immediato poiché essa è in grado di fornire solamente rappresentazioni virtuali mediante la descrizione.Ma anche se questa è scrupolosa, attenta e razionale, non riesce a raggiungere il grado emozionale offerto dall’immagine che propone un rapporto concreto con l’oggetto stesso [grassetto mio]16.

Immagine che si svolge con quella stessa sintesi e immediatezza che caratterizzano la comunicazione pubblicitaria nel suo insieme. Presento qui di seguito alcuni esempi di come la retorica che arricchisca la comunicazione visiva, proprio come accade per il linguaggio verbale, di significati altri, di sfumature altre. E’, in fondo, l’elocutio applicata all’immagine.Un’immagine chiaramente metonimica è quella dello spot per i bastoncini di Capitan Findus.

In primo piano compare infatti un bastoncino “trafitto da un esca” e sospeso sul mare. La metonimia consiste nel sostituire il pesce, il merluzzo, con il prodotto che ne deriva, ossia il bastoncino. Alludendo così alla freschezza, alla qualità, alla bontà della componente principale di questo prodotto.

15 U. ECO, La struttura assente, op. cit., p.168.16 A. APPIANO, Pubblicità, comunicazione, immagine, Bologna, Zanichelli, 1991, p.86.

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Altro esempio di metonima, la pubblicità della Pirelli in cui Carl Lewis, che corre a una velocità estrema e compie incredibili performances ha la pianta dei piedi come un pneumatico. La metonimia si esprime dunque in un’immagine che avvicina la velocità di Lewis, più volte campione del mondo, alla potenza del pneumatico Pirelli.

Fa invece chiaramente uso della metafora la pubblicità di Repubblica del libro di Edith Wharton “L’età dell’innocenza” –uno dei testi della collana, I Grandissimi del ‘900, distribuita da “La Repubblica” stessa e acquistabile con una modesta cifra unitamente al giornale. Davanti al libro si trova infatti la metà di una mela. Il claim recita: “fine ‘800: uno spaccato sull’high society newyorkese”.

La mela sta quindi per la città di NewYork conosciuta da tutti proprio come la grande mela. E il vocabolo “spaccato” gioca ironicamente tra il suo significato di sostantivo che, in senso figurato, indica la descrizione degli elementi costitutivi del soggetto preso in considerazione e quello di aggettivo che fa riferimento a una lesione, rottura, fenditura. Il termine si riferisce quindi, contemporaneamente, e al ritratto della società americana, nel primo caso, e alla mela effettivamente “spaccata” a metà.Ancora metaforica è l’immagine per la pubblicità di Katamail (sempre su Repubblica), servizio di posta elettronica di Kataweb.

In primo piano una scatolina di graffette su cui compare una fragolina che è anche il logo di Kataweb. Il claim dice: “Katamail. Per attachment di qualunque dimensione. Solo Katamail vi permette di inviare e ricevere allegati fino a 20 Mega. www.katamail.com”.

La metafora mi sembra palesissima: le graffette stanno per gli allegati che vengono spediti tramite la posta elettronica. La graffetta concreta è infatti un punto metallico che unisce fogli di carta. La graffetta metaforica, quella che, tra l’altro compare anche nei messaggi di posta elettronica, riprende e mantiene questa funzione: unisce cioè, allega, una serie di “fogli virtuali” al messaggio di posta elettronica.

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Va tuttavia sottolineato, dopo questa breve carrellata, che la retorica è solo una delle scienze cui ho attinto (tra le altre la sociologia, la psicologia, la letteratura, la antropologia…) per l’analisi dei linguaggi attraverso cui si esprime la pubblicità. E, tra l’altro, va precisato che la scelta del termine linguaggio si riferisce, in questa analisi, semplicemente al fatto che la pubblicità si serve di “lingue” diverse per comunicare. Anche se, forse, più adatto sarebbe stato il vocabolo “genere” una modalità di indagine ampiamente impiegata, del resto, dalle scienze massmediologiche.

Si trovano in pubblicità ragionamenti frequentemente approssimativi (entimemi), luoghi comuni (topoi), figure retoriche dell’espressione (allitterazioni, rime ecc.) e del contenuto(litoti, iperboli, metafore, antonomasia). Il livello retorico della pubblicità è stato esplorato ed è certamente un tema di analisi legittimo. […] Ma la dimensione retorica non è certamente esclusiva caratteristica della pubblicità: la ritroviamo in tutti i tipi di discorso letterario, in quello politico, nel giornalismo, spesso nel parlare comune. In realtà oggi è abbastanza chiaro che tutta la struttura della comunicazione è intessuta di retorica, la quale in fondo ne costituisce l’aspetto creativo e innovativo. Più che la retorica, le dimensioni peculiari del discorso pubblicitario sono quelle della narrazione, dell’enunciazione e del desiderio17.

La retorica, in effetti, è solo una delle scienze, come ho già sottolineato, cui ho attinto per l’analisi della pubblicità e la sua successiva classificazione. Tuttavia un richiamo ad essa è d’obbligo poiché, comunque, è a quest’arte che si deve la sistematizzazione di tutti quegli strumenti che consentono di spostare la parola dal piano della semplice denotazione a quello della connotazione. Che tanta parte ha, lo ribadisco, nella comunicazione pubblicitaria.

§L’orazione di AntonioANTONIO – Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio. Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sotterrato con le loro ossa. Così sia di Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se ciò era vero, quella fu una, e gravemente Cesare l’ha 17 U. VOLLI, Semiotica della pubblicità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p.50.

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scontata. Qui, con il permesso di Bruto e dagli altri (perché Bruto è uomo d’onore, e così sono tutti, tutti uomini d’onore) io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli era mio amico, leale e giusto con me; ma Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore. Egli ha portato molti prigionieri a Roma, il cui riscatto ha riempito le casse dell’erario: apparve questo, in Cesare, ambizioso? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha pianto; l’ambizione dovrebbe essere fatta di più dura stoffa. Tuttavia, Bruto dice che era ambizioso,e Bruto è uomo d’onore. Tutti voi avete visto che alla festa dei Lupercali io gli ho offerto tre volte una corona regale, che lui tre volte ha rifiutato. Era ambizione, questa? Tuttavia Bruto dice che era ambizioso, e certamente Bruto è uomo d’onore. Io non parlo per smentire ciò che Bruto ha detto, ma sono qui per dire quello che so. Tutti voi lo amavate un tempo, non senza ragione; quale ragione vi trattiene allora dal piangerlo? O giudizio, ti sei rifugiato presso bestie brute, e gli uomini hanno perso la ragione. Abbiate pazienza, il mio cuore è nella bara, lì, con Cesare e devo fermarmi finché non ritorni a me.PRIMO PLEBEO – Mi sembra che c’è molta ragione in quel che dice. QUARTO PLEBEO – Se consideri la faccenda in modo giusto, Cesare ha subito un grande torto.TERZO PLEBEO – E’ così, amici? Ho paura che al posto suo ne verrà uno peggiore.QUINTO PLEBEO – Avete capito le sue parole? Non voleva prendere la corona; perciò è sicuro che lui non era ambizioso.PRIMO PLEBEO – Se si scopre che è così qualcuno la pagherà cara certamente.QUARTO PLEBEO – Pover’anima! Ha gli occhi rossi come il fuoco per il pianto.TERZO PLEBEO – Non c’è a Roma un uomo più nobile di Antonio.QUINTO PLEBEO – Guarda, ora riprende a parlare.ANTONIO – Solo ieri la parola di Cesare avrebbe potuto reggere contro il mondo intero; ora egli giace lì, e non c’è nessuno così misero da concedergli riverenza. O signori, se fossi disposto ad agitare i vostri cuori e le vostre menti alla rivolta e al furore, farei torto a Bruto, e torto a Cassio, i quali, voi tutti lo sapete, sono uomini d’onore. Non farò loro torto; preferisco fare torto al morto, fare torto

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a me stesso, e a voi, piuttosto che fare torto a siffatti uomini d’onore. Ma ecco una pergamena col sigillo di Cesare; l’ho trovata nel suo studio; è il suo testamento. Se solo il popolo udisse questo testamento, che, perdonatemi, io non intendo leggere, tutti andrebbero a baciare le ferite di Cesare morto e a immergere i fazzoletti nel suo sangue sacro, sì, e a mendicare un suo capello per ricordo, e, morendo, ne farebbero menzione nel testamento, lasciandolo come un ricco legato alla loro discendenza.QUINTO PLEBEO – Vogliamo sentire il testamento. Leggilo, Marc’Antonio.TUTTI – Il testamento! Il testamento! Vogliamo sentire il testamento di Cesare!ANTONIO – Abbiate pazienza, gentili amici; non devo leggerlo. Non è opportuno che sappiate quanto Cesare vi amava. Non siete legni, non siete pietre, ma uomini; ed, essendo uomini, ascoltare il testamento di Cesare vi infiammerà, vi renderà folli. E’ bene che non sappiate che voi siete suoi eredi; perché, se lo sapeste, oh, che cosa seguirebbe?QUINTO PLEBEO – Leggi il testamento! Vogliamo sentirlo, Antonio! Tu ci leggerai il testamento, il testamento di Cesare!ANTONIO – Volete avere pazienza? Volete aspettare un momento? Ho passato il segno, a parlarvene. Ho paura di far torto a quegli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare. Lo temo davvero.QUINTO PLEBEO – Quelli erano traditori. “Uomini d’onore!”.TUTTI – Il testamento! Il testamento!QUARTO PLEBEO – Erano canaglie, assassini! Il testamento! Leggi il testamento!ANTONIO – Volete dunque costringermi a leggere il testamento? Allora fate cerchio intorno al corpo di Cesare, e lasciate che vi mostri colui che fece il testamento. Devo scendere? Me ne darete il permesso?TUTTI – Vieni giù.QUARTO PLEBEO – Scendi.TERZO PLEBEO – Hai il permesso.QUINTO PLEBEO – In cerchio! State attorno.PRIMO PLEBEO – State lontani dalla bara! Lontani dal corpo!QUARTO PLEBEO – Fate posto ad Antonio, al nobilissimo Antonio!

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ANTONIO – No, non spingetemi così, state più in là.TUTTI- Fatevi indietro! Spazio! Indietro!ANTONIO – Se avete lacrime, preparatevi a versarle ora. Tutti voi conoscete questo mantello. Ricordo la prima volta che Cesare l’indossò: fu una sera d’estate, nella sua tenda, il giorno in cui sconfisse i Nervii.Guardate, in questo punto è penetrato il pugnale di Cassio; guardate che squarcio ha fatto il perfido Casca; e per questo buco ha pugnalato il tanto amato Bruto, e quando ha estratto il suo ferro maledetto, osservate come il sangue di Cesare l’ha inseguito, quasi precipitandosi all’aperto ad accertarsi se era stato Bruto o no a battere così snaturatamene, perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare. Giudicate voi, oh dèi, quanto caramente Cesare l’amava. Questo fu, di tutti, il taglio più crudele; perché quando il nobile Cesare lo vide vibrare il colpo, l’ingratitudine, più forte delle armi dei traditori, lo vinse del tutto; allora scoppiò il suo cuore possente, e, coprendosi il volto col mantello, proprio ai piedi della statua di Pompeo che per tutto quel tempo mandò sangue, il grande Cesare cadde. Oh, che caduta fu quella, miei concittadini! Allora io, e voi, e noi tutti cademmo, mentre il tradimento sanguinario trionfava su di noi. Oh, ora voi piangete, e sento che provate la forza della pietà. Queste sono lacrime giuste. Anime gentili, perché piangete solo a guardare la veste ferita del nostro Cesare? Guardate qui! Qui c’è lui stesso, sfigurato, come vedete, dai traditori.PRIMO PLEBEO – Oh, spettacolo pietoso!QUARTO PLEBEO – Oh, nobile Cesare!TERZO PLEBEO – Oh, tristissimo giorno!QUINTO PLEBEO – Traditori! Canaglie!PRIMO PLEBEO – Oh, vita sanguinosa!QUARTO PLEBEO – Avremo vendettaTUTTI – Vendetta! Cominciamo! Cercate! Bruciate! Incendiate! Uccidete! Ammazzate! Neanche un traditore deve sopravvivere.ANTONIO – Aspettate, concittadini.PRIMO PLEBEO – Fermi lì! Ascoltate il nobile Antonio.QUARTO PLEBEO – Lo ascolteremo, lo seguiremo, moriremo con lui.ANTONIO – Buoni amici, dolci amici, non fate che vi scateni a una così improvvisa fiumana di rivolta. Coloro che hanno compiuto

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questo atto sono uomini d’onore. Quali rancori personali essi avessero, ahimé, io non lo so, che li hanno spinti a compierlo. Sono saggi e onorevoli, e vi risponderanno, non c’è dubbio, con le loro ragioni. Io, non vengo, amici, a rubarvi il cuore. Io non sono un oratore, come lo è Bruto, ma, come tutti voi mi conoscete, sono un uomo semplice e rozzo, che ama il suo amico; e questo lo sanno molto bene quelli che mi hanno dato licenza di parlare pubblicamente. Perché non ho né ingegno, né parole, né capacità, né gesti, né espressione, né potere di discorso per smuovere le passioni degli uomini; io parlo solo come mi viene. E vi dico ciò che voi stessi sapete, vi mostro le ferite del dolce Cesare, povere povere bocche mute, e chiedo loro di parlare per me. Ma se io fossi Bruto, e Bruto Antonio, allora ci sarebbe un Antonio che vi scatenerebbe l’anima, e ad ogni ferita di Cesare darebbe una lingua che muoverebbe le pietre di Roma all’insurrezione e alla rivolta.TUTTI - Noi ci rivolteremo!PRIMO PLEBEO – Incendieremo la casa di Bruto.TERZO PLEBEO – Via, allora! Andiamo a cercare i cospiratori.ANTONIO – Ascoltatemi ancora, concittadini. Lasciatemi parlare.TUTTI – Silenzio, ehi! Ascoltiamo Antonio, il nobilissimo Antonio.ANTONIO – Ma come, amici, state andando a fare non sapete cosa. Perché Cesare ha meritato fino a questo punto il vostro affetto? Ahimé, voi non lo sapete: devo dirvelo io, allora. Avete dimenticato il testamento di cui vi ho parlato.TUTTI – Verissimo! Il testamento! Fermiamoci, sentiamo il testamento. ANTONIO – Ecco il testamento, e qui sotto c’è il sigillo di Cesare. A ciascun cittadino romano egli dà, a ciascun singolo uomo, sessantacinque dracme.QUARTO PLEBEO – Nobilissimo Cesare! Noi vendicheremo la tua morte.TERZO PLEBEO – Oh, regale Cesare!ANTONIO – Ascoltatemi con pazienza.TUTTI – Silenzio, ehi!ANTONIO – E in più, vi ha lasciato tutti i suoi giardini, i pergolati, e gli orti appena piantati, da questa parte del Tevere; li ha lasciati a voi, e ai vostri eredi, per sempre: pubblici parchi per passeggiare dove vi va di divertirvi. Questo era Cesare! Quando ne verrà un altro uguale?

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PRIMO PLEBEO – Mai, mai! Venite, andiamo, andiamo! Bruceremo il suo corpo nel sacrario, e con i tizzoni incendieremo le case dei traditori. Prendete il corpo.QUARTO PLEBEO – Trovate il fuoco.TERZO PLEBEO – Sradicate le panche.QUINTO PLEBEO – Sradicate gli stipiti, le imposte, ogni cosa.ANTONIO – E ora, che tutto faccia il suo corso. Male, sei scatenato, prendi la strada che vuoi.

(Dal Giulio Cesare di William Shakespeare, Garzanti, 1998, atto terzo, scena seconda, pp.111-123).

Giulio Cesare fu pubblicato, per la prima volta, nella raccolta completa, o quasi, delle opere di Shakespeare nel 1623. Il dramma andò in scena nel 1599 inaugurando il nuovo teatro della compagnia, il famoso The Globe. La fonte principale dell’opera è costituita dalle Vite di Plutarco che Shakespeare selezionava, per poi usare nelle sue opere, andando alla ricerca di conflitti esemplari che potevano risultare ancora attuali se rivisitati alla luce del confronto, in termini politici, tra Cinque e Seicento, tra una visione monarchica, ritualistica, cerimoniale, che reclamava l’investitura divina del capo, e quindi la legittimazione metafisica del potere, e una visione per così dire repubblicana, e quindi laica del potere, con legittimazione da parte del popolo e dei suoi rappresentanti.Giulio Cesare è incentrato sul contrasto tra l’ordinamento repubblicano, vigente a Roma da quasi cinque secoli, e la tendenza autoritaria e monarchica, rappresentata prima da Cesare e poi dai suoi successori.Il dramma inizia con la vittoria di Cesare, a Munda (in Spagna), nel marzo del 45 a.C., sui figli di Pompeo. Il popolo intende acclamare il vincitore ma viene in questo impedito dai tribuni che in ciò scorgono il primo manifestarsi della monarchia. Ed è proprio questo pericolo che la congiura repubblicana vuole eliminare con l’uccisione di Cesare. Uccisione, perpetrata da Bruto e Cassio, che dovrebbe consentire lo stabilizzarsi e il rafforzarsi del governo repubblicano. Ma ciò non accade. Nel terzo atto assistiamo infatti al trionfo del cesarismo incarnato da Antonio che, con la sua orazione, conquista il

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favore del popolo trascinandolo con sé contro i repubblicani. I tempi sono maturi per l’Impero.Giulio Cesare è un “dramma della politica, della retorica della politica, e quindi della forza della parola attraverso cui si fa la storia18”. Un mirabile esempio di eloquenza pubblica i cui contenuti sono organizzati in una trama di proposizioni orchestrata in modo da portare l’ascoltatore ad aderire al progetto politico, assiologico del suo autore, ossia Antonio. Antonio infatti con la sua parola riesce a cambiare il corso della storia. “Si tratta di una clamorosa dimostrazione della funzione storica dell’atto di parola. […] Shakespeare conferisce centralità all’azione della parola: la parola che cambia la storia, la parola che è recitazione, teatro delle passioni, allocuzione diretta ad un pubblico (il popolo) su cui si prova e si ottiene, o si perde il potere politico19”.E’ il dramma della persuasione, persuasione che si esercita sul popolo. Dapprima infatti i tribuni convincono quest’ultimo a non celebrare Cesare; quindi Cesare, rifiutando per tre volte la corona d’alloro (offertagli in occasione dei Lupercali20), persuade il popolo della sua fedeltà alla repubblica; poi Bruto lo convince che la morte di Cesare era necessaria per salvare la repubblica; Antonio, infine, lo persuade dell’onestà e della generosità di Cesare.Del resto “la storia non è fatta di programmi razionali, quanto di persuasioni, effettuate affinché gli altri aderiscano al proprio modello del mondo21”.Ed è esattamente quanto Antonio riesce a fare nel terzo atto. Abilmente, in modo indiretto, egli porta il popolo a seguirlo nei suoi piani, senza che però quest’ultimo si renda conto di essere agito, di non essere altro che uno strumento manovrato dalla sua parola. Un parola che si muove in una rete di ellissi, insinuando, suggerendo, senza mai negare apertamente (pur essendo questo il suo fine), che l’accusa di essere ambizioso, rivolta da Bruto a Cesare, per giustificare il suo atroce delitto, non è altro che una tremenda bugia.

18 A. SERPIERI, Prefazione, in W. SHAKESPEARE, Giulio Cesare, Milano, Garzanti, 1993, XLVI.19 Ivi, XLIII.20 Festa della fertilità.21 A. SERPIERI, Prefazione, in W. SHAKESPEARE, Giulio Cesare, op. cit., XLI.

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L’orazione inizia con un’invocazione che sfrutta la funzione fatica. Antonio avvicina a sé il popolo qualificandolo come “amico”. Cosa che poi continuerà a fare nel corso di tutta l’orazione.Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio.La frase che segue è di tipo gnomico, proverbiale. E allude all’ingiustizia che, nello specifico, è stata commessa nei confronti di Cesare.Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sotterrato con le loro ossa. Così sia di Cesare. Antonio accetta, intendendo implicitamente il contrario, che anche Cesare sia oggetto di ingiustizia. In realtà l’intera orazione si realizza attraverso una serie di affermazioni che vengono poi capovolte nel loro opposto. Continuamente Antonio dice di non intendere ciò che però, in realtà, le sue parole vogliono comunicare. Il piano di Antonio è quello di condurre il popolo dalla sua parte senza che questo ne abbia la percezione. E lo fa ricorrendo, oltre che alla funzione fatica, a quelle emotiva e conativa.L’obiettivo principale, da cui muove l’intero discorso, è, ripeto, la demolizione dell’accusa mossa da Bruto: “Cesare era un uomo ambizioso”. A questa affermazione egli avvicina contrapponendola quella secondo cui “Bruto è un uomo d’onore”. Per farlo Antonio ricorre alla ridondanza, alla ripetizione. Egli cioè ossessivamente ripete che Bruto è un uomo d’onore. Una considerazione che perde completamente la sua consistenza all’interno di un’argomentazione che, con prove schiaccianti, quali il rifiuto di Cesare a indossare la corona e il suo testamento al popolo, dimostra inequivocabilmente come Cesare fosse in realtà un generoso amico del suo popolo (Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha pianto; l’ambizione dovrebbe essere fatta di più dura stoffa) che amava, tanto da farlo suo erede, e come quindi Bruto fosse tutt’altro che un uomo d’onore. Una proposizione quest’ultima, ossia “uomo d’onore”, che nella sua quasi ridicola e ossessiva ripetizione perde di senso. Per diventare fastidiosa alle orecchie del popolo che, stanco di ascoltare una simile fandonia, spontaneamente la rifiuta e la rovescia (Quelli erano traditori. “Uomini d’onore!”. Erano canaglie, assassini!).Esempio dell’abilità di Antonio nell’incitare il popolo all’azione, nello smuoverlo dalla sua cecità è l’espressione: “bestie brute”. L’originale inglese è infatti “brutish bests”. Una paronomasia, ossia

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un gioco di parole basato sulla somiglianza fonetica, fra “brutish” e “brutus che viene così associato a “bestie”. Il messaggio è chiaro e terribile. Non solo moralmente, sposando la causa di Bruto, assassino di Cesare, il popolo è divenuto “bestiale” ma anche politicamente stando dalla parte di un “bruto”. L’orazione è un sottile “gioco di negazioni, adescamenti, ipotesi, emozioni in cui Antonio dà sempre l’impressione di essere trascinato ben al di là di quanto vorrebbe dire e fare, sia dalla sua incoercibile emozione, sia dall’emozione, non controllabile da lui, del popolo. Antonio sembra alla deriva nel flusso della storia, mentre, in realtà, la sta costruendo mattone su mattone. Le sue parole sono sassi”22.La litote (letteralmente “negazione del contrario”) è la figura principe di questa orazione. Una sorta di negazione apparente per veicolare un senso che Antonio finge di celare:“TUTTI – Il testamento! Il testamento! Vogliamo sentire il testamento di Cesare! ANTONIO – Abbiate pazienza, gentili amici; non devo leggerlo. Non è opportuno che sappiate quanto Cesare vi amava.”In questo caso Antonio chiede al popolo di essere paziente quando, in realtà, tutta la sua argomentazione è intesa a renderlo impaziente, a indurlo a ribellarsi. Ciò che Antonio vuole è scatenare la furia del popolo facendo appello alla sua emotività, trascinandolo in una spirale di emozioni sempre più intense. Alla litote fa seguito un’altra figura, la preterizione che si inscrive sempre in questo sottile gioco di detto e non detto. La preterizione consiste nell’affermare che non si parlerà di un argomento che invece viene brevemente schizzato (esempio tratto dal discorso comune: “meglio evitare di parlare della sua arroganza”). Nello specifico Antonio dice proprio ciò che “non sarebbe opportuno” rivelasse e cioè quanto Cesare amasse il suo popolo. Come anche nell’affermazione seguente: “è bene che non sappiate che voi siete suoi eredi”.La parola di Antonio si fa sempre più accesa, più intensa, più ricca di passione. Come lo testimonia la forza dell’ossimoro: “Ho paura di far torto a quegli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Cesare”. Ossimoro per il contrasto paradossale che si crea tra l’essere uomini d’onore e il macchiarsi dell’omicidio di Cesare.

22 R. GIANNETTA ALBERONI, L’era dei mass media. Note sociologiche sulla storia delle comunicazioni di massa, Milano, COOPLI IULM, 1989, p.84.

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Ed ecco che Antonio riesce in quanto desiderava. La folla è dalla sua parte, è parte della sua passione e spontaneamente chiama traditori quelli che fino ad ora ironicamente erano stati definiti uomini d’onore.L’ironia, dal greco eironéia, ossia finzione, è infatti l’altra figura, oltre alla litote e alla preterizione, che impronta di sé l’intera orazione. Anch’essa infatti intendendo l’opposto di ciò che afferma si muove tra il detto e il non detto. Allude a altro rispetto a ciò che sostiene. Invita ad andare sotto la superficie delle cose, a non fermarsi alla comodità delle abitudini. Ad assumere un atteggiamento critico rispetto al reale.La parola di Antonio è azione. Azione che guida i comportamenti del popolo direttamente “se avete lacrime, preparatevi a versarle ora” e indirettamente quando gli viene chiesto “leggi il testamento!”. In quest’ultimo caso infatti non è Antonio a chiedere di poterlo leggere, ma è lui ad indurre, sotterraneamente, il popolo a formulare tale richiesta. L’esposizione del mantello di Cesare squarciato dalle pugnalate di Cassio, Casca e Bruto costituisce un momento intensamente drammatico. Il mantello diventa infatti testimone di un atroce delitto, reliquia e simbolo di Cesare, simulacro della sua magnificenza. La colpa di Bruto è ancora più grave e infamante rispetto a quella degli altri cospiratori. Bruto, dice infatti Antonio, “era l’angelo di Cesare”, “Cesare l’amava” e quando lo colpì, “quando Cesare vide vibrare il colpo, l’ingratitudine, più forte delle armi dei traditori, lo vinse del tutto”.Il quadro è perfettamente reso in tutta la sua drammaticità attraverso l’uso dell’iperbole che evidenzia la scelleratezza di una simile azione delittuosa: “allora scoppiò il suo cuore possente, e, coprendosi il volto col mantello, proprio ai piedi della statua di Pompeo che per tutto quel tempo mandò sangue”.La brutalità dell’omicidio è ulteriormente richiamata dal volto “sfigurato di Cesare”. Shakespeare, di solito usa il verbo “to mar” in riferimento ad oggetto simbolico, a discorso, a scrittura, al creato in quanto scrittura di Dio, ecc. Quindi qui è di particolare rilievo: Cesare è il segno del cosmo simbolico. Tale verbo poi non è usato con la preposizione che gli è

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propria, ossia con il complemento d’agente “by” ma con la preposizione del complemento di compagnia “with”: “la figura segnica di Cesare morto porta inscritti (in compagnia) gli sfregi dissacranti dei traditori, scarabocchi, appunto, su quella che resta l’unica figura simbolica, garante del Senso per il mondo. Il Senso per il mondo nella concezione piramidale del codice medievale: il Re è il vertice della piramide. Vertice unto da Dio23”. Ed è questa caduta, la caduta del vertice simbolico, che significa l’espressione: “il grande Cesare cadde. Oh, che caduta fu quella, miei concittadini! Allora io, e voi, e noi tutti cademmo, mentre il tradimento sanguinario trionfava su di noi”.A chiusura di un discorso in cui la retorica ha dato prova delle sue capacità, Antonio sembra quasi fare il verso a Socrate affermando: “perché non ho né ingegno, né parole, né capacità, né gesti, né espressione, né potere di discorso per smuovere le passioni degli uomini; io parlo solo come mi viene”. Antonio cioè, come il grande filosofo greco finge di non sapere, usa l’eironeia, la finzione, la simulazione. In tutta la sua orazione ha finto di non dire, ha giocato con le parole spostandole dal piano dei significati “visibili” a quello del senso figurato. Ha alluso a verità altre, ha costretto i suoi interlocutori a andare oltre le loro opinioni fino a ribaltarne completamente il punto di vista. “Nobilissimo Cesare! Noi vendicheremo la tua morte. Venite, andiamo, andiamo! Bruceremo il suo corpo nel sacrario, e con i tizzoni incendieremo le case dei traditori. Prendete il corpo”Questo è quanto ora il popolo desidera. Questo è quanto è determinato a fare. Perché, come aveva detto Antonio, “voi non siete legni, non siete pietre, ma uomini; ed, essendo uomini, ascoltare il testamento di Cesare vi infiammerà, vi renderà folli”. E in effetti è proprio così. Il popolo sente, è scosso dalla passione e, sottoposto a un simile bombardamento di emozioni, non può che accendersi, infiammarsi della stessa rabbia, della stessa sete di vendetta che gli è stata iniettata da parole, da immagini tanto forti.“QUARTO PLEBEO – Nobilissimo Cesare! Noi vendicheremo la tua morte”.L’orazione di Antonio è quindi emblematica della capacità di persuasione posseduta dalla parola. Una parola che riesce a muovere

23 Ivi, p.95-96.

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le persone attraverso quegli strumenti che la retorica ha messo a disposizione dell’uomo nel corso di secoli di riflessioni sulla lingua.

Il genere pubblicità e suoi sottogeneri.Quello della pubblicità è un linguaggio ibrido che si costruisce cioè attraverso l’interazione di più linguaggi e codici diversi (visivo, verbale, sonoro, musicale) per realizzare il proprio messaggio. Anche i media di cui si avvale sono i più disparati, dalla tv, alla radio, alla stampa, a internet, ai manifesti ecc., in base alla forza con cui ciascuno si presta a veicolare i suoi contenuti e in rapporto a determinati target. Ma non mi sembra corretto escluderne la natura di genere solo perché attinge, appunto, a linguaggi e codici diversi. Dal momento che, di fatto, la pubblicità ha forma, contenuti e caratteristiche che la definiscono chiaramente come genere.Fa parte della natura umana, probabilmente per un bisogno di ordine, di chiarezza di semplificazione suddividere in unità, in categorie, in classi ecc. i vari campi dell’esperienza e della conoscenza. Aiuta a “controllare” l’esistente. Così se il “discorso” viene suddiviso in conversazione, lezione, e-mail, barzelletta, preghiera ecc.; in letteratura abbiamo la novella, il dramma, la poesia, ecc.; nel cinema il thriller, il western, l’horror, ecc.; a teatro la tragedia, il melodramma, la commedia; nella televisione la sit-com, la soap-opera, il quiz, il talk.show, ecc. Si tratta cioè di “categorie” ciascuna delle quali si caratterizza per determinate convenzioni, norme, per una forma specifica che la differenzia da tutte le altre. E queste categorie originano, nel destinatario, tutta una serie di aspettative. Nel senso che, ad esempio, la definizione di un film quale “commedia” attiva nell’individuo precise attese tra cui, in primis, il divertimento. (Proprio come per la pubblicità di cui, oramai, il consumatore postmoderno conosce bene i meccanismi e verso cui non è più diffidente ma dalla quale esige di essere intrattenuto in

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modo divertente. Un po’ come accadeva col Carosello che sembrava aver intuito, seppure “inconsciamente”, quanto il divertimento fosse importante per “bloccare” lo spettatore davanti allo schermo. Infatti lo spettacolo era parte prevalente e veniva spessissimo affidato a comici famosi (Vinello, Tognazzi, Bramieri, ecc.) e amati). Ma che cosa si intende per genere? “Per genere si intende, fondamentalmente, una categoria nella quale si annoverano cose che condividono uno stesso “repertorio di elementi” (Lacey 2000); il dizionario ce lo conferma. Esistono generi di ogni tipo, da quelli alimentari a quelli narrativi, ma, per quanto variegata sia la natura dei materiali interessati, i generi assolvono a una identica funzione primaria: contenere la dispersione, fornendo i criteri unificanti che consentono di far fluire una pluralità di oggetti in una medesima, riconoscibile categoria (Creeber, 2001). I criteri di individuazione dei generi possono essere contenutistici […] o anche stilistici e formali, o fare riferimento a un pubblico specifico […] In realtà i generi, almeno nel campo della produzione culturale, non sono mai così semplici e unidimensionali da poter essere stabiliti sulla base di un unico criterio; ugualmente, i materiali culturali non sono mai così semplici e unidimensionali da poter essere annoverati sotto un unico genere24”.È dunque, secondo me, scorretto non considerare la pubblicità un genere poiché, il dibattito, tuttora vivo, attorno al termine, ha comunque chiarito che quest’ultimo non esiste allo stato puro. Vale a dire che, spesso, i generi si contaminano tra loro, l’uno sconfina nell’altro. Ecco quindi che, ad esempio, i generi televisivi e i loro format sono frequentemente risultato di combinazioni di generi diversi. “John Ellis, nella prima edizione di “Visibile Fictions (1982), sottolinea le differenze tra serie e serial. La principale consiste nel fatto che la serie televisiva si serve di episodi in sé conclusi, dotati di trame relativamente autonome rispetto al serial che fa uso invece di plot continuativi i cui protagonisti apprendono da un episodio all’altro. Ma attualmente vi sono elementi del serial in molte di quelle che l’industria televisiva considera serie: ad esempio le statunitensi sit-com Friends, o hospital drama come ER […} In Inghilterra, il format realistico, in sé concluso, narrativamente

24 M. BUONANNO, Le formule del racconto televisivo. La sovversione del tempo nelle narrative seriali, Milano, Sansoni, 2002, p.27.

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abbastanza scontato della serie poliziesca The Bill ha in realtà dato vita a trame non definite che, con il focus sulle vite private dei protagonisti, è caratteristico delle soap opera 25”.Del resto, nella stessa definizione di genere sopra riportata, si afferma che i generi non sono né “semplici”, né “unidimensionali” come non lo sono neanche i materiali di riferimento che non è possibile ricondurre a una unica macrocategoria.Fabris parla, a proposito della pubblicità, di metagenere onde evidenziarne la complessità, la multidimensionalità, il suo essere costantemente in debito di contributi rispetto ad altre aeree. Eppure, nello stesso tempo, Fabris ne sottolinea alcune caratteristiche (unilateralità e ipersinteticità) che le sono proprie e che, a mio parere, con altre che evidenzierò la qualificano come “genere”.

Innanzitutto la sua unilateralità ossia la sua parzialità, il suo essere per forza di cose di parte. Dal momento che suo fine è supportare il prodotto che deve promuovere.

La sua ipersinteticità (uno spot si svolge in pochi secondi; un manifesto contiene una breve headline che riassume un intero concetto ecc.). Lo spazio che ha a disposizione è di pochi secondi, di poche righe e in esso deve concentrare il suo messaggio spesso strutturato come una ministoria.

Il suo target è sempre ben definito da un punto di vista demografico: sesso, età, classe sociale di appartenenza.

Lo spazio bene preciso che le viene riservato nel palinsesto televisivo. Nei film/telefilm/soap-opera ecc. questo spazio viene annunciato da una sigletta musicale mentre nei quiz, nei talk-show, nei varietà ecc. è il presentatore stesso che lo introduce.

La sua finalità. Sappiamo benissimo, il consumatore sa benissimo, che l’obiettivo che si propone la pubblicità è promuovere un prodotto. La pubblicità crea goodwill nel consumatore rispetto al bene presentato.

La ambiguità che la caratterizza ossia il “suo presentarsi come discorso informativo su una merce, mentre in realtà la “merce” è il discorso stesso. Non solo perché il testo è “venduto” dal pubblicitario al produttore, ma anche perché se

25 G. CREEBER, The television genre book, London, British Film Institute, 2001, p.6.

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lo slogan funziona (ovviamente interagendo con l’immagine, con la musica, ecc.), i futuri acquirenti del prodotto no comprano il prodotto per se stesso, ma per quella suggestione (di bellezza, di gioventù, di forza, di prestigio, ecc.) che il pubblicitario ha saputo associare e addirittura sostituire al prodotto26”.

La sua lingua sia visiva che verbale fortemente connotata retoricamente. Alcune figure sono predominanti: l’iperbole, l’antonomasia, l’ellissi e la metafora.

Il completarsi, l’interagire costante tra linguaggio verbale e visivo che si completano a vicenda. Il verbale offre all’immagine una sorta di ancoraggio poiché ne definisce in modo preciso il senso astratto e l’immagine connota fortemente la parola.

La pubblicità è un discorso che vive del dialogo tra testo e contesto. Ossia tra messaggio e società da cui nasce e a cui ritorna. “Un annuncio pubblicitario o uno spot non è un’entità tangibile né stabile: è la sintesi dinamica di molte componenti e nasce proprio attraverso esse. Un advertising è fatto di: destinatari/consumatori, ha una funzione specifica, usa immagini, musica, si rivolge e trae ispirazione dalla società, fa uso di elementi linguistici e paralinguistici, crea situazioni o le cita e cita altre pubblicità27”.

La predominanza delle funzioni conativa e referenziale benché anche quella fatica abbia una parte importante.

L’autocitazione e la citazione. Non solo la pubblicità cita se stessa (metapubblicità. Ossia la “guarda indietro e cita la sua storia passata […] e tende ad avere come oggetto sempre più i propri discorsi e i propri meccanismi di comunicazione) ma è anche citata da altri linguaggi: dall’arte (in primis dalla pop art), dal cinema (esempio in tal senso 9 settimane e mezzo che poi spiegherò nella parte dedicata alla citazione), dall’individuo nel suo rapportarsi ad altri soggetti (…), ecc.

La pubblicità dunque è un genere dotato di caratteristiche specifiche. Alcune delle quali instabili, mutevoli altre invece sue

26 M.L. ALTIERI BIAGI, La lingua della pubblicità, in AA.VV., Pubblicità segni e sogni, a cura di A. Pesce e A. Massenti, Brescia, La Scuola, 1989.27 G. COOK, The Discourse of Advertising, London and New York, Routledge, 1996, p.6.

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proprie. Dal genere pubblicità si dirama tutta una serie (piuttosto ampia) di sottogeneri. Quelli che ho sinora individuato sono i seguenti, ma sottolineo che si tratta di una lista suscettibile di essere accresciuta nel tempo, soprattutto tenendo conto del fatto che la pubblicità capta tutti i segnali che le arrivano dalla società in cui si muove, società che, a sua volta, subisce profondi mutamenti col trascorrere del tempo.I microgeneri sono:

a. arte;b. citazione; c. comicità;d. ironia;e. drammatizzazione del Benefit;f. spettacolarizzazione;g. pubblicità comparativa;h. fear arousing appeal;i. fiaba;j. inversione dei ruoli;k. straniamento;l. nonsense;m. trasgressione;n. erotismo;

Come è evidente alcune “etichette”,e, f, g, h, sono specifiche della comunicazione pubblicitaria altre sono invece state mutuate da varie discipline. Così, ad esempio, il nonsense e la fiaba appartengono alla letteratura, l’ironia e la citazione alla retorica (è una figura di parola o di pensiero) ecc.; inoltre queste “etichette” a volte fanno riferimento a frames altre a un contenuti.

L’arte Se le réclames sono quasi esclusivamente pubblicità di negozi, di locali o di imprese, nella seconda metà dell’800 invece, il cambiamento avvenuto nei modi di produzione, di distribuzione e di commercializzazione dei prodotti, “corrispondente alla nuova fase dell’industrializzazione fatta di grandi imprese, di prodotti diffusi capillarmente e altrettanto capillarmente pubblicizzati, fa sì che la

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pubblicità si sposti dal negozio al prodotto, che ora arriva dappertutto e ha bisogno di distinguersi dagli altri simili per marcare una differenza e avere una maggiore visibilità. Di più grande formato diventano dunque le pubblicità non più dei luoghi ma dei prodotti che si possono trovare nei negozi più vicino28”. Il paesaggio urbano è invaso da manifesti. Manifesti in cui si cimentano artisti di rilievo come, in Francia, Toulouse-Lautrec (per i “Confetti Bella” (1893), per le “Catene Simpson” (1896), ecc.); o, in Italia, Leonetto Cappiello (per il cioccolato Klaus (1903)), e poi, successivamente, Dudovich, Armando Testa e molti altri.Sin dagli inizi pubblicità e arte si frequentano e l’una subisce gli influssi e le suggestioni dell’altra. Gabriele D’Annunzio, insigne precursore dei futuristi, inventa il nome della Rinascente, dell’Aurum, del Sangue Morlacco (cherry brandy); battezza l’Amaro Montenegro “il liquore delle virtudi”; crea un messaggio, presente sulla confezione, per i biscotti Saiwa (1929).Picasso fa entrare la pubblicità nei suoi dipinti tanto che vi troviamo, a grandi lettere, il brand di alcuni prodotti. Ecco allora il marchio del brodo Kub e la bottiglia di Pernod nel dipinto intitolato Paesaggio con manifesti (1912) o quello della lingérie “Bon Marché” nell’opera “Au Bon Marché” (1913). Un interscambio intenso che non riguarda certo solo il cubismo. Il rapporto tra arte e pubblicità è infatti costituito di contaminazioni reciproche “che si estendono largamente anche agli anni che seguono quando il futurismo scopre la portata rivoluzionaria della pubblicità e se ne innamora, precursore di continui ulteriori flirts con i movimenti artistici: dall’impressionismo, all’espressionismo, dall’art nouveau al decò, al surrealismo, fino al grande, e ricambiato amore per la pop art29”.Ed è proprio al futurismo e alla sua scoperta della pubblicità quale “forma d’arte” che voglio qui dedicare qualche riga. Per farlo in modo adeguato prenderò le mosse dal testo “Il futurismo e la pubblicità” in cui l’autrice, la giornalista Claudia Salaris, sottolinea proprio come, con il futurismo, “per la prima volta nella storia della cultura la pubblicità diventa sistema del fare arte30”.

28 E. GRAZIOLI, Arte e pubblicità, Milano, Bruno Mondatori, 2001, p.8.29 G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e prassi, Milano, Franco Angeli, 1997, p.29.30 C. SALARIS, Il futurismo e la pubblicità. Dalla pubblicità dell’arte, all’arte della pubblicità, Milano, Lupetti&Co, 1986, p.14.

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A questo proposito è utile riportare quanto scrive Depero a riguardo: “L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria […] anche l’arte deve [infatti] marciare di pari passo all’industria, alla scienza, alla politica, alla moda del tempo, glorificandole – tale arte glorificatrice venne iniziata dal futurismo e dall’arte pubblicitaria – l’arte della pubblicità è un’arte decisamente colorata, obbligata alla sintesi – arte fascinatrice che audacemente si piazzò sui muri, sulle facciate dei palazzi, nelle vetrine, nei treni, sui pavimenti delle strade, dappertutto; si tentò perfino di proiettarla sulle nubi – arte viva, moltiplicata, e non isolata, sepolta nei musei.31”.“Nella produzione parolibera o in pittura, non manca l’utilizzazione di sigle e insegne pubblicitarie, vere o false, a livello di “collage”. Da “Manifestazione interventista” (1914), collage di Carrà, in cui fa capolino “Tot”, ai dipinti di Soffici e alle sue pagine di “Chimismi lirici”, piene di “Florio” e “Fiat”, con un gusto che certo anticipa il dadaismo.Anche Boccioni, Cangiullo, Jannelli, Volt e molti altri parolieri utilizzano il brandello pubblicitario nelle loro parolibere32”.La grafica pubblicitaria futurista si caratterizza per la “sintesi immediata attraverso cui viene trasmesso il messaggio pubblicitario; ciò comporta il superamento del gusto per il decorativo e il descrittivo che connotano la produzione pubblicitaria italiana, compresa quella più lineare, ma sempre narrativa, di un Terzi, di un Dudovich, di un Cappiello, di un Golia33”.I futuristi non riescono però ad ottenere il favore dell’industria dell’epoca. Anche se colpisce comunque il tentativo, da essi

31 F. DEPERO, in Numero unico futurista Campari 1931, omaggio della ditta Davide Campari&C., Milano, Rovereto, Tipografia Mercurio; il testo del manifesto appare in una precedente versione breve in “La città futurista”, a. I, n.2, Torino, maggio 1929; poi col titolo Manifesto dell’arte pubblicitaria futurista, in “Futurismo”, a I. n.2, Roma, 15-30 giugno 1932. Scrive Depero nel manifesto “Il futurismo e l’arte pubblicitaria” – pubblicato nel 1931 sul Numero unico futurista Campari – vero vangelo del settore.E, a questo proposito, ricordo quanto A. ABRUZZESE afferma in Metafore della pubblicità, Genova, Costa & Nolan, 1988, p.15. “Tra gli anni Dieci e Trenta l’avanguardia aveva scoperto le nuove regole della comunicazione in una civiltà dominata dalla velocità, dalla simultaneità e dalla modernolatria: il rapporto stretto tra bellezza e tecnologia, l’importanza della “trovata”; il vissuto del prodotto. Un’arte “destinata non ai musei ma alla strada”. 32 C. SALARIS, Il futurismo e la pubblicità…, op.cit., p.14.33 Ivi, p.18.

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compiuto, “di dare all’arte pubblicitaria una dignità pari a quella delle cosiddette arti maggiori, il che implica che nel settore si debba procedere con una competenza tecnica specialistica ma anche con quella stessa pulsione creativa che spinge l’artista a concepire un quadro o una scultura. E in proposito è molto chiaro il punto di vista di Depero, che sostiene: “benché io dipinga giornalmente quadri di libera ispirazione, con eguale armonia di stile, con lo stesso amore, con non minore entusiasmo e cura, esalto con la mia fantasia prodotti industriali nostri34”.Questa affermazione di Depero sintetizza la condizione contraddittoria di una forma di comunicazione artistica, la pubblicità, per l’appunto, che per la sua natura di ibrido (bastard art35), che si nutre dei materiali più disparati e li comunica attingendo al linguaggio di tutti i media, è stata oggetto di pregiudizi che ne hanno svilito la dimensione creativo/artistica a favore del riconoscimento di una sua realtà esclusivamente di tipo professionale. “Gioca in questo caso come in altri il pesante insieme di luoghi comuni secondo i quali di volta in volta cinema, radio, televisione sono apparsi come mondi spuri rispetto alla purezza e sovranità dell’arte. Pregiudizi tanto più forti nel caso della pubblicità dal momento che essa rivela pienamente ciò che prima poteva restare velato o rimosso o emarginato: il potere delle merci sull’attività creativa36”. La pubblicità è infatti erroneamente intesa come appendice della produzione, come uno degli strumenti del marketing. Pubblicità come una sorta di arte minore, arte del fare avulsa da qualsiasi sapere teorico legata invece a conoscenze di carattere puramente tecnico.

34 Ivi, p.21.35 G. E. BUSSI PARMIGGIANI, L’arte bastarda. Analisi del linguaggio della pubblicità inglese…, op.cit., p.20. “La pubblicità è arte? O è soltanto “bastard art”, come nella definizione di Raymond Williams, cioè una pseudo-arte? Mentre infatti Raymond Williams considera la pubblicità televisiva come un grande ibrido nato da genitori vicini (il manifesto, la pagina a stampa e la réclame radiofonica) influenzato da parentele e affinità (gli altri generi televisivi), altri commentatori amano vedere in essa una nuova forma di arte popolare, una forma espressiva che riempie un vuoto culturale dal momento che “prima dell’epoca del grande consumo l’uomo della strada non aveva mai avuto una sua estetica”; si tratta di “una grande epopea in cui si condensano i miti e i riti della cultura di un paese”, “un fenomeno assediante, produttore di una cultura universalizzante”.36 A. ABRUZZESE, Metafore della pubblicità, op. cit., pp.8-9.

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Una concezione questa assolutamente fuorviante poiché dimentica del ruolo che la creatività riveste in pubblicità. “Una creatività [che] è frutto [sembra qui di sentire l’eco di Depero] di un sapere pubblicitario sedimentato, di una lunga esperienza professionale, di una scrupolosa ed analitica conoscenza del problema a cui la si applica, di un serio background nella nuova retorica e nelle scienze della comunicazione e, naturalmente, di doti personali creative37”.In questa affermazione sono contenute alcune parole chiave. La prima riguarda la necessità di una buona esperienza professionale. La seconda la “conoscenza” ossia lo studio (e quindi anche il possesso dei metodi per realizzare tale studio) del target di riferimento, della realtà del prodotto, delle sue caratteristiche. La terza è il termine “retorica”, ossia l’arte della persuasione, quell’insieme di figure di parola e di pensiero che sopperiscono alla limitatezza del linguaggio attraverso la creazione/evocazione di immagini che afferiscono al piano della connotazione. Un’arte, la retorica, che colora di emozioni la nostra produzione verbale e visiva. E infine le ”doti creative”. La creatività diceva Henri Poincaré consiste nel rendere manifeste quelle che egli chiama “imprevedibili connessioni”; o, come sostiene De Bono, nel pensiero laterale vale a dire in “qualcosa che salta da un punto all’altro, investiga tutte le possibilità, accetta tutte le istruzioni, è probabilistico. Il pensiero laterale è [cioè] il pensiero della creatività, dell’innovazione, della immaginazione38”.Osserva inoltre Bruner: “la creatività in pubblicità fruisce degli stessi meccanismi della creatività nel campo artistico e scientifico. La principale differenza tra la creatività in pubblicità e la creatività nel campo artistico sta essenzialmente nella diversa motivazione a creare: il pubblicitario crea seguendo un impulso non genuino, con intento di creare delle connessioni metaforiche e delle relazioni fra cose che non ama necessariamente e in questo senso opera più con l’intenzione che seguendo un impulso genuino e soggettivo, almeno nella maggioranza dei casi. E’ questa la ragione per cui il creativo in pubblicità appare agli occhi del poeta come chi prostituisce se stesso e la propria creatività ad un’intenzione. […]la creatività è un mezzo per conseguire gli obiettivi che istituzionalmente la pubblicità si

37 G. FABRIS, La pubblicità, op.cit., p.391.38 Ivi, p.397.

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propone e mai un fine. […] Per il resto la creatività in pubblicità non differisce sostanzialmente dalla creatività nel campo artistico: ambedue hanno come obiettivo di scoprire cose nuove, improbabili ed imprevedibili relazioni, fatti nuovi ed unici che mutino drammaticamente e favorevolmente la percezione di chi osserva39”Compito della pubblicità è principalmente comunicare. Comunicare in modo tale da catturare l’attenzione del destinatario e da “evidenziare nuovi significati nel mondo fenomenologico del consumatore, scoprendo relazioni, rapporti, legami inconsueti e improbabili40”.Per farlo la pubblicità si serve principalmente dell’immagine benché anche la parola rivesta un ruolo importante. “E’ questo il dispositivo su cui si basa la pubblicità: la ri-conoscibilità, l’istantaneità visiva che rende familiari e indimenticabili le immagini fin dalla prima volta che le vediamo e che accomuna le celebrità al cliché, al mito, all’archetipo e a quanto in genere fa leva su ciò che è sedimentato nell’inconscio o nell’immaginario individuale e collettivo41”. E’ questo che affascina la Pop Art che rappresenta indubbiamente “l’acme storico del rapporto tra arte e pubblicità, in essa così stretto da sembrare ad alcuni una vera e propria identificazione – “immersione totale dentro i linguaggi di massa”, rappresentazione non meditata dell’immagine della merce e della pubblicità” –, ad altri il momento di rovesciamento del rapporto, non più arte-pubblicità ma pubblicità-arte…42”.Questo amore tra Pop Art e pubblicità è testimoniato dall’opera di Andy Warhol in cui le immagini della pubblicità sono spesso all’origine dei suoi lavori, pensiamo, ad esempio, al dipinto, “Campbell’s Soup Cans (1962), che vede in primo piano una serie di lattine della zuppa Campbell; lo stesso dicasi per artisti come Tom Wesselmann, che si serve addirittura di manifesti pubblicitari per realizzare le sue opere, o come Lichtenstein che, in “Ragazza con la palla” (1961), trae il suo soggetto da una pubblicità per una stazione estiva che appariva sui giornali dell’epoca. E come loro molti altri. Fino ad arrivare al postmoderno in cui arte, pubblicità, design e architettura si fondono tra di loro rendendo difficile distinguerne i 39 Ivi, 1997, p.400.40 Ivi, p.417.41 E. GRAZIOLI, Arte e pubblicità, Milano, Bruno Mondatori, 2001, p.136.42 Ivi, p.135.

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confini. “Oggi la pubblicità ha quasi raggiunto lo scopo che si prefiggeva da anni: farsi accettare come la sintesi di tutte le arti …43”. La pubblicità frequenta l’arte citandone opere famose all’interno dei suoi spot. A questo proposito ricordo quello della Campari che crea un ambiente popolato da personaggi che sembrano usciti dai dipinti di Tamara De Lampica. Oppure della Barilla in cui farfalle di pasta si muovono su uno sfondo rappresentato da un famoso quadro di Magritte. La citazione si fa dunque mezzo per riprendere in modo dotto elementi appartenenti a opere d’arte celebri. Il che significa, anche e soprattutto, richiamare alla memoria del destinatario, tramite un messaggio a funzione prevalentemente estetica, le emozioni associate a quella particolare espressione artistica. Qui di seguito racconto lo spot realizzato da un grande regista (tra l’altro, numerose sono le frequentazioni della pubblicità da parte di importanti registi): Wim Wenders (e come sceneggiatore Baricco). Con questo non intendo però affermare che le pubblicità prodotte da grandi registi siano sempre forme d’arte, anzi a volte sono dei paurosi flop. Ed è invece più spesso il pubblicitario a creare spot con evidenti valenze artistiche. Tuttavia lo spot di Wenders merita indubbiamente di essere raccontato.

Campo sterminato, erba bruciata dal sole. Il suo giallo è intenso e fa contrasto con l’azzurro del cielo, un cielo limpido,solcato soltanto da qualche nuvola bianchissima. Si sente il rumore del vento e di una falce che taglia l’erba. Il contadino che la maneggia si ferma qualche secondo per asciugarsi il sudore della fronte e guarda davanti a sé. Estrae da una piccola bisaccia, attaccata alla cintura, una bottiglietta dell’acqua contenuta in una specie di bottiglia di latta e beve. Da lontano si vedono arrivare degli uomini, con armatura, a cavallo. Il cielo viene dapprima attraversato da un aereo, poi da un’aquila che si muove però su uno spazio che si è oscurato.

43 C. DEGOUTTE, Les films publicitaires ont la vie dure, in AA.VV., Art & Publicité, 1890-1990, catalogo della mostra al Centre Georges Pompidou, Parigi, 1990, p.536.

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Arrivano altri cavalieri, mentre il contadino rimane imperturbabile in mezzo a loro. Affila la falce. Il cielo si rischiara nuovamente, i cavalieri scompaiono e lui riprende soddisfatto il suo lavoro.Claim: Barilla. Il lavoro continua. Dal 1877.

Uno spot pieno di magia. Quella che gli viene dal mescolare un passato e un presente fatti di grandi valori. Il coraggio e la nobiltà dei cavalieri a confronto con la forza, la dignità e l’amore per il lavoro del contadino. Sullo sfondo una natura bellissima dai colori splendidi. Il passaggio dell’aereo non può turbare tale armonia e la potenza e la maestà dell’aquila ne azzerano il fascino.Il claim ce lo dice. Barilla ha continuato con tenacia e devozione, proprio come quel contadino, a lavorare per noi, a contatto con la natura, dal 1877. Come quel contadino nulla ha mai potuto ostacolare il suo operato.Altra testimone della frequentazione dell’arte, da parte della pubblicità, è la musica. Presente negli spot in varie vesti, dal classico, al pop, al rock. Spesso infatti gli spot fanno uso (o forse meglio “citano”) di brani di artisti famosi contemporanei o del passato o ancora di canzoni che, anche se di singer sconosciuti, sono comunque divenute di successo. L’associazione del prodotto a determinate melodie facilita infatti il ricordo dello stesso poiché l’apprezzamento del pezzo musicale, con tutte le emozioni/sensazioni che si trascina dietro, finisce col riflettersi positivamente sul bene pubblicizzato. Gli esempi sono numerosi:

- “Fake” dei Simply Red (vero tormentone di quest’estate 2003) per la campagna Omnitel;

- “Knocking on heaven’s door” di Bob Dylan per lo spot del Mulino Bianco “gran cereale”;

- “Burly Brawl” dei Jumbo Reactor, un brano che fa parte della colonna sonora ufficiale di “Matrix Reloaded”;

- “It’s good to be in love” di Frou Frou, per il cornetto Algida;- “www. Mi piaci tu” dei Gazzosa, per Omnitel.

Ma come si fa a stabilire che cos’è arte? Come si fa a definire un’opera un capolavoro o un terribile pasticcio? Domande interessanti cui però è impossibile fornire una risposta poiché, di

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fatto, e non solo in pubblicità, non esistono criteri, modelli, norme in base ai quali decidere in un senso o nell’altro.La stessa ambiguità, che caratterizza il messaggio a funzione estetica, ambiguità nel senso di ricchezza di interpretazioni offerte al destinatario a contatto con una forma di comunicazione che spesso nasce dalla rottura dei codici, delle norme consolidate e che quindi invita i suoi fruitori a un lavoro di decodifica, può giocare a sfavore del messaggio a funzione estetica. Ciò che intendo dire è che un destinatario di scarsa cultura può anche restare indifferente o sentirsi addirittura confuso di fronte a uno spot autoriflessivo, ossia pensato per attirare l’attenzione del pubblico principalmente sulla sua forma. E lo stesso dicasi per gli spot che costruiscono la loro bellezza in funzione del richiamo a una grande opera d’arte. Se cioè il destinatario non dispone di una discreta enciclopedia il rischio è che trovi il messaggio banale, vuoto, privo di contenuti, di informazioni. Ripeto, la autoriflessività che caratterizza la funzione estetica le si rivolta contro. Tanto quindi è difficile muoversi in questo terreno che credo sia più saggio evitare pericolose definizioni per passare invece a raccontare di spot che attingono all’arte tramite riferimenti/citazioni a grandi opere che appartengono a settori diversi.

La citazione Un cameriere, su un molo, sembra spostare la sedia di un tavolo, con tovaglia bianca ma, quando la alza, assieme a lei si muove anche il tavolo: si tratta, in realtà, di un insieme di cartone. Una volta spostato il tutto, il primo piano è su di una coppia, formata da un uomo e una donna, elegantemente vestiti di nero e seduti, ciascuno, al capo di un lungo tavolo, su cui si trovano due ricchi candelabri accesi, pur essendo pieno giorno. Ricompare il cameriere, di cui però non viene mai inquadrato il volto: egli alza il coperchio d’argento che protegge un piatto. Al movimento corrisponde il passaggio, lungo il molo, di un signore in abito bianco, in carrozzella, accompagnato da una donna vestita interamente di bianco, che tiene in mano un ombrellino, anch’esso bianco, per ripararsi dal sole.

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Compare poi la parte posteriore di un’auto rossa, dal cui finestrino si vede una coppia baciarsi. Ma, ancora una volta, non è così. L’inquadratura, avanzando, ci fa scoprire che esiste solo un facsimile di cartone del retro di una vettura e che i due che si baciano sono invece comodamente seduti su una sdraio, di fronte al mare. Davanti a loro sfila un clown che gioca abilmente con delle palle colorate.Poi, tre ragazzini, vestiti alla marinara, sembrano farsi fotografare da un ragazzo grassoccio, con acconciatura da clown. Ha infatti la testa pelata con folti capelli ai lati pettinati in modo da formare due specie di coni. In realtà, il ragazzo è falso. Di nuovo, si tratta di una figura di cartone che il vento fa cadere a terra. Riappare il signore in carrozzella con la sua dama bianca. Il primo piano ne immortala il volto elegante. La donna invece rimane avvolta nel mistero. Un velo bianco le fascia il viso. Compare quindi una bimba di colore, con tutù blu e scarpine rosse. Saltella giocando con una palla rossa. La accompagna un cagnolino bianco. Improvvisamente la piccola, come per magia, scompare dietro a un lampione con orologio. Poi, incredibilmente, riappare. E’ come se il limite del molo, e il mare che gli fa da sfondo, fossero un falso. E, in effetti, in parte è così. Si tratta di pannelli dai quali la prima ad uscire è la palla rossa (una palla strana che rimane per qualche secondo sospesa nell’aria) seguita, a breve distanza, dalla bambina di colore. Primo piano del signore sulla carrozzina. Ha in mano un cannocchiale con cui guarda verso il mare. Vede una bella donna, sembra una pin-up, in costume rosso, nell’atto di afferrare una palla molto grande e colorata. Ma non appena la palla le tocca le dita, la donna cade in acqua. È, nuovamente, una figura di cartone. L’inquadratura si sposta su un giovane e atletico nuotatore, con cuffia in testa, che, prima di tuffarsi in acqua, appoggia sulla sabbia un segnale a forma conica.Sdraiate sulla spiaggia, tre donnone in costume intero nero, con enormi zuccheri a velo rosa in mano, osservano il suo tuffo. Due di esse svengono quando lo vedono riemergere dall’acqua col manichino di carta della donna pin-up con il pallone colorato in mano.

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A tale immagine succedono due foto che ritraggono una spiaggia con delle cabine. Le dita che tengono le foto le scuotono. Ed ecco allora che la sabbia, in esse fotografata, si stacca dalle stesse e cade a terra. Lo spot si conclude con l’immagine delle dita di una mano che tengono una confezione di Fujicolor, il mare sullo sfondo. Ma, in realtà, questa è una foto, a sua volta, tenuta tra le dita di un’altra mano col mare sullo sfondo.“What is reality? Can a photo really be this good? The grains are finer, the pictures are sharper. Fujicolor Super G is so real, it's unreal.”

Questo spot è un’evidente citazione di Fellini. Di un universo cioè in cui la dimensione onirica si confonde col reale reinterpretandolo, reinventandolo. I confini tra sogno e vita vera si fanno labili e così irrompono nel reale individui con sembianze di maschere. Uomini che, per caratteristiche fisiche e vestimentarie, sembrano partoriti del nostro inconscio. Figure che mescolano memoria, fantasia e realtà. Strani esseri che ci parlano da un mondo altro. Ha dunque gioco facile il claim, che conclude lo spot, nel muoversi tra i due poli opposti del reale e dell’immaginario, nell’insinuare il dubbio che, in realtà, la separazione tra i due non sia così netta. Come distinguere il vero dal falso se quest’ultimo gli assomiglia terribilmente? Tanto da essere scambiato per il primo? E non è questa la tremenda e affascinante confusione che governa il nostro tempo cosiddetto postmoderno? Un tempo governato da una seducente commistione di realtà e simulazione. Un mondo, il nostro, che ospita tanti altri mondi, tutti artificiali. Pensiamo a Disneyworld, che è divenuto il paradigma architettonico di molte nuove città americane, o a Las Vegas, iperbole della simulazione, con la sua concentrazione di copie di altre città e di altri spazi invece reali.E’ lo spirito della postmodernità che si esprime “con l’abbattimento delle frontiere tra arte e vita di ogni giorno; il collasso della distinzione gerarchica tra cultura alta e cultura popolare; una promiscuità stilistica che favorisce l’eclettismo e il miraggio dei codici; la parodia, il pastiche, l’ironia, il gioco e la celebrazione di una superficie della cultura senza profondità44”.

44 J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1982.

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Ma non è forse questo il modo di essere della pubblicità? E qui mi soccorre una felice metafora coniata da Paola Rigetti quando identifica questa forma di comunicazione con la gazza ladra. Un uccello noto per l’irresistibile impulso a impadronirsi di tutto ciò che luccica.

La pubblicità si impossessa di tutto ciò che nel sociale assume o può assumere una qualche brillantezza.[…] ed è proprio nella ricombinazione giocosa del materiale segnico sottratto al sociale che consiste la creatività pubblicitaria: “non c’è creazione di forme nella pubblicità ma combinatoria e reimpiego di tutte le forme possibili”. La gazza ladra della pubblicità rimescola il suo bottino socioculturale per riassemblarlo in messaggi seducenti e convincenti. […]L’eureka pubblicitaria è una sorta di caleidoscopio in cui gira vorticosamente una miriade di frammenti culturali45.

E’ quindi evidente che non ha senso parlare della citazione come di un linguaggio a sé. La citazione, di fatto, taglia trasversalmente tutti i linguaggi tramite cui parla la pubblicità. Ne rappresenta l’elemento costitutivo. Fa parte del DNA di questa forma di comunicazione. Non esiste infatti pubblicità che non attinga alla cultura, al costume, alle abitudini dell’epoca in cui vive. Ed è, tra l’altro, dalla capacità o meno che la pubblicità ha di farsi interprete/portavoce degli umori del suo tempo che dipende la sua fortuna. Ed è in questa direzione che va la mia analisi. Ossia evidenziare la sua importanza, la sua ricchezza, il suo declinarsi in molteplici varianti/tipologie all’interno della comunicazione pubblicitaria. Nella memoria di un buon copywriter sono depositati modi di dire, intonazioni, meccanismi verbali, suggestioni, suoni, parole rubate per strada, ritmi rubati agli scrittori, dialoghi di film, le battute di Woody Allen e quelle di Totò, didascalie, frammenti di fumetto, e naturalmente headline viste sugli annual inglesi, francesi e americani46.

Insomma la pubblicità vive della citazione di materiale altro, si richiama esplicitamente o allusivamente a forme e a contenuti che già conosciamo. 45 P. RIGHETTI, La gazza ladra. Per una visione sociosemiotica della pubblicità, Milano, Lupetti&Co., 1993, pp.12-13.46 A. TESTA, La parola immaginata, Parma, Pratiche, 1988, p.83.

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Per le sue caratteristiche (brevità, iteratività etc.), la pubblicità deve attingere a un immaginario diffuso, far ricorso di continuo a competenze previe e a rimandi intertestuali, generare e soddisfare attese socialmente diffuse. Questo fa della pubblicità uno straordinario indicatore sociale, non perché sia specchio di una realtà oggettiva, ma piuttosto perché essa manifesta (e, talvolta, contribuisce a modificare) i valori e l’immaginario di una società47.

Infatti lo stereotipo, così come le frasi famose sono spesso impiegati dalla pubblicità, poiché immediatamente riconoscibili e decifrabili dal pubblico che li ha frequentati per anni nei più diversi contesti.

A proposito di frasi conosciute ricordo la pubblicità a stampa di Dash. In primo piano una donna che si sfila una maglia. L’headline, centrata e a caratteri maiuscoli (in corpo, almeno, 70), recita: “lunga vita ai nostri abiti”. Un’evidente ripresa, lievemente modificata, della celebre frase: “lunga vita al re”.

La pubblicità attinge alle forme simboliche presenti nella cultura popolare, nella comunicazione di massa e nel vasto orizzonte sociale.

Come nello spot di Chanel numero 5 in cui fa capolino, anche se rivisitata, la fiaba di Cappuccetto Rosso. Una lunga rampa di metallo conduce a una porta blindata, di forma circolare, recante, sulla sua superficie, un enorme 5. La ragazza che percorre la rampa ha un corto abito rosso, con scarpe, a tacco alto, di color anch’esse rosso e tiene in mano un cestino rosso. Arrivata vicino alla porta preme un pulsante e entra. Quindi appoggia, su un ripiano vicino all’ingresso, il cestino. Le pareti di questa stanza sono tutte color oro, sembrano quasi imbottite. La ragazza inizia a camminare, quasi ondeggiando. Si dirige verso la parete di fondo interamente tappezzata di flaconi di Chanel numero 5. Lei li guarda come per sceglierne uno, benché siano, in realtà, tutti uguali.Prende un profumo e lo prova sul collo. A questo punto si vede spuntare il muso di un lupo. La ragazza infila nel cestino il suo Chanel e esce.

47 A. GRASSO, La pubblicità come laboratorio linguistico , in AA. VV., La scatola nera della pubblicità. Il linguaggio, a c. di A. GRASSO, vol.I, Torino, Sipra, 2000, p.9.

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Davanti a lei la Tour Eiffel innevata, dietro di lei il lupo che la segue. Lei allora si volta e gli fa cenno di fermarsi. Si mette la mantella rossa con cappuccio e se ne va. Lui solo nella stanza dorata ulula.

“Lo spot manifesta i tratti del “riciclaggio culturale”, della riproposizione negoziata di universi simbolici e testuali socialmente diffusi48”. Riciclaggio di testi letterari, cinematografici, televisivi, o, come dicevo poc’anzi, recupero di topoi immediatamente riconoscibili. Molto spesso la pubblicità cita i film di successo riprendendone situazioni, ambientazioni, protagonisti. Troviamo così spot in cui domina la violenza, anche se magari esorcizzata in chiave comica. Oppure spot in cui vi sono scene erotiche, o ancora spot in cui si imita il ritmo veloce dei film d’azione.Qui di seguito racconto lo spot di “Pilsbury Pizza Pop Usa” che cita la scena di un film di successo: Pulp Fiction.

Nello spot compaiono due ragazzi in auto. Ne vediamo, dal finestrino posteriore le teste. Li sentiamo dire: “don’t do it”, cui risponde un “I got it”e di nuovo “don’t do it” cui replica un “I got it”. A un certo punto è come se avvenisse un esplosione. La macchina è completamente rossa, all’interno. A colorarla è il rosso della salsa fuoriuscita dal calzone che tiene in mano uno dei due amici. Una voce fuori campo afferma: “it’s got more stuff”. Uno dei due ragazzi lecca il vetro dell’auto per mangiarsi la salsa. Lo guarda schifata una ragazza che passa con la sua vettura accanto a quella dei due amici.

E’ evidente il parallelismo con una scena del film Pulp Fiction. In questo noir (del ’94, regia di Quentin Tarantino,), che fa un ritratto cruento del mondo dominato dalla malavita, due killer, che non sbagliano un colpo, casualmente, fanno schizzare le cervella di un ostaggio proprio nella loro automobile inondandola di sangue. La salsa, che, nel commercial, fuoriesce dal calzone, spruzzando di rosso tutto l’interno della macchina, è una citazione (ironica) di questa scena del film.

48 Ivi, p.25.

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Un bell’esempio di spot che ricalca i film d’azione è la pubblicità per Visa. Lo spot è realizzato, nel 2001, da un famoso regista, Ang Lee: autore, tra gli altri, de “la Tigre e il Dragone”. Film di successo che si caratterizza per le scene in cui i protagonisti, esperti in arti marziali, compiono incredibili performances.

La protagonista dello spot è la stessa attrice del film di cui ho appena parlato. E anche nella pubblicità, che ora racconto brevemente, dimostra abilità che appartengono alla fantasia. In un lussuoso ristorante una bella signora è seduta sola ad un tavolo. Un cameriere le porta una zuppa di pesce. Lei assaggia ma poi rifiuta il piatto poiché sostiene sia troppo salato.Il cameriere quindi riporta la pietanza in cucina ma il cuoco, venuto a conoscenza del rifiuto si arrabbia e così esce, piuttosto alterato, con la zuppa in mano. Si dirige al tavolo della donna e le urla in faccia che la zuppa non è affatto salata. Dopodiché le scaglia contro due tipacci piuttosto in carne che tentano di ucciderla con dei coltellacci. Ma la esile signora stupisce tutti combattendo con una destrezza impressionante e producendosi in incredibili capriole all’indietro, in salti che assomigliano a voli, e camminando, addirittura, sulle pareti. Vince, sbaragliando tutti. Rimane sola sulla scena. Attorno a lei il caos.A questo punto arriva il cameriere che le presenta un conto lunghissimo dicendole che non riguarda la zuppa, che le è offerta, ma tutto il resto, ossia tutti i danni arrecati al locale. Il claim recita: “ceni fuori?”. “Visa è tutto quello che ti serve”. La donna consegna al cameriere la card VISA e quest’ultimo la guarda con un sorriso soddisfatto.

A volte la pubblicità cita i videoclip di cui riprende il ritmo veloce. Le immagini si saldano le une alle altre grazie alla musica. Si tratta spesso di successi musicali che vengono sfruttati dagli spot “in vista dell’equazione: bella canzone, musica che piace, spot che piace. Del resto anche in molti videoclip il legame tra le immagini e i testi delle canzoni è pretestuoso se non arbitrario49”.

49 M.P. POZZATO, La struttura degli spot, tra passato e presente, in AA. VV., La scatola nera della pubblicità, op. cit., p.91.

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Il clip è diventato una tipologia di linguaggio che ha contaminato altri testi del palinsesto (sigle, promo, spot, ma anche magazine, varietà, fiction) fino a diventare una sorta di macrogenere che permea la TV odierna. Il linguaggio audiovisivo del clip è un modo di parlare a un certo pubblico, di riferirsi a una certa audience televisiva, quella giovanile. Utilizzare il videoclip e/o il suo linguaggio significa creare un videoambiente giovanile. […] L’effetto videoclip […] ricorre ogni qualvolta si cerca di dare l’idea di movimento, di novità o si vuole parlare a un pubblico giovane50.

Come ho sinora sottolineato “i messaggi pubblicitari hanno la peculiarità di poter essere costruiti attraverso l’unione di materiali eterogenei, rubati, rimescolati, rielaborati e amplificati51”.E frequenti sono anche le citazioni, da parte della pubblicità, di opere d’arte famose. A questo proposito voglio qui riportare due spot di Barilla e uno di Campari.

Nel primo, del 1985, il protagonista, un uomo misterioso e fascinoso, con impermeabile (Burberrys) e cappello (Borsalino) che gli copre in parte il viso, scende da un treno. Camminando lascia alle sue spalle una donna vestita di rosso (citazione del film “La donna in rosso”) che bacia un uomo. Si dirige, all’uscita, verso una cabina telefonica. Dopo aver telefonato guarda l’ora e quindi sale in auto. Un’auto di lusso, una Mercedes serie SEC. Percorre la strada di una idilliaca campagna toscana. Lungo il tragitto incontra un contadino con dei buoi, una chiara riproduzione filmica, una citazione, appunto, del quadro macchiaiolo di Fattori.Arriva quindi in una splendida casa in cui si svolge una festa. Invia alla moglie un chiaro messaggio, fingendo di mordere una confezione di pasta Barilla, ossia: “non ho ancora mangiato”.

Nel secondo spot una serie di farfalle Barilla, ossia un tipo di pasta così denominata per la sua forma, vola in un cielo, con grandi nuvole bianche, racchiuso da una cornice dorata verso un piatto che contiene piselli dolci. In sottofondo si odono gli uccellini cantare e una voce fuori campo dice che è primavera.

50 G. SIBILLA, La musica vista, in AA.VV., Analizzare la pubblicità, a c. di Vanni Codeluppi, Milano, Arcipelago, 2003, p.69.51 A. TESTA, La parola immaginata, op. cit., p.238.

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Il quadro con il cielo percorso da nuvole candide è citazione di analogo dipinto di Magritte.

In primo piano una bella donna vestita che, in abiti maschili scende una scalinata che la conduce in un elegante bar. Alle pareti quadri di Tamara De Lempicka, famosa pittrice degli anni ’30. La bella signora siede, su uno sgabello, La pubblicità però non solo cita, ma è essa stessa oggetto di citazione.La pubblicità ha ormai acquisito una propria autonomia espressiva e comunicativa ed è divenuta una sorta di metagenere all’interno del variegato scenario dei mezzi di comunicazione di massa.[tanto che si pone] come riferimento per gli altri media. In passato la pubblicità dipendeva largamente da questi il cinema, la stessa televisione, la musica, i fotoromanzi, i fumetti hanno costituito un grande serbatoio da cui attingere a piene mani in termini di contenuti, linguaggi, citazioni. Oggi sono anche gli altri media a riferirsi con frequenza alla pubblicità; ad ispirarsi alla sua grammatica, sintassi ed ai suoi modelli comunicativi, a citarla ampiamente così come la pubblicità cita altri mezzi52.

Esempio lampante di citazione della pubblicità, del suo modello di comunicazione, il film di Adrian Lyne, “9 settimane e mezzo”, uscito nel 1986. Un film che fa scalpore per le scene di sesso in esso contenute. Tra i due protagonisti Elisabeth (Kim Basinger), una bella mercante d’arte e John (Mickey Rourke), agente di borsa, esplode una passione travolgente, senza né limiti, né misure. Una passione che rischia di minare la salute mentale della donna. Una passione che, data la sua intensità, non può che durare 9 settimane e mezzo. Il film, con una colonna sonora recitata da un grande Joe Cocker, è girato a ritmo frenetico, le immagini sono estremamente ricercate e patinate. Elisabeth e John sono bellissimi, intelligenti e ricchi, gli ambienti in cui si muovono eleganti. L’impressione che ci deriva dalla visione della pellicola è di assistere a una specie di interminabile spot, in cui il prodotto da pubblicizzare è il sesso, l’erotismo.Spesso è persino l’arte a citare la pubblicità. Emblematica in tal senso è la pop art (1959-1977). La pop art nasce, dall’incontro tra arte e cultura di massa, negli USA intorno agli anni 50 ma la sua

52 G. FABRIS, La pubblicità. Teorie e prassi, op. cit., p.20.

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esplosione avviene negli anni 60. In una società, quella americana, dominata dai tratti positivi e ottimistici del consumismo, la pop art documenta in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui il suo nome, pop è cioè diminutivo per popolare), testimonia dei nuovi miti creati dalla pubblicità e dai mass media che proiettano sulle masse bisogni non primari per trasformarle in consumatori sempre più avidi. Le opere della pop art esaltano l’America volgendo al tempo stesso in ridicolo la sua sovrabbondanza di beni materiali. Tra i suoi più famosi esponenti Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. In particolare, ricordo di Warhol, cantore della American way of life in tutti i suoi aspetti più simbolici, l’opera intitolata “cinque bottiglie di Coca Cola”. Al centro del quadro un prodotto commerciale estremamente pubblicizzato. Un marchio famoso che Warhol replicherà in varie opere dipingendo una o più bottiglie di Coca Cola.Per non parlare di Tom Wesselmann le cui opere non solo derivano immagini e dimensioni dalla pubblicità, ma arrivano ad incorporare veri e propri annunci pubblicitari. “Egli iniziò col trafugare quelli affissi nei convogli in disuso della metropolitana e a cercarli tra i rifiuti ma, alla fine, si rivolse direttamente alle agenzie pubblicitarie e alle società di affissione che gli consentirono di entrare in possesso di manifesti nuovi e intatti. Wesselmann riunì così una vera e propria collezione di queste immagini che in seguito avrebbe usato nei suoi collage, realizzati dipingendo attorno e al di sopra degli annunci incollati sulla tela. Sempre più frequente uso di pannelli pubblicitari che richiedevano l’utilizzazione di grandi strutture di supporto. Due dei più grandi elementi di Still Life N.36, il pacchetto di sigarette (Montclair Pegasus) e la bottiglia di latte, sono stati prelevati da cartelloni pubblicitari, come si può desumere dalle pieghe ancora visibili, della carta”.Testimone dell’evoluzione della comunicazione pubblicitaria, del suo costituirsi come genere a sé, autonomo e con sue caratteristiche ben definite non è stato soltanto il suo divenire oggetto, come ho sottolineato, di attenzione da parte degli altri media ma anche il suo farsi autoreferenziale. La pubblicità ha cioè per oggetto sé stessa, i suoi linguaggi, i suoi format. Attinge alla sua storia passata contando sulla enciclopedia del suo destinatario. La pubblicità si fa

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metapubblicità gioca cioè coi suoi stessi stereotipi, con le sue convenzioni, coi topoi che deriva dallo stesso universo pubblicitario e si aspetta che il pubblico ne decifri da subito i messaggi. A questo proposito vorrei fare due esempi.Il primo è rappresentato dal commercial per la colla Araldite, in cui vi è un’evidente citazione della pubblicità comparativa di altri due prodotti, ovvero Coca e Pepsi. Due bibite impegnate in una sfida che ha raggiunto una dimensione quasi epica, se non altro quanto durata. Lo spot presenta, ironicamente, il primo piano delle due lattine: i due eterni nemici Coca e Pepsi. I due contenitori vengono quindi uniti tramite la colla Araldite: “Just to demonstrate that Araldite joins even what seems impossibile” (per dimostrare che Araldite unisce anche ciò che sembra impossibile).

Il secondo esempio viene dal “caso Michele”, il mitico testimone di Glen Grant (divenuto una sorta di stereotipo della pubblicità come Abrogio e la Contessa di Rocher o il saltatore della staccionata per l’Olio Cuore), che ha recitato per tanti anni il ruolo dell’intenditore di whisky che sapeva riconoscere, con sicurezza, come il suo Glen Grant, per il “gusto pulito e il colore chiaro”. Tra l’altro, allora, contemporaneamente, la campagna per la promozione del cuoio chiamava Michele (la citazione è più che evidente e al limite della denigrazione) un ragazzo grasso e impacciato “testimone di pedate sul sedere”. Lo sfortunato Michele era cioè in grado di individuare, in base ai calci che riceveva alle natiche, colpite da suole di vero cuoio, il nome dei ragazzacci che lo tormentavano.

La comicità La comicità, meglio forse di qualsiasi altro linguaggio, pare raccogliere una delle richieste che più spesso viene rivolta alla pubblicità. Se chiediamo ad un qualsiasi consumatore qual è la forma di pubblicità che più lo coinvolge, quali sono i requisiti di una buona pubblicità, quasi invariabilmente la risposta fa riferimento al binomio utile e divertente. Quasi rappresentasse, questo binomio, una sorta di

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indennizzo del tempo che la pubblicità ci sottrae: questo intruso cortese che, non richiesto, entra di prepotenza nelle nostre case. Forse varrà la pena di ricordare, molto brevemente, che Carosello aveva (con molta demagogia, cultura populista e antindustriale) codificato, con il teatrino che precedeva il codino vero e proprio (di fatto il messaggio commerciale), lo scotto da pagare per l’attenzione del consumatore, una sorta di doveroso scotto.E’ fuori dubbio che la richiesta, rivoltale, di essere divertente trova nella comicità la sua espressione più puntuale e forse più scontata. Il riso suscita simpatia, coinvolge nell’allegria che deriva dalla marca e dal prodotto reclamizzato, può persino provocare un passa parola positivo.

Un bambino ha in mano una confezione di Rolos, uno snack al cioccolato. L’inquadratura si allarga. Il bambino è allo zoo, davanti allo spazio riservato agli elefanti. Allunga la mano per offrire un pezzetto di Rolos a un elefantino. Ma quando l’animale avvicina la proboscide al dolce, il bimbo allontana la mano e gli fa una specie di sberleffo.Stacco e nuova inquadratura. Il bambino è un adulto. Lo riconosciamo perché, al di là della somiglianza somatica, è vestito come il piccolo che ha aperto lo spot. Gilet a rombi e camicia. Sta assistendo a una parata e, nonostante il tempo trascorso, ha ancora in mano Rolos. Ad un certo punto una proboscide gli tocca la spalla quasi a volerne richiamare l’attenzione. L’uomo si gira a guardare ma riceve clamoroso “ceffone” dalla stessa. L’elefante(non a caso si dice memoria da elefante) dopo averlo colpito passa oltre e riproduce col barrito la stesso sberleffo che gli era stata rivolta da cucciolo.

La rappresentazione di una simile situazione non può che provocare il nostro riso.Ci diverte infatti assistere alla vendetta dell’animale rispetto alla cattiveria di cui quell’uomo, in un passato lontano, lo aveva fatto oggetto. E’ la vittoria del più debole sul più forte. La nostra partecipazione emotiva è dunque assicurata. E la sua espressione esterna è il riso. Un riso che si fa antidoto contro la monotonia, contro il grigiore della realtà con cui abitualmente ci confrontiamo e nella quale invece il comico si insinua con un piacevole effetto dirompente, la cui percezione induce in noi un

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senso di liberazione. Poiché ridendo degli handicap morali – pensiamo, ad esempio, nel nostro caso, alla cattiveria del bambino verso l’animale – o fisici degli altri esseri umani, ci sentiamo a loro superiori. Ed è proprio questo che fa la comicità, ossia rende emotivamente partecipi i suoi interlocutori, invitandoli al riso, attraverso la rappresentazione della loro fragile umanità e dei lati più ridicoli della quotidianità. E allora può la pubblicità, che mira proprio a coinvolgere emotivamente il destinatario, trascurare un linguaggio così empatico? Non è cioè il riso un modo straordinario per abbattere le tensioni? Per riscoprire il lato divertente del reale? Tenuto conto che è proprio l’essere divertente uno dei prerequisiti che il pubblico si aspetta da una buona pubblicità?Tra l’altro, Propp e Bergson, e parecchi anni prima lo stesso Cicerone, sostenevano che la comicità nasce dallo smascheramento inatteso e improvviso dei difetti morali o fisici dell’individuo. E non è forse la sorpresa un altro elemento chiave della comunicazione pubblicitaria, il cui obiettivo è anche attirare l’attenzione del pubblico? Attenzione che viene solleticata dalla messa in scena di eventi che introducono, all’interno di condizioni di apparente banalità, un elemento di novità. Chi avrebbe infatti mai pensato che la scena rappresentata nello spot “Rolos” avrebbe avuto una simile evoluzione?Ridere davanti a uno spot comico significa non solo che ne ho compreso il contenuto ma che non mi sto comportando da spettatore/lettore passivo. Significa che quel messaggio mi tocca dentro, tocca la mia emotività. E che perciò, nel momento in cui mi verrà riproposto, non scatterà in me il rifiuto, quanto piuttosto il desiderio di rivederlo per rinnovare lo stessa piacevole sensazione di liberazione, di divertimento che ho provato alla sua prima visione. E se l’uso dell’ironia può suscitare qualche perplessità nel mondo della comunicazione pubblicitaria timorosa che la sua complessità ne comprometta l’efficacia, la corretta decodifica, la comicità ha invece dalla sua il far riferimento, in modo preponderante, all’emisfero destro. La sua comprensione ha infatti il carattere della immediatezza.

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Una serie di tre commercials riassume perfettamente quanto appena sostenuto. I tre commercials pubblicizzano il canale televisivo newyorkese “Fox Sport Net” e recitano: “sports news from the only region you care about. Yours 11 pm regional sports report”. Il primo ha per protagonisti due indiani che, bendati, stringono enormi mazze da baseball. Sono posti l’uno di fronte all’altro e tentano di colpirsi, ma uno dei due finisce col centrare uno spettatore dell’incontro. E,anziché fermarsi, insiste tanto in questa sua azione da arrivare quasi ad ucciderlo.

Nel secondo siamo in un paese dell’Est, lo capiamo dalle voci che commentano l’incontro. Vi sono infatti due uomini, seduti uno di fronte all’altro, ad un tavolo e si scambiano sonori ceffoni.

Terso spot. Siamo in un paese arabo, lo deduciamo dall’abbigliamento delle persone che assistono all’esibizione. Questi individui guardano verso l’alto, meglio verso il dirupo sul quale si trova un trampolino da cui si sta gettando un uomo. Peccato che sotto ci sia solo dura terra.

Tutti e tre gli spot parlano di situazioni assolutamente ridicole in cui alcuni uomini si comportano secondo modalità non codificate dalle norme sociali. Si comportano come dei pazzi e pertanto in questa loro anormalità suscitano il riso. L’headline accentua la comicità delle situazioni.Una comicità dunque che non si esprime allusivamente come l’ironia, ma che rappresenta situazioni divertenti in modo assolutamente diretto. Questa “figura retorica” è cioè più semplice rispetto all’ironia, poiché fa leva su un tipo di partecipazione che non implica alcuna riflessione da parte dell’interlocutore. L’incongruità caratterizza il comico. Incongruità “tra sforzo e risultato, tra capacità e ambizione, tra propositi e accidenti esterni”53.

53 “Lo stesso Hegel concettualizza il comico in termini di incongruità. Per il filosofo “il comico deriverebbe dalla contraddizione tra soggettività umana che anela all’infinito e realtà empirica.Più precisamente la comicità scaturisce da certe incongruità che possono essere diverse: tra sforzo e risultato, tra capacità e ambizione, tra propositi e accidenti esterni”.

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Emblematico in tal senso è lo spot che racconto qui di seguito. In primo piano un uomo. Sta facendo jogging su un sentiero che si allunga tra montagne rocciose. Finalmente arriva ad un’auto rossa, una porche, parcheggiata sul ciglio della strada. Ma non vi sale. Invece le si appoggia contro a formare, con la stessa, un angolo acuto. Vuole distendere i muscoli. Lo vede, da lontano, un uomo di colore, che gli si sta avvicinando con un piccolo furgone bianco. Tra i denti un snack al cioccolato. Quando arriva accanto all’uomo dell’auto rossa, scende e, equivocando, anch’egli assume la stessa posizione del primo. Ma, a differenza dello sportivo, fraintendendo lo scopo di quest’ultimo, spinge a più non posso l’auto che cade rovinosamente nel precipizio sottostante.

Qui l’incongruità scaturisce dall’equivoco in cui scioccamente cade l’uomo di colore (A). Egli infatti, in buona fede, vuole aiutare l’uomo (B), che crede in difficoltà, nel suo tentativo di sbarazzarsi della propria auto. Non capisce cioè che quest’ultimo, in realtà, sta solo facendo dello sport e usa il veicolo per tale ragione. Perciò, quello che, nelle intenzioni di A, vuole essere un gesto di solidarietà, si trasforma invece nell’esatto opposto. Incongruità dunque tra lo sforzo e il risultato. Il nostro riso nasce e dalla scarsa perspicacia di A e dalla paradossalità del suo atteggiamento nei confronti dell’auto stessa. Ci chiediamo cioè come A possa essere così matto da spingere, con assoluta indifferenza, un veicolo tanto costoso.E’ ora la volta di una serie di cinque spot che promuovono un’emittente di culto per i giovani di tutto il mondo: MTV.

Be cool with an MTV advertising. Adventure MTV (Cannes 2000, USA).Protagonisti dei cinque spot sono i quattro fratelli Jukka.

1. Big Jukka è il più vecchio, i due Middle Jukka sono medi e Little Jukka il più giovane. Tre dei fratelli Jukka vivono in una grande casa e guardano MTV perché vogliono essere cool. Mentre Little Jukka, che è diverso da loro, abita in una piccola casa e non guarda MTV. Ne deriva che nonostante

In D. FRANCESCATO, Ridere è una cosa seria. L’importanza della risata nella vita di tutti i giorni, Milano, Mondatori, 2002, p.32.

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provi, con impegno, a piacere ai suoi fratelli non ci riesca comunque mai. Little Jukka non sa essere cool. Ad esempio entra nella casa dai fratelli con lo skateboard, per dare dimostrazione della sua abilità, ma questi gli sfugge finendo nelle casse del video dei fratelli e provocando l’ira del maggiore, Big Jukka. Questi infatti prende Little Jukka per un orecchio e lo trascina fuori della abitazione dove, con una paletta da ping pong, che reca il logo MTV, lo picchia così forte sul sedere da lasciargli impressa la sigla MTV.

2. I due Middle Jukka lottano in casa davanti alla TV. Ma vengono interrotti da Big Jukka che, dopo aver guardato un video su MTV, chiede loro di stupirlo con una danza sexy. Cosa che i due fanno. Finché non arriva il povero Little Jukka (assolutamente no cool perché non guarda MTV) che balla sulla soglia di casa salterellando. Si sente il suono di un … e compare la scritta: “totally unsex”. Al solito, arrabbiatura di Big Jukka e punizione del fratello minore.

3. Primo piano dei tre fratelli Jukka, il Big e i due Middle, con scarpe rosse pitonate. Quando improvvisamente si unisce a loro Little Jukka con un vassoio di dolci in mano e ai piedi degli zoccoli di legno. Ancora suono di… e scritta: “so not cool”. Stessa conclusione degli altri due spot.

4. I tre Jukka, quelli cool, guardano la mtv che propone il video di un cantante di colore con jeans a vita bassa. Big Jukka scatta in piedi e suona un fischietto. Compare la scritta: “fashion check”. Big Jukka misura infatti l’altezza della vita dei jeans che indossano i fratelli. Quella dei calzoni di Little Jukka è troppo alta. Identica conclusione degli altri spot.

5. Big Jukka regala ai tre fratelli un giubbotto color argento. E Little Jukka lo ricambia con un maglione bianco col coniglietto rosa. Questo suscita l’ira di Big Jukka. Stesso finale degli altri spot.

Si tratta dunque di una narrazione molto divertente. La caratterizzazione dei quattro fratelli Jukka, e il racconto delle loro vicende, assomigliano molto a quella dei cartoni animati. Le due case, in mezzo al bosco, con la casina di Little Jukka “così little” che sembra l’abitazione di un lillipuziano, combinate con l’innocenza, la

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naiveté di Little Jukka, costretto a confrontarsi con la durezza del fratello maggiore, che ama solo chi è cool, e che è affiancato da due iloti ai suoi ordini, non possono che strapparci un sorriso. E’ davvero paradossale e ridicolo che si accetti o escluda un individuo per il suo essere o meno alla moda! E proprio la futilità, l’inconsistenza della causa che scatena l’ira di Big Jukka e, di conseguenza, le punizioni del povero Jukka rende i cinque “episodi”irresistibili. Non possiamo cioè che ridere di fronte alla goffaggine di Little Jukka che veste, effettivamente, in modo esageratamente out of fashion – tanto da assomigliare più a uno gnomo della foresta o a un elfo che a un essere umano vero e proprio (ce lo testimonia anche il maglione che regala a Big Jukka) -, ma che, comunque, si confronta con tre individui, i tre fratelli appunto, che, per la bruttezza e il tipo di vita che conducono, non sono certo migliori di lui. Insomma il confronto avviene tra due modi diversi di essere “comici”. Da una parte fashion victims, in realtà assolutamente privi di fascino, e dall’altra un sorta di eterno folletto fuori da qualsiasi canone estetico. E’ dunque tanto più risibile la punizione inferta da Big Jukka a Little Jukka quanto più quest’ultimo non è certo il più adatto a vestire i panni del giudice dell’altrui eleganza. Tra l’altro, va sottolineato che la rappresentazione di personaggi piuttosto brutti che vivono in un ambiente “spazzatura” avvicina questa, come molte altre pubblicità di MTV, al genere trash.La nostra simpatia, in ogni caso, va tutta a Little Jukka. Anche se va riconosciuto che pure i fratelli non sono dei veri cattivi. Si tratta infatti di persone semplici. Ce lo testimonia la vita che conducono, isolati in mezzo a un bosco: unico svago guardare MTV. Sono povere vittime della moda, del magico mondo della musica, dei suoi divi e del loro modo di vestire. La punizione a Little Jukka è solo il frutto di una passione tanto forte, per ciò che si ritiene bello e di moda, da non ammettere che nulla di ciò che li circonda sia in contrasto con il loro modello, rappresentato da quanto trasmette MTV. E, del resto, Little Jukka è così incredibilmente fuori moda che, forse, gli conviene davvero seguire l’esempio dei fratelli, pure loro bruttarelli e goffi ma molto meno out of fashion.

L’ironia

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La definizione classica e più semplicistica dell’ironia la descrive come una figura con la quale si afferma il contrario di ciò che si intende comunicare. Si tratta di una descrizione abusata e povera. Nel senso che se è vero che l’ironia è anche questo è assolutamente riduttivo limitarla solo a questo. L’ironia è infatti una figura estremamente che si caratterizza per la complessità e molteplicità. L’ironia è il nuovo episteme del postmoderno. Il dubbio sistematico, il superamento di ogni certezza caratterizzano infatti la condizione dell’uomo, del consumatore postmoderno che ha rinunciato alla pretesa, propria della modernità, di controllare l’esistente, a favore invece di una felice accettazione del mondo così com’è. Si tratta di un consumatore ormai maturo e disincantato che, come tale, si aspetta dalla pubblicità, linguaggio delle merci, che sappia giocare con lui in modo intelligente. Che sappia tirarne in ballo fantasia e immaginazione facendolo cooperare alla decodifica dei suoi messaggi. Un consumatore che si fa espressione di una società in cui i confini scompaiono. In cui sempre più le differenziazioni implodono. Tanto che l’entertainment si insinua anche all’interno dei musei e l’arte eleva a livello di opera artistica forme e oggetti che appartengono alla quotidianità. Dominano il pastiche, il patchwork. E il consumo stesso si inscrive nella logica del piacere, del ludico, del desiderio. L’ironia diventa così un’interprete raffinata di una sensibilità che in fondo la anima da secoli. E’ l’ironia socratica che rifiuta le certezze acquisite, i luoghi comuni che insinua il dubbio nell’uomo costringendolo a confrontarsi con la fragilità delle sue convinzioni. E’ l’ironia di Janckélévitch, un’ironia che fa scoprire all’uomo la fugacità del mondo. Che gli fa acquisire un sano relativismo innanzi all’esistente: “l’ironia consiste nello stringere qualcosa da ogni parte, nell’afferrarlo e definirlo tramite una “connessione” completa; l’ironia è rendersi conto che le isole non sono continenti, né i laghi oceani; il navigante che ritorna un giorno al punto di partenza capisce che la terra è una semplice palla rotonda e che l’universo non è infinito. […]Non sarà l’ironia uno dei volti della saggezza54?

54 V. JANKÉLÉVITCH, L’ironia, Genova, Il Melangolo, 1987, p.38.

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La scienza postmoderna si fonda sul rifiuto della visione del mondo meccanicistica, deterministica, statica e particolaristica della scienza moderna a favore di un nuovo paradigma basato sui principi del caos, dell’evoluzione e dell’olismo. […] Il mondo moderno ha cercato di ridurre la complessità sovrapponendo ad essa un complesso sistema di classificazioni o di regole che danno l’illusione che tutto sia comprensibile e razionale. […]55 Lyotard sottolinea [come invece caratterizzino il postmoderno] la fine delle grandi certezze e utopie della modernità […] Si realizza […] il superamento della grandi certezze. E’ assai più opportuno, per l’uomo postmoderno, avere molte convinzioni”, “avere molte tradizioni e storie nel petto”, “avere molti dei e molti punti di orientamento”56.

Un straordinaria sintonia dunque tra questa figura di parola o pensiero e il postmoderno caratterizzato proprio “dalla decisa presa di distanza della razionalità – un dogma della società moderna - per la ricerca, più o meno consapevole, di forme di razionalità più coerenti all’oggi. Dalla costruzione di una iperrazionalità che riesca ad includere aspetti ritenuti “irrazionali” come il frivolo, l’emozione, l’apparenza, il piacere dei sensi,l’intrusione del futile57”. Attori della società postmoderna sono l’homo ludens e l’homo aestheticus. Individui che accettano la complessità, convivono con essa cercando di gestirla in modo tale da trarre arricchimento dalle sue contraddizioni. Individui che vivono all’insegna dell’eclettismo, del pluralismo estetico e culturale, del sincretismo.E allora perché la pubblicità, che capta i segnali che le vengono dalla società e li travasa nei suoi messaggi, che si fa suo specchio, non dovrebbe cogliere questo nuovo spirito del tempo? Perché non parlare proprio attraverso l’ironia che vive nella consapevolezza dei limiti dell’uomo, che ama giocare con le sue illusioni, che tra i suoi stratagemmi annovera proprio la antitesi tra detto e non detto, tra superficie e profondità? Che costruisce la sua comunicazione sulla complessità e molteplicità? E che quindi costringe l’uomo a partecipare, a impiegare la propria intelligenza per arrivare alla comprensione di un messaggio che mescola il sorriso alla realistica presa di coscienza?

55 G. FABRIS, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, Milano, Franco Angeli, 2003, p.24.56 Ivi, p.35.57 G. FABRIS, Il nuovo consumatore…, op. cit., p.26.

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Un’ironia che si declina in varie “tipologie” che si colorano di sarcasmo, che vivono del disgregante dubbio dei romantici, fatto di continui cambiamenti e cominciamenti, che si costruiscono sulla tensione di citazioni di fatti e di teorie dialetticamente riferite al reale, o sulla risibilità dell’umana condizione così terribilmente preda dei capricci della sorte. Un’ironia che è sempre, in fondo, amara poiché comunque guarda alla realtà con un occhio freddo, distaccato e disincantato. L’ironia, nelle sue varie dimensioni, gioca infatti sempre con le abitudini, con le certezze. Ma la pubblicità inglese non la teme. Non la teme perché lo humour è parte del dna del popolo inglese. Non c’è dunque il timore di suscitare l’antipatia, o di incontrare l’incomprensione di un destinatario che da secoli si confronta e si serve di questo tropo. Gli spot inglesi sono permeati di un’ironia che gioca, che prende le distanze dai modelli consolidati, che si diverte a ribaltare le consuetudini. E’ una pubblicità che si fa davvero intelligente e che costringe il suo interlocutore a un processo di inferenze, di decodifica che lo presuppone attore attivo e non ricettore passivo dei suoi messaggi. Una pubblicità che si fa attraente, che seduce il destinatario perché attiva un meccanismo di cooperazione in cui la comprensione del messaggio è un riconoscimento dell’intelligenza di quest’ultimo. Esemplare in tal senso è lo spot che segue in cui si fa uso dell’ironia cosiddetta citazionale. Una forma cioè di ironia particolarmente complessa poiché richiede un patrimonio di conoscenze condiviso tra autore e “lettore”, pena la mancata decodifica del messaggio. Solo infatti un’enciclopedia comune consente al destinatario di uno spot, che fa uso dell’ironia citazionale, di capirne il contenuto. Ed è anche per tale ragione che l’ironia, soprattutto di questo genere, stenta ad affermarsi in pubblicità. In un metagenere cioè, in cui la corretta comprensione del “testo” è questione imprescindibile per una comunicazione il cui obiettivo è produrre goodwill nei confronti del prodotto pubblicizzato, una decodifica aberrante del messaggio è un fallimento di comunicazione.Protagonisti dello spot, che qui ricordo, sono infatti personaggi famosi, ma appartenenti ad un passato ormai lontano e quindi, per tale ragione, sconosciuto a molti giovani.

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In primo piano una coppia di signori anziani dal viso sorridente. Le riprese sono in bianco e nero e i due si trovano in una stanza che sembra un salotto, si suppone, della loro casa. Una didascalia dice: “Mr and Mrs Thatcher. Parents of Margaret Thatcher”. La loro posa fa pensare ad una foto. Anche perché non compiono alcun azione, ma semplicemente guardano l’obiettivo. L’inquadratura si sposta in un altro salotto. Altra coppia di anziani: “Mr and Mrs Noriega. Parents of General Noriega”.Anche in questo caso assenza di movimenti e quindi, ancora una volta, l’impressione che vengano immortalati in una foto. Tra l’altro, la scelta del bianco e nero allontana nel passato queste immagini. Ultima coppia: “Mr and Mrs Ceausescu. Parents of Nicolae Ceaucescu”. Stesse considerazioni sviluppate per le altre coppie. Compare poi, su uno sfondo completamente nero, l’headline: “if they’d only used Fiffi Condom”.

E’ evidente che se un sorriso spunta sulle labbra di chi conosce questi personaggi, la loro storia, rischiano invece di restare del tutto indifferenti, e quindi di vanificare la efficacia del messaggio, coloro che ne ignorano l’identità.I tre cognomi appartengono infatti a individui che nella storia si sono distinti per aspetti criticabili del loro operato. Margaret Tahctcher, primo ministro inglese, dal 79 al 90, è definita Lady di Ferro per la sua epidermica antipatia per la sinistra in senso lato e per il movimento sindacale in senso stretto. Fortemente conservatrice sferra una dura offensiva contro i sindacati.Non nasconde di anteporre la carriera politica alla famiglia e si distingue per la grande ostinazione, la volontà di ferro, la forte personalità. Il generale Manuel Noriega assume il controllo dello stato di Panama nel 1984 e lo mantiene fino al 1989. Già capo della polizia segreta panamense e collaboratore della CIA, Noriega diventa capo di stato fantoccio con una spiccata predilezione per la demagogia. L'assassinio degli avversari politici, la sistematica soppressione della democrazia, il traffico di droga e il riciclaggio di denaro sporco sono le sue principali occupazioni durante gli anni Ottanta, tanto da attirarsi sanzioni da parte degli Stati Uniti e il congelamento delle attività produttive.

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Ceausescu tiranno romeno rimane al potere dal 1970 al 1989. E’ un uomo crudele che, con l’aiuto della sua Securitate, un vero e proprio esercito del terrore, sottopone a terribili violenze serbi e turchi. L’ironia contenuta nell’headline connota le immagini che abbiamo visto. Il senso dello spot si costruisce nella interazione dell’una con le altre. Quella cioè che è la semplice pubblicità di un preservativo si trasforma in un’irriverente condanna nei confronti dell’operato di questi individui. Il messaggio è forte. Un po’ trasgressivo. E proprio per questo più difficile da dimenticare. Entra qui anche l’ironia della sorte. Il destino infatti non ha illuminato queste coppie che non hanno pensato di usare uno strumento che avrebbe risparmiato dolori a loro e a migliaia di individui. E’ evidente il carattere paradossale di questa affermazione che intende però sottolineare, obliquamente, quanto la prevenzione possa aiutare l’uomo, se non è davvero consapevole di ciò che sta facendo, della sua importanza, a non commettere errori evitandogli – questo è il vero messaggio – di dar vita a esseri infelici e soli. Forse il caratteraccio della Thactcher, di Noriega e di Ceausescu dipendono dai genitori troppo severi, o assenti, o opprimenti?!?Esempio classico di ironia della sorte è tutta la pubblicità di Hamlet. Un mondo di microstorie di sfortunati individui perseguitati dal destino avverso, ma stoicamente capaci di sopportare le proprie sconfitte con l’aiuto di un buon sigaro. La rappresentazione delle “amare” vicende dei protagonisti di questa campagna si arricchisce del sorriso che viene, sovente, dalla parodica messa in scena di atteggiamenti/comportamenti tipicamente inglesi.

Esemplare in tal senso lo spot che vede protagonista un uomo, chiuso nel suo sacco a pelo, in attesa che aprano Harrod’s dove sono inziati i saldi. Dietro di lui, in fila composta (“alla inglese”), molti altri clienti. Quando però finalmente si aprono le porte del grande magazzino lui non riesce ad aprire la cerniera e così si vede superare da tutti coloro che erano dopo di lui. Non gli resta che fumare il sigaro (“happiness is a cigar called Hamlet. The mild cigar) e fare buon viso a cattiva sorte.

Ironia come gioco tra detto e non detto è presente nei due spot per Interflora. Nel primo vediamo una coppia in un negozio di

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ferramenta. Lui prende in considerazione due trapani di dimensioni diverse. La compagna gli si avvicina e gli toglie di mano il più piccolo suggerendogli così di comperare l’altro. Lui la guarda esterrefatto. Il claim recita: “the power of flower”.Il secondo spot ci presenta un primo piano di un giovane sdraiato comodamente sul divano con un bicchiere di birra ormai vuoto in mano. Sta guardando una gara di moto in tv. Improvvisamente, entra una donna che gli toglie il bicchiere di mano per sostituirlo con uno pieno. Lui la guarda meravigliato. Ancora il claim recita: “the power of flower”.

E’ qui evidente il gioco tra quanto vediamo accadere sullo schermo (il detto) e tutta una serie di stereotipi (il non detto), sulla figura femminile, ben presenti nelle nostre menti. Tanto che, in entrambi i casi, ci aspetteremmo la reazione negativa delle donne nei confronti dei comportamenti dei due protagonisti. Ma ciò non avviene. E, in fondo, lo sguardo disorientato dei due uomini un po’ riflette anche la nostra meraviglia rispetto a un epilogo che ribalta completamente le nostre congetture.

Ironia come arma per distruggere e poi ricostruire. E’ il caso dello spot per i Kellog’s. In questo caso assistiamo a un classica sfilata di moda. Le modelle indossano abiti molto particolari e che ne evidenziano le forme. Improvvisamente esce un grassone con lo stesso abito indossato da una delle modelle: reggiseno e gonna trasparente con strass. Esce il claim: “designers should try wearing what they design for us”. E poi: “look good on your own terms. Eat sensibly. Kellog’s”.

Il dito è puntato contro il “vizio” che gli stilisti hanno di presentare vestiti impossibili da portare per una donna comune. Gli abiti che sfilano sono infatti opere d’arte, strumenti di seduzione per stupire e ammaliare il pubblico ma, come tali, spesso lontani dalla portata delle comuni mortali. L’invito è dunque a pensare anche a chi non ha forme da miss. La stessa Kellog’s inoltre si impegna ad aiutare gli individui a mantenersi in forma, suggerendo loro di nutrirsi in modo equilibrato.

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Ironia dunque come stimolo a pensare in maniera critico, ad agire per cambiare lo stato delle cose in modo più positivo. Ionia venata di sarcasmo e fortemente allusiva (nel nostro caso ad altre pubblicità), tanto da essere capita solo da chi conosce i suoi riferenti.

Lo spot inizia con una signora anziana, vestita in modo elegante, in piedi, sola vicino a un pianoforte, su cui compare una bottiglia di succo, con relativo bicchiere, in un salone lussuoso. La donna, il cui nome e qualifica compaiono in sovrimpressione, “Olga Marie Mikalsen, lyrical alto”, canta in modo assolutamente stonato. Finché fa una pausa e beve un po’ del succo che ha accanto a sé. Riprende quindi a cantare, ma delude le nostre attese. La sua voce non è affatto migliorata: anzi. Tanto che il claim recita: “probably the only soft drink that cures nothing but thirst: Solo”.

Il sarcasmo, l’ironica frecciata è scoccata contro tutte quelle bibite (tra cui campeggiano le famose Coca e Pepsi) che si impegnano a regalare, attraverso il loro acquisto, stili di vita fatti di giovinezza, di dinamismo, di coolness. Solo, molto più realisticamente, promette unicamente (“solo” quindi anche un gioco di parole tra il nome della bibita e il claim) ciò che può mantenere, ossia calmare la sete, non certo fare certo miracoli.Una critica espressa quindi in modo sotterraneo come solo l’ironia sa fare, aggirando i confronti/scontri diretti.E non è, tra l’altro, l’ironia quell’appello all’intelligenza di cui parla Bill Bernbach quando teorizza la via maestra delle pubblicità per parlare al pubblico? Non è stata inoltre, per decenni, la pubblicità della Wolkswagen, di cui Bernbach è stato ispiratore e materiale esecutore, un efficacissimo condensato di ironia? Non è poi l’ironia (credo non sia inutile ripeterlo), proprio perché non è immediatamente esplicita, perché richiede una qualche forma di elaborazione da parte dell’interlocutore, la modalità più espressiva per dialogare con un consumatore ormai maturo proponendogli complicità e cooperazione testuale?

La drammatizzazione del benefit

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Un tempo si diceva che Procter&Gamble, il più importante inserzionista pubblicitario del mondo, non dedicasse nemmeno un minuto al lavoro di un’Agenzia se questo non conteneva, chiaro e visibile, un consumer benefit. Una caratteristica cioè del prodotto che fosse rilevante per il consumatore e di cui la marca potesse impossessarsi in maniera esclusiva. Se non era immediatamente percepibile il budget era destinato a prendere, da subito, altre vie. I tempi però sono cambiati. E’ sempre più difficile scovare nel DNA dei prodotti, caratteristiche distintive outstanding e le stesse innovazioni sono clonate dai competitors praticamente in tempo reale.In un mercato come quello attuale, si complica il processo di scelta tra prodotti standardizzati, simili quanto a caratteristiche strutturali, ad aspetti funzionali e a performances. Tanto che anche alla pubblicità si richiede un plus di prestazioni. A lei, strumento principe di cui l’azienda si serve per creare goodwill nei confronti della sua merce, spetta cioè il compito, più ancora che al mondo della produzione, di differenziare i prodotti, di vestirli di segni distintivi, di inserirli nella shopping list cui il consumatore attinge al momento dell’acquisto. E allora perché non farlo vantando iperbolicamente proprio quei benefit che è sempre più difficile trovare in maniera esclusiva e caratterizzante in una marca? E i vantaggi che il loro possesso garantirà al consumatore? L’iperbole, la drammatizzazione delle performances non possono divenire un antidoto alla loro latitanza? Del resto l’iperbole è sempre stata la figura retorica più utilizzata (anche se sovente banalizzata) nei registri della pubblicità. Per rafforzare l’immagine di marca e creare desiderabilità per il consumatore, la pubblicità può puntare, come è noto, o sugli elementi soft, che fanno riferimento a un universo di valori, di affetti, di emozioni – la dimensione intangibile della marca, quella che le conferisce calore e colore - o su quelli hard58, vale a dire tutti quegli elementi concreti che la caratterizzano strutturalmente e la distinguono in termini di performances nei valori d’uso rispetto ai suoi concorrenti. Il problema è farlo in modo non banale. La Unique Selling Proposition, teorizzata da Rosser Reeves e ricercata come araba fenice da generazioni di pubblicitari, si articola in un tipo di comunicazione la cui strategia consiste nel proporre al

58 M. LOMBARDI, Manuale di tecniche pubblicitarie, op. cit., p.111.

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consumatore un beneficio capace di imporsi alla sua attenzione per l’unicità, l’esclusività, la rilevanza che lo contraddistinguono.Beneficio che deve però essere presentato in modo tale da catturare l’attenzione dello spettatore/lettore/ascoltatore. L’iperbole diventa allora – in alternativa a reason why esplicative di grande impressività,a supportino evidence altamente convincenti - una figura chiave nel far passare un tipo di messaggio che può farsi strada attraverso la sovrabbondanza di informazioni, di dimostrazioni a crescita esponenziale di U.S.P. solo se contiene un elemento di straordinarietà. Dove per straordinario intendo qualcosa di eccezionale, qualcosa che non si limita a soddisfare, ma che addirittura supera le nostre aspettative. Forse è proprio nella drammatizzazione del benefit, inesistente o omologo a tanti altri, che la pubblicità deve, sino in fondo, far ricorso ad una massiccia immissione di creatività. Deve cioè parlarci di un prodotto che è in grado di fornirci delle prestazioni oggettive in più che neanche riusciamo ad immaginare. La realtà, il nostro continuo confrontarci con essa, l’esperienza ci hanno insegnato che cosa ci possiamo o meno aspettare nelle varie situazioni in cui veniamo a trovarci. Sappiamo quali sono i limiti degli strumenti che abbiamo a nostra disposizione. Sappiamo quanto ci possono aiutare nel nostro rapportarci al mondo che ci circonda. L’iperbole invece ci illude che non sia così e ce lo dimostra.Se vogliamo, questo approccio della pubblicità è l’apoteosi delle supportintg evidence, l’apogeo delle reason why. Ci informa che esistono dei prodotti che ci consentono di superare anche gli ostacoli più difficili. Ci dice che esistono dei prodotti, degli oggetti che sanno, a differenza o più di altri, regalarci la magia di esperienze che crederemmo impossibili, irrealizzabili. Anche nel grande mondo dei prodotti convenience. La colla per esempio. Un prodotto assolutamente privo di fascino, a bassissimo coinvolgimento e di cui vi sono migliaia di marche tra cui scegliere. Sovente, quando usciamo per comperarne non abbiamo in mente una marca precisa. Una vale l’altra. Ma possiamo davvero ripetere la medesima affermazione, possiamo davvero sentirci così a-marca riguardo alla colla, se invece, poco prima di uscire, vediamo un pallone che, colpito da una freccetta molto appuntita, non esplode perché

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quest’ultima finisce sul punto dove era stata versata la “super” colla giapponese Aren Alfa e lì rimane quindi attaccata?!? Non ci verrà forse il dubbio che questa colla sia più affidabile delle altre? Che sia più “forte” delle altre?

E ancora. Che dire della colla istantanea “Super Bonder” con cui un ormai esasperato giovane riesce a bloccare, incollandola al pavimento, dove ha lasciato cadere qualche goccia di colla, la dondolo della nonna che va su e giù provocando un cigolio insopportabile?

E’ probabile che dopo aver visto questo spot se ci dovessimo recare in cartoleria allora ci balzerebbe immediatamente alla mente la marca “super bonder”: una marca alla quale associamo prestazioni superiori, su cui si riflette il carattere ludico dello scherzo dispettoso giocato dal ragazzo ai danni dell’anziana –anche se involontaria - rompiscatole. Insomma il messaggio diventa anche “interlocutorio59” poiché riesce comunque, pur limitandosi alla dimensione hard del prodotto, a sorprendere il consumatore. Interlocutorio perché ne stimola l’interesse mettendo in scena uno spettacolo in cui il prodotto subisce una trasformazione – drammatizzazione del benefit - che lo porta dalla sfera della normalità a quella della eccezionalità.

A questo proposito ricorderei uno spot della Golf i cui protagonisti sono un uomo alla guida e la sua compagna di viaggio. Percorrono, con la loro Golf, una strada che sembra allungarsi in mezzo a una zona desertica. La donna dorme. L’uomo appare visibilmente infastidito dal cigolio che sente prodursi all’interno dell’auto. Mentre guida cerca invano di capirne l’origine toccando un po’ ovunque attorno a lui. Ma nulla. Finalmente, lungo il suo percorso, incontra un distributore di benzina. Si ferma e chiede al benzinaio di aiutarlo a trovare la causa del fastidioso rumore. Quest’ultimo entra nell’auto, si siede al posto di guida, mentre, al sedile di fianco, la donna continua a dormire. Da fuori il guidatore scuote l’auto per simulare le condizioni di viaggio e consentire quindi al benzinaio di scoprire la parte colpevole del cigolio. Il benzinaio appare

59 A. TESTA, La parola immaginata, op. cit., p.21.

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inizialmente confuso. Ma poi ecco, capisce tutto. E allora lo vediamo versare una goccia di olio su uno degli orecchini, piuttosto vistosi, della signora addormentata. Era proprio quello il responsabile del cigolio. L’headline dice: “Golf c’è da fidarsi”.

Si tratta, è evidente, di una situazione assurda, paradossale. Il messaggio è chiaro: dubitate di tutto ma non di una Golf. Su di lei potete contare con sicurezza. Ma come passa questo messaggio? Ancora una volta attraverso la drammatizzazione del benefit. E’ l’affidabilità di un’auto elevata al cubo che diviene anche mission e caratteristica distintiva della Corporate (VW). Che da decenni utilizza la drammatizzazione delle caratteristiche performative – sovente con l’uso combinato dell’ironia per evitare accuse di presunzione o arroganza – per esprimere eccellenza ed affidabilità.L’iperbole, a volte, sconfina nella comicità esasperando reazioni/emozioni degli individui in rapporto alle performances dei prodotti. La comicità si sviluppa infatti anche a partire dalla violazione di comportamenti codificati dalla società in relazione a determinate situazioni. Per cui, ad esempio, se vado al ristorante e trovo delizioso la pietanza che mi è stata servita ciò non significa che possa/debba esprimere il mio entusiasmo leccando il piatto. Il bon ton e le convenzioni sociali me lo impediscono. E’ invece quanto accade nello spot che pubblicizza Tine Cream.

Un esterrefatto cameriere osserva i clienti del locale attraverso l’oblò della porta della cucina: tutti leccano avidamente il proprio piatto. Il claim recita: “Tine Cream enhances the taste” (Tine Cream migliora il sapore).

Altrettanto intriso di comicità è la drammatizzazione del benefit per la zuppa Rosella.

Un gruppo di omaccioni, vestiti da boscaioli, si siede a un lungo tavolo di legno, dopo aver ricevuto la propria razione di zuppa dalle mani di un cuoco corpulento. Improvvisamente, uno di loro inizia a piangere perché sostiene che la zuppa assomiglia a quella che faceva la sua mamma. La sua nostalgia contagia il vicino e quindi anche gli altri amici: tutti piangono. Persino il cuoco, che guarda il

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proprio tatuaggio, un cuore trafitto da una spada, che reca la scritta “mother”, si abbandona al pianto.

Nulla di più divertente. In questo caso l’iperbole si è avvicinata alla incongruità che caratterizza il comico. Incongruità che si manifesta nel contrasto tra la apparente rudezza di questo gruppo di individui e invece la loro estrema sensibilità che li fa addirittura scoppiare in lacrime per la bontà di un piatto che ricorda tanto la cucina della mamma. E’ certamente vero che, in un mercato moderno, le prestazioni di base di un prodotto ottengono sempre meno appeal e vengono date per scontate, in qualche modo considerate incorporate nel DNA del prodotto se la marca è appena credibile. Una sorta di sindrome del “ci mancherebbe altro che…” un’auto non fosse sicura, un orologio preciso, una pasta non tenesse la cottura. Il livello della competizione /differenziazione tra le proposte del mercato passa, il più delle volte, su altri fronti. Ma ciò non toglie che una sottolineatura drammatizzata, spettacolare, estremamente persuasiva non possa riportare in auge proprio la promessa di base. Del resto anche negli studi di customer satisfaction si parla di consumatore delighted. Una modalità superiore all’essere semplicemente contento o soddisfatto. Come premessa e causa di una lunga relazione.

La spettacolarizzazione La pubblicità è (o dovrebbe essere) sempre spettacolo. In una contingenza poi, come l’attuale, in cui tutta l’enfasi dei produttori è sulla creazione di entertainment, questa funzione della pubblicità viene ulteriormente valorizzata. Ma, in questo contesto, ci riferiamo non alla produzione di entertainment bensì alla spettacolarizzazione esasperata, iperbolica dei benefit (per lo più tangibili) di prodotto.

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Il filo d’Arianna della comunicazione [è] la star. Un essere unico e multiplo in cui ciascuno si identifica e che si identifica con tutti. La marca non ha altra funzione. Ciascuno deve trovarvi il suo piacere, ma la marca deve soddisfare tutti. […] Marca e star sono gemelle, e ambedue sorte dal nostro immaginario collettivo60.

Rendere il prodotto una “star”, nel senso di attribuirgli caratteristiche uniche, irripetibili, avvolte di quel fascino che emana dai divi di Hollywood, è la filosofia creativa di Séguelà (uno dei pubblicitari che ha realizzato le campagne di maggior successo degli ultimi decenni). Sollevare il prodotto dalla sua materialità, che lo vede simile, quanto ad attributi funzionali e a performances, a mille altri, per farlo partecipe di una dimensione quasi incorporea.Una realtà altra, un mondo abitato da pochi eletti che partecipano di qualità che la maggioranza può solo sognare. Si passa dunque dalla tangibilità del bene alla sua immaterialità. La pubblicità diventa quindi spettacolo. “Le nostre marche devono essere le nuove dive. Così l’atto del consumo diventerà un atto culturale. [La pubblicità] sarà il nostro cannone per sognare, la nostra macchina per evadere, il nostro Hollywood quotidiano61”.

E’ il caso, ad esempio, dello spot per Nike che vede protagonisti alcuni calciatori molto famosi. Si tratta di un commercial realizzato in occasione dei mondiali di calcio. In primo piano un edificio su cui sono dipinti due calciatori. Uno dei quali improvvisamente si anima e colpisce il pallone causando, col suo movimento, la frana di parte del muro che sembra sfaldarsi sotto la potenza del gesto. In lontananza la Tour Eiffel: siamo quindi a Parigi. Il pallone, così lanciato, arriva come un razzo a Milano – viene infatti inquadrato rapidamente il Duomo – dove viene colpito da un altro calciatore anch’egli rappresentato da un enorme dipinto realizzato ancora su una parete. E di nuovo il muro si sfalda sotto la forza della testata con cui il pallone viene ricevuto e rilanciato. La scena si ripete in varie parti del mondo tutte individuabili grazie all’inquadratura di un simbolo che le rappresenta : Londra, New York, Rio de Janeiro…

60 J. SEGUELA, Hollywood lava più bianco, Milano, Lupetti & Co, 1985, p.19.61 Ivi, p.19.

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Il pallone sembra davvero attraversare il globo nel suo passare da un giocatore all’altro. Lo spot si conclude col pallone che colpisce un’insegna al neon su cui compare il logo NIKE.

Dall’esempio risulta evidente che la spettacolarizzazione, come anche la drammatizzazione del benefit, poggia sull’iperbole che però, nel primo caso, non riguarda più solo un attributo preciso e distintivo del prodotto, quel qualcosa che lo rende, per la sua unicità, diverso e migliore degli altri, ma si estende addirittura al mondo di cui il prodotto è parte. Possedere quel prodotto significa cioè portare con sé un pezzo di magia. Significa avere la chiave di accesso a una dimensione superiore. Così, chi compra indumenti sportivi o scarpe da ginnastica con lo swoosh può avere la sensazione di condividere valori quali il coraggio, l’onore, la vittoria di cui questo marchio è divenuto sinonimo in tutto il mondo. Anche qui evidente è la lezione di Séguéla quando affermava “la marca di domani non sarà più bisogno di avere, ma necessità di essere, il matrimonio tra un prodotto e il suo magnetismo62”. Assieme allo soowsh lo slogan che lo accompagna, Just do it, ossia “puoi farcela”, rappresentano un incitamento, per milioni di persone, a credere in se stesse e a porsi delle sfide proprio come i campioni dello sport che fanno da testimonial a Nike. Uno per tutti Michael Jordan star del basket non solo eccezionalmente brava ma anche dotata di grande carisma. Just do it è, inoltre, un condensato dell’ideologia americana (ciascuno porta cioè nel suo zaino il bastone da maresciallo, il mito di Horatio Alger ossia la scalata da lustrascarpe a miliardario, ascesa che permea l’american dream) dell’ottimismo e della responsabilizzazione individuale.I commercial creati dalla Nike mostrano infatti Jordan – le straordinarie sospensioni/elevazioni dell’atleta sotto canestro fanno ormai parte della leggenda - sospeso nel salto, dando l’impressione che egli possa addirittura spiccare il volo (da qui il nome di un famosissimo paio di sneakers: le Air Jordan). Tutto questo, ovviamente, significa per Nike un successo enorme, soprattutto nei quartieri americani più degradati dove Jordan rappresenta il mito di chi si è fatto da solo, la spinta a lottare, perché con l’impegno si può

62 J. SEGUELA, Hollywood lava…,op. cit., p.43.

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vincere, si può uscire dal ghetto: “Just do it”. “Le scarpe “magiche” Nike ti aiuteranno a volare in alto proprio come Michael Jordan63”. Entrano in gioco così le emozioni poiché l’interesse per il prodotto si sposta da un piano razionale a uno affettivo. Gli intangibles della marca sono al centro della scena. E assumono una dimensione quasi epica, eroica. In una società, come quella attuale, in cui sono i desideri e non i bisogni a muovere l’individuo, ecco che il possesso di beni, che sono stati protagonisti di set fuori dall’ordinario, finiscono col solleticare l’immaginazione del destinatario. Spot spettacolari riescono cioè a venire incontro ai desideri di quest’ultimo poiché, in qualche modo, li materializzano sullo schermo, sulla pagina, sul manifesto. I desideri assumono le vesti di immagini sorprendenti, di azioni strabilianti, di donne e uomini dotati di personalità, di carisma, di fascino, di bellezza che non sono di questo mondo. E, per una sorta di processo di transfert, tutta questa magia si trasferisce sul prodotto. Il desiderio di appartenere al mondo dei miti viene così soddisfatto dal possesso di un oggetto che ne fa parte. E la sua materialità diventa solo un “post-it” che evoca sogni di potenza, forza, coraggio, onore, determinazione… che non sono di questa realtà poiché trascendono i limiti dell’uomo.

E’ quanto accade anche nello spot di Pirelli in cui Car Lewis riesce a correre sull’acqua per poi raggiungere la statua della Libertà, a New York. Arrivato il cima, sulla corona della stessa, l’atleta spicca un salto incredibile. La pianta dei piedi è come i pneumatici Pirelli. Power is nothing without control.

Di gran effetto è l’accostamento, per flash brevissimi, dell’uomo che corre sull’acqua al pneumatico anch’esso bagnato da questo elemento.L’impresa compiuta da Lewis è incredibile, oltre le possibilità dell’uomo. E, comunque, il fatto che venga realizzata da un individuo, fuori della norma, quanto a potenza fisica, accresce l’efficacia del messaggio.

63 N. KLEIN, No Logo, Milano, Baldini&Castaldi, 2001, p.110.

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Il brand character, la percezione soggettiva che ne abbiamo è di determinazione, di forza. E’ l’uomo che supera sé stesso. La marca ha dimensione onirica, è concretizzazione di un sogno.“La pubblicità deve essere spettacolo. E’ la rappresentazione quotidiana dei consumi […]. La pubblicità non deve finire mai di stupire. La pubblicità deve essere spettacolare per natura64”.

Anche Tag Heuer professional sport watches comunica tutto questo. Lo spot ci propone infatti una serie di individui impegnati in sfide impossibili. Inizia con una staffetta in cui l’oggetto da passare è un … di dinamite (che, tra l’altro reca la scritta: “danger esplosive dinamite”). Segue una donna che gioca a golf in mezzo a migliaia di vasi di ceramica; è poi la volta di nuotatori inseguiti da uno squalo, cui succede un auto da corsa che gareggia con un aereo e, infine una donna che, a cavallo, salta da un grattacielo a un altro.

La percezione che abbiamo di tali messaggi è di fiducia nelle capacità umane. E’ un invito ad andare oltre. Il prodotto supera la sua fisicità per comunicare la sua anima, il suo carattere, il suo stile. La marca diventa sinonimo di potenza. Possederla, possedere un suo prodotto equivale, in qualche modo, ad avvicinarsi a un mondo dove i limiti non esistono. Significa porsi nella schiera dei coraggiosi. Quelli che non accettano la vita così com’è ma si confrontano con essa.

Come i surfisti dello spot per la Guinness che sfidano delle onde altissime su cui si muovono degli splendidi cavalli. “Good things come to those who drink Guinness”.

L’immagine dei cavalli che cavalcano le onde trae ispirazione dalla tela Les chevaux de Neptune di Walter Crane. A volte invece la spettacolarizzazione si fa divertente. E, a differenza di quanto accade negli spot che ho appena raccontato, in cui l’elemento fantastico è sì palese, ma assume una connotazione metaforica nel dipingere appunto la sfida uomo / natura o uomo / vita, quello della Pepsi, che vado ora a raccontare, colora la l’iperbole di simpatia, di gioco. Il meraviglioso lo permea fino a

64 J. SEGUELA, Hollywood lava…, op.cit., p.100.

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togliere quella tensione, quella concentrazione che invece erano presenti negli altri messaggi pubblicitari. La dimensione ludica è prevalente.

Un ragazzo viaggia a velocità incredibile su uno skateboard che si muove nell’aria. Lo avvicina un’oca. I due, a questo punto, ingaggiano una gara a chi compie le più fantasiose performances: quindi volteggi, cadute a spirale, pazzesche capriole ecc. Finché, a un certo punto, il giovane estrae una lattina di Pepsi e ne condivide il contenuto con il piccolo animale. Pepsi generation next.

Il confronto, però, avviene in un clima di grande serenità. Non c’è competizione tra i due, ma solo voglia di giocare.

La pubblicità comparativa La pubblicità comparativa nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Trenta con la campagna, promossa dalla Plymouth, in cui si invitano i consumatori “a dare un’occhiata a tutte e tre” (“look at all three”), prima di scegliere la propria auto tra, appunto, Plymouth, Ford e Chevrolet. Agli anni Sessanta risale invece la famosa campagna della Avis contro la Herz, leader nel settore dell’autonoleggio. Il famoso claim dell’annuncio “When you are only No.2, you try harder. Or else” (USA 1963) costituisce un primo

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esempio di comparativa indiretta seguita da una serie fortunata di comparative dirette. Dove con la prima espressione si intendono quei messaggi in cui il nome del prodotto o della marca concorrente non viene citato direttamente; mentre con la seconda ci si riferisce a un messaggio in cui i prodotti o le marche vengono effettivamente nominati, sono chiaramente identificabili65. Negli anni Sessanta, negli USA, prevale un atteggiamento positivo nei confronti della pubblicità comparativa, atteggiamento che si concretizza in una serie di norme che vanno a tutelare le imprese rispetto a una concorrenza potenzialmente sleale. Ricordo alcuni tra i vantaggi attribuiti alla pubblicità comparativa:

- una superiore capacità informativa. Nel senso che fornisce ai consumatori maggiori elementi di confronto in base ai quali effettuare i propri acquisti all’interno di un mercato sempre più affollato da merci tra di loro molto simili. Da notare che, inrealtà, tutte le comparazioni che sono entrate a far parte della storia della pubblicità non hanno mai portato il confronto sul terreno informativo;

- un più facile posizionamento sul mercato delle nuove marche di cui risaltano in maniera più evidente i pregi attraverso il confronto con marche preesistenti;

- un costante stato di allerta da parte delle grandi aziende così costrette a non considerarsi mai definitivamente arrivate ma invece a impegnarsi in un progressivo miglioramento di propri prodotti.

Si tratta però di una forma di comunicazione che presenta comunque numerosi aspetti negativi. Ne elenco qui di seguito alcuni:

65 E il confronto verte su: “1. il prodotto/servizio. E’ il caso più frequente: i confronti sono effettuati su una o più caratteristiche del prodotto pubblicizzato con quelle dei concorrenti. 2. a marca. La comparazione è in questo caso principalmente incentrata su caratteristiche “istituzionali” della marca e/o dell’immagine della stessa sedimentata tra i consumatori.3. il prezzo. Le comparazioni incentrate sul prezzo hanno generalmente un duplice scopo comunicativo. Innanzitutto cercano di dimostrare l’equivalenza/sostituibilità del prodotto reclamizzato, rispetto a quelli verso cui viene effettuato il confronto. Successivamente dichiarano di riuscire a vendere quello stesso prodotto ad un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza”. In D. CARDINI, G. DI FRAIA, Il problema della pubblicità comparativa, Milano, COOPLI IULM, 1993, p.35.

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- può generare confusione nella mente del consumatore che potrebbe avere difficoltà a riconoscere il prodotto o la marca pubblicizzati;

- “contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è vero che pubblicità comparativa significhi automaticamente pubblicità informativa: se l’automobile A dice “io sono meno rumorosa dell’automobile B”, quest’ultima può rispondere “ma io vado più veloce”, e C può controbattere “io sono più sicura di A e B”, e D può affermare “il mio bagagliaio è più spazioso di quello di A, di B e di C”, e così all’infinito. L’informazione c’è, ma è parziale, e non è detto che possa davvero aiutare il consumatore a scegliere meglio”66;

- può correre il rischio di avvantaggiare la marca o il prodotto concorrenti.

Tanto che la legislazione in materia ha tentato, sin dagli inizi, di tutelare le aziende, oggetto di sfida, rispetto a una forma di concorrenza che si muove pericolosamente ai limiti della liceità.In Europa, eccezion fatta per Irlanda, Regno Unito e Paesi Bassi la pubblicità comparativa è stata ammessa nella sola forma indiretta (si pensi alla pubblicità italiana di Dash. In cui vengono offerti due fustini di altri detersivi al posto dello stesso) fino al 1997, anno in cui sono state finalmente regolamentate, con direttiva 97/55/CE, le pubblicità comparativa sia diretta che indiretta (anche se in Italia, tali e tanti sono i vincoli che la compartiva diretta di fatto non esiste. Unica eccezione le tariffe della telefonia mobile)67.Un esempio di comparativa diretta condotta in modo intelligente è rappresentato dalla lunga serie di spot, tuttora viva, incentrata sulla sfida (incentrata sull’epopea della guerra delle bollicine) piena di humor, ironia, strizzate d’occhio tra Coca e Pepsi.Qui di seguito racconto quattro spot di successo di questa lunga lotta tra le due brand americane.

1.Un signore anziano entra con quella che, presumibilmente, è la nipotina in un piccolo ristorante. La bambina è molto carina. Ha i capelli neri e ricci, gli occhi neri e indossa un abitino a fiori con un

66 A. TESTA, La parola immaginata, op. cit., p.184.67 Il 30 aprile 2000 tutti gli stati dell’Unione Europea hanno emanato apposite norme in materia.

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colletto bianco. Il nonno ordina una pizza ai peperoni, la bimba invece, con una vocina molto dolce, chiede all’omone, che si trova Dietro il banco, una Pepsi. L’uomo, un energumeno, alto, robusto e scuro di viso e di capelli, la guarda sorridente e le risponde che gliela prende. In realtà, l’uomo le porge un bicchiere di coca cola alla spina. La bambina lo ringrazia. A questo punto il primo piano è sugli occhi della piccola. La musica di sottofondo richiama alla memoria il padrino. La piccola inizia a parlare con una voce maschile. E’ la voce di Marlon Brando. Il barista la guarda attonito e spaventato. Anche tra i clienti corre un brivido di terrore. L’atmosfera è quella dei film gangsters. Allora lui le prende una Pepsi e a alla piccola ritorna la sua vocina. A questo punto, il pizzaiolo del locale, che ha assistito alla scena, fa, col chewingum, un pallone che, però, improvvisamente esplode. Nel locale tutti scambiano il rumore per l’esplosione di un colpo di pistola. Il barista si abbassa dietro il bancone e tutti gli avventori si nascondono sotto ai tavoli. Tanta era la tensione innescata da quella voce carica di ricordi legati alla malavita e ai suoi crimini. Invece la bambina, impegnata nel gustare la propria Pepsi, sospira di piacere e con due dita manda un bacio al barista ringraziandolo in italiano.Headline: the joy of Cola.

2.Un giovane si presenta a un colloquio di lavoro. Il direttore che lo intervista gli chiede se vuole qualcosa da bere. Il giovane risponde una “Diet Pepsi” ma gli viene offerta una “Diet Coke”. Ma questa risposta innesca nella mente del ragazzo tutta una serie di immagini legate alle conseguenze di una sua eventuale accettazione della bibita. Eccolo allora trasformarsi in un semplice impiegato, uno dei tanti, una sorta di minuscolo ingranaggio privo di importanza all’interno di un meccanismo in cui non conta assolutamente nulla. Un poveraccio costretto a mangiare ogni giorno sandwiches di tonno. Improvvisamente però il giovane si risveglia da questo incubo a occhi aperti e prendendo coraggio rifiuta la coca e chiede una Pepsi. Ecco quindi che la vita gli sorride e si ritrova seduto in un bell’ufficio.Un intervistato pensa che se si adatta a bere una Diet Coke può dare al capo l’impressione che si adatterebbe anche un insensato

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ingranaggio, che guadagna un salario basso e mangia ogni giorno sandwiches. Questo spot presenta la stessa struttura narrativa del precedente.3. Un giovane chiede a un venditore ambulante un Diet Pepsi ma riceve una diet Coke. La sua reazione è di pensare a che cosa accadrebbe se accettasse la Diet Coke. Se lo facesse si sposerebbe con una ragazza carina; andrebbe a vivere in una casa mediocre; farebbe una luna di miele mediocre; vivrebbe in una casa mediocre in un quartiere comune; avrebbe un lavoro mediocre ; e infine tornerebbe a casa dai sue due bambini e mezzo consumando il resto della sua vita confinato nella mediocrità. Un cartello stradale indica il suo paese come: “mediocre ville”. Ecco quindi che il giovane si ribella a una simile prospettiva di vita e rifiuta la Diet chiedendo invece una Pepsi. Ciò lo riscatta da questo incubo di mediocrità. There’s only one right one.

4. Due addetti alle consegne commettono un errore. La Pepsi viene cioè recapitata a Sahdy Acres “a community of mature adults”, così recita l’insegna che introduce alla comunità, mentre la Coca Cola a un college. In realtà, a uno dei due incaricati della consegna sorge il dubbio riguardo a un possibile sbaglio nel distribuire il materiale, dubbio da cui viene però immediatamente sollevato dal compagno che ironicamente gli risponde che non c’è alcuna differenza tra Pepsi e Coca Cola. Ma la realtà è diversa.Si verifica infatti una situazione assolutamente anormale per cui i membri della comunità di anziani danzano scatenati, vanno con gli skateboards, cantano come se fossero ventenni viceversa i ragazzi del college giocano stancamente a tombola. Pepsi the choice of a new generation.

E’ una campagna questa con un alto contenuto strategico per evitare che Pepsi si identifichi solo con i giovani: in realtà è la bevanda di chi è giovane dentro e anche se anziano si comporta come un ragazzo. D’altro canto possono esserci giovani che si comportano come vecchi: nello spot giocano a bingo. E’ chiaro dunque che ci troviamo di fronte a una campagna intelligente che ha aggirato i trabocchetti legati alla pubblicità comparativa basandosi sui fattori cosiddetti “evocativi” ossia

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assolutamente soggettivi legati a impressioni emotive, agli aspetti non quantificabili68 del prodotto. Nel caso di Pepsi e Cola la comparazione avviene infatti non tra attributi oggettivamente misurabili ma tra intangibles che sostanzialmente coincidono con l’identificazione del target Pepsi in un pubblico giovane, e di quello Cola in uno più maturo.Diverso è invece il caso di pubblicità comparative che fanno riferimento a attributi di prodotto. Ci spostiamo cioè dal piano qualitativo a quello quantitativo.

E’ necessario [in tal caso] stabilire su quanti attributi è bene basare la comparazione. Le ricerche empiriche sottolineano a questo proposito un rischio piuttosto frequente. Considerando il proprio prodotto superiore alla concorrenza su un buon numero di caratteristiche, l’inserzionista decide di evidenziarle tutte nella pubblicità comparativa, ritenendo in tal modo di fornire al consumatore più di una ragione per spingerlo all’acquisto. Ma spesso può accadere che troppe informazioni disorientino il consumatore anziché guidarlo ad una scelta più consapevole. Si mette in gioco il meccanismo del “sovraccarico informativo”, che si ripercuote negativamente sull’attenzione e sull’accettazione sia del singolo messaggio che della pubblicità in generale69.

Vi sono due tipi possibili di comparazione: il confronto può essere basato su dati informativi/fattuali sostanziati da test di prodotto, oppure su dati emotivi/soggettivi che comunicano opinioni o iperboli70.L’intensità della comparazione può dunque giocare un ruolo negativo generando una sorta di effetto boomerang rispetto al prodotto presentato in chiave favorevole. Il rischio è che si attivi nel consumatore una sorta di meccanismo di solidarietà nei confronti dello sfidato. E’ importante cioè che questa forma di comunicazione faccia un uso moderato dell’iperbole, non perda quindi di vista la veridicità dei suoi messaggi pena la perdita di credibilità.

68 D. CARDINI, G. DI FRAIA, Il problema della pubblicità comparativa, op.cit, p.96.69 Ivi, p.97.70 Ivi, p.46.

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Il fear arousing appeal

A) nella pubblicità sociale Con fear arousing appeals si intendono quei messaggi che fanno appello alla emotività dell’individuo costringendolo a confrontarsi con la paura, l’angoscia, il senso di impotenza e di umana fragilità che derivano dalla rappresentazione di situazioni a rischio. Situazioni cioè in cui l’uomo viene a trovarsi, per aver adottato comportamenti irresponsabili, in primis verso se stesso, e spesso anche nei confronti dei propri simili. I fear arousing appeals mettono quindi in scena accadimenti e loro conseguenze negative sottolineando come l’astensione da “azioni” colpevoli avrebbe evitato le sofferenze, se non addirittura la morte, di molte persone. L’invito, attraverso questa modalità espressiva così forte, è dunque a seguire le raccomandazioni implicite nel messaggio al fine di garantire a sé e agli altri il diritto a una vita serena, sicura.

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I fear arousing hanno un ruolo importante all’interno della pubblicità sociale. Una forma di comunicazione che, a differenza della pubblicità commerciale, non ha quale oggetto dei suoi messaggi le merci ma valori, atteggiamenti, idee. L’enfasi è cioè tutta su “prodotti intangibili che afferiscono più al mondo dell’ideologia e dei sentimenti che a quello materico71”. La pubblicità sociale ha dunque una funzione didattico/pedagogica. La sua finalità è infatti quella di indicare soluzioni di utilità collettiva. Va però anche sottolineato che i fear arousing appeals sono un’arma a doppio taglio. Nel senso che una loro errata realizzazione può compromettere la corretta ricezione del messaggio. Esiste cioè il pericolo che messaggi a impatto troppo forte attivino nell’individuo una sorta di meccanismo di difesa72 che lo porta a rimuovere un’esperienza traumatizzante, sentita come fonte di angoscia, tale cioè da determinare uno stato di marcata dissonanza.Vi sono però anche evidenze diverse che testimoniano cioè del successo di questo tipo di comunicazione. In questo secondo caso, probabilmente, gioca a favore del fear arousing una corretta realizzazione dello stesso. L’appello si costruisce cioè in modo abbastanza realistico, senza quell’eccesso di orrore che provoca il rifiuto del destinatario. In particolare, la pubblicità sociale, come anche quella commerciale, vive di un continuo interscambio tra ragione ed emozione. Poiché è proprio grazie a questa combinazione che i messaggi acquistano in efficacia. Il problema risiede quindi nel giusto dosaggio dei due. E questo è vero soprattutto per i fear arousing. Appelli che “toccano le paure, le ansie, le convinzioni più intime dei destinatari della comunicazione e che sono perciò causa di maggiore resistenza se non di rifiuto del messaggio stesso73”. A questo proposito voglio ricordare un’affermazione di Kapferer, che mi sembra 71 G. FABRIS, La pubblicità…, op. cit., p.600.72 “Si tratta della cosiddetta rimozione difensiva. Fishbein osservò infatti che ai soggetti esposti all’appello stimolante un forte grado di paura erano state mostrate alcune illustrazioni di malattie dentali veramente repellenti e non comuni, e spiegato che un’igiene dentale insufficiente avrebbe portato a simili malattie. Secondo Fishbein, i soggetti probabilmente conclusero che, non avendo essi tali malattie, la loro igiene dentale on doveva essere insufficiente, e che pertanto non era particolarmente necessario modificare il proprio comportamento.” In G. CRONKHITE, La persuasione. Comunicazione e mutamento del comportamento, Milano, Franco Angeli, 1989, p.215.

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particolarmente calzante, che fa proprio riferimento a come, in realtà, i messaggi, pur caratterizzandosi per una loro modalità espressiva, in particolare, siano però il risultato di più variabili che interagiscono con quella “principale”, in questo caso, quella rappresentata dalla paura.

L’impatto persuasivo di un film che faccia appello alla paura, non può essere previsto sulla semplice base della conoscenza del livello di paura indotto. L’impatto dipenderà dalla combinazione delle variabili presenti, perché ogni combinazione avrà un effetto diverso sulle interferenze tra la reazione emotive e i trattamenti dell’informazione74. Ciò che intendo dire è che è assurdo stabilire aprioristicamente, a seconda del livello di paura presente, se i fear arousing funzioneranno o meno ma si dovrà, piuttosto, valutarne l’esecuzione che, in realtà, si concretizza in molteplici soluzioni. Qui di seguito riporterò alcuni esempi che ben sintetizzano le considerazioni qui sviluppate.

1. In primo piano, a tutto schermo, un “buco”. Una cavità che, scavata su una superficie di pelle umana, “parla” a stento. Emette una voce rauca, di difficile decifrazione. I suoni escono dalla trachea. Segue il claim: this space brought to you by the American tabacco industry.

E’ un messaggio indubbiamente forte in cui quel foro, le sue incomprensibili performances linguistiche, si fanno sineddoche dell’uomo. Del male di cui l’abuso del fumo lo rende vittima. La frase conclusiva traduce a livello verbale la sineddoche iconica del messaggio. Lo fa in modo drammatico. Lei, questa cavità dai suoni indecifrabili, è ridotta così grazie all’industria del tabacco.

2. Un uomo, sul letto di un ospedale, si porta al collo un piccolo strumento che consente di sentirne la voce. L’uomo canta “happy birthday”.

73 G. GADOTTI, La pubblicità a fini sociali, in M. LOMBARDI, Manuale di tecniche pubblicitarie, Milano, Franco Angeli, 1998, p.460.74 J.N.KAPFERER, Le vie della persuasione. L’influenza dei media e della pubblicità sul comportamento, Torino, ERI, 1982, p.84.

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Compare poi il seguente claim: happy birthday to the tobacco industry.It’s time we made smoking history.

E’ come se lo spot precedente trovasse in questo la sua naturale evoluzione. Siamo cioè passati da un particolare, all’inquadratura dell’uomo in tutta la sua fisicità. E’ un uomo triste, su un letto di ospedale. La sua voce non si sente se non grazie allo strumento che ne trasforma il rumore in suono comprensibile. Ancora una volta, in primo piano, le conseguenze che un abuso di sigari/sigarette possono colpire l’uomo. La celebrazione ossimorica del compleanno del proprio carnefice assume tinte macabre. Accentuate dalla frase finale: “è tempo che tracciamo la storia dell’industria del tabacco”. Una storia di dolore. La storia di un omicida.

3. Vengono intervistate una serie di persone che lavorano in un centro ospedaliero per la cura del cancro: medici, infermieri…Ciascuna racconta il proprio lavoro all’interno dell’ospedale.Compare il claim:nice people, but you don’t want to meet them.Keep smoking and just might.

Di nuovo uno spot contro il fumo. Qui il campo si allarga ulteriromente. Nello spot precedente avevamo – altra sineddoche - il letto di un ospedale ora invece ci troviamo di fronte alle persone che vi lavorano all’interno e agli spazi in cui operano. Si tratta di individui sorridenti, molto cortesi, votati, ce lo dicono le immagini, ad aiutare il prossimo. Sfilano davanti ai nostri occhi situazioni di tragedia che ritraggono i vari stadi che attraversa chi viene colpito dal cancro ai polmoni. Abbiamo così i dottori, con i ferri in mano, in sala operatoria; la parrucchiera che infila la parrucca al malato che, per essere stato sottoposto a chemioterapia, ha perso i capelli; l’infermiera che lava un malato con la schiena devastata dalle cicatrici conseguenti ad operazioni; e infine il prete che aiuta il sofferente a lasciare in pace questo mondo. In una sorta di tragico crescendo è dipinta la tragedia che spesso riguarda, purtroppo, chi fuma.

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Il claim contiene in sé una larvata minaccia. “Se continui a comportarti così, anche tu incontrerai queste persone”.Da questa serie di spot, tutti incentrati sul fumo, passiamo ora ad un’altra in cui l’argomento principale è la sicurezza stradale.

1. Primo piano di un uomo seduto in un bus. La vista di un bambino risveglia in lui dei ricordi. Primo flash, borsa rovesciata a terra.E’ appena uscito dal carcere e ha accanto a sé una scatola di cartone con i propri oggetti personali. Ricorda che guidava un’auto sportiva (lui elegante, con occhiali da sole) e che al fianco aveva una bella donna. Guidava veloce. Tanto che ad un stop non riesce a fermarsi finendo così con l’urtare l’auto, ferma, davanti a lui, ad uno stop. Esce dalla sua auto infuriato ma subito si preoccupa solo di constatarne le condizioni anziché accertarsi riguardo alla salute della guidatrice dell’altro veicolo.Quando finalmente si avvicina all’altra auto vede la donna piangere. Perché a causa sua, a causa della sua “spinta”, ha investito una donna che, col figlio, stava attraversando la strada. Il bimbo, ferito alla tempia, lo guarda desolato e chiama mammy la donna riversa sull’asfalto.Claim: the faster you go, the bigger the mess

E’ questo uno spot costruito su una serie di flashback che si innescano a partire dal momento in cui, in un bus, il protagonista vede un bambino. La sua struttura è simile a quella di un minifilm. In pochi secondi viene cioè messa in scena la tragedia capitata ad uomo la cui vicenda, tristemente, assomiglia a quella di molti altri individui vittime della sensazione di potenza che l’alta velocità sa regalare. Vittime di un miraggio. Gli ingredienti ci sono tutti. Ricchezza, bellezza, auto di lusso. Un auto che, come una droga, fa perdere al protagonista i contatti con la realtà. Il risultato è il cinismo. Un cinismo, uno spiccato individualismo che si esprimono nell’attenzione riservata unicamente alla propria auto e, viceversa, nell’indifferenza riguardo alle condizioni di salute della guidatrice dell’altra vettura.

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A risvegliare l’umanità dell’uomo quel corpo inanimato sull’asfalto e il cuore spezzato di un bimbo. Il cui ricordo viene richiamato alla memoria dal viso del piccolo incontrato nel bus. Il volto triste dell’uomo che, nel bus, ritorna a questi tristi momenti, esprime il pentimento e il dolore che hanno ormai segnato la sua vita. Il messaggio è che a questi errori, una volta commessi, non è più possibile riparare. L’invito è dunque alla prudenza. Prudenza sintetizzata nella frase che conclude lo spot e a cui ci richiamano i due comparativi in posizione perfettamente simmetrica.

2. Primo piano di una cornice gialla, con foto, in bianco e nero, su di una mensola grigia. La foto ritrae l’interno di un auto, ove compaiono un padre, al volante, alle cui spalle vi sono i suoi due figli che giocano felici. Improvvisamente un forte rumore. L’auto in cui viaggiano è stata colpita. L’uomo che, a differenza dei bambini, non ha le cinture di sicurezza, finisce con la testa contro il vetro infrangendolo.Claim: safety belts keep families together.

La cornice, con la foto da essa racchiusa, è una sineddoche per l’auto di cui si intravede solo l’abitacolo interno. E’ una cornice che rappresenta, simbolicamente, un attimo rubato allo scorrere del tempo e fissato in un immagine. Da lì parte il ricordo. Il ricordo di un momento felice. Un momento fatto delle risa di un papà coi suoi bambini. Un attimo bruscamente interrotto dall’impatto con un’altra auto. Una scena di gioia si trasforma improvvisamente in una scena drammatica. La testa dell’uomo sbatte contro il vetro che protegge la foto ma che è anche il vetro dell’auto in cui i tre viaggiavano.Una tragedia che si fa tanto più dolorosa in quanto evoca la pena, la sofferenza che deriva dalla rottura di legami così forti, dalla perdita di affetti tanto importanti. E la frase finale si pone proprio a conferma di tale considerazione. Sottolineando come l’allacciarsi le cinture di sicurezza possa impedire simili disgrazie. In qualche modo, la funzione di “legame”/”legante” garantita dalla cintura, rispetto all’auto, viene ribadita dal concetto di famiglia che si

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costruisce proprio su una rete di vincoli la cui “durata” fisica può essere garantita proprio da questo strumento.

3. Albero in mezzo al verde. Improvvisamente un gran rumore/urto lo scuote. Si allarga il campo e vediamo che un auto vi ha sbattuto contro. Musica da chiesa. L’auto ospita tre ragazzi. L’anima esce dai loro corpi. Mentre viene trattenuta a quello del ragazzo con la cintura.Claim: haven can wait belt up.

Di nuovo una campagna per la sicurezza stradale. Ancora un invito ad allacciarsi le cinture. Invito rafforzato dalla rappresentazione delle conseguenze cui si va incontro ignorando una simile raccomandazione. Si crea un ossimoro tra la bellezza e la calma del paesaggio e invece la tragedia che improvvisamente prende forma all’interno di questo scenario. La musica da chiesa è in sintonia con l’immagine delle anime che escono dai corpi. Immagini che si fanno metafora della morte. La frase che lo conclude è citazione del titolo di un famoso film (1943), di Ernst Lubitsh, intitolato proprio “Il cielo può attendere” e il cui protagonista si trova ad agire tra inferno e paradiso. Si stabilisce quindi un parallelismo tra il ragazzo, nell’auto, e il protagonista del film di Lubitsh: entrambe le anime vengono infatti rifiutate anche se per ragioni diverse. Il protagonista del film, Henry Van Cleve impenitente donnaiolo, una volta morto, si presenta alle porte dell'inferno, ma Lucifero, dopo avere ascoltato il suo rapporto autobiografico, ritiene opportuno mandarlo "in alto", vicino alle persone da lui amate.Mentre il ragazzo dello spot è respinto dal cielo alla terra perché, grazie alle cinture di sicurezza, in lui scorre ancora la vita.La differenza sostanziale risiede dunque nel fatto che, mentre, nel film, la morte del protagonista non dipende dallo stesso, in questa pubblicità è la scelta di mettere o meno la cintura a determinarne il destino dell’uomo.

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4. Gruppo di amici che beve lattine di birra in un momento di pausa successivo alla costruzione/riparazione di una casa. Sullo sfondo travi di legno e attrezzi da lavoro. C’è tra loro anche un ragazzino. Un signore, a un certo punto riceve una chiamata e deve quindi lasciare il gruppo. Se ne va col ragazzino di cui è, si presume, il padre a bordo di un camioncino che è lui stesso a guidare. Ma, arrivati ad un incrocio, il padre non si ferma. Vengono così entrambi uccisi dal camion che transita sulla via principale. La scena si sposta per tornare al luogo di “festa”. Il primo piano è su uno degli amici dell’uomo ucciso: riceve una telefonata cui risponde attonito. La moglie di quest’ultimo, ignara dell’accaduto, gli si avvicina, ironia della sorte, con delle lattine di birra. Claim:if you drink, then drive, you’re a bloody idiot.

In questo spot si parla ancora di sicurezza stradale, ma, in questo caso, l’imputato è l’alcool. Protagonisti una serie di amici che, su di uno spazio davanti alla casa di uno degli stessi, bevono delle lattine di birra. Qui è messa in scena la funzione socializzante che, da sempre, è attribuita all’alcool. Alcool come modo di legare più facilmente con gli altri, come strumento per abbassare le barriere. Gli effetti però sono tragici nel momento in cui, irresponsabilmente, si decida di mettersi al volante. Tra l’altro, il comportamento dell’uomo che si pone alla guida del camioncino è tanto più colpevole in quanto suo compagno di viaggio è il figlio. Colpisce l’immagine della donna, la moglie dell’amico che riceve la telefonata che lo informa dell’accaduto, dicevo colpisce l’immagine di questa donna che esce di casa con altre lattine in mano da offrire a coloro che sono rimasti. Sono loro le responsabili della tragedia e vederle fare la loro comparsa, dopo quanto successo, suscita rifiuto e imbarazzo.Durissima la frase finale in cui l’espressione “bloody idiot”, riferita all’irresponsabile guidatore, risulta quasi cattiva tenuto conto di quanto è avvenuto. Una raccomandazione dunque impietosa che sottolinea la stoltezza di un simile comportamento che rovina la vita propria e quella di altre persone.

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5. In primo piano l’interno di alcuni taxi dove salgono ragazzi ubriachi.Claim:If you drink then get a taxi, you’re a bloody genious.

Questo spot è invece la dimostrazione di come siano efficaci anche appelli che sviluppano argomenti positivi. L’espressione “bloody genius” iperbolicamente e ironicamente segnala l’eccezionalità di una scelta che, in realtà, dovrebbe costituire la norma di comportamento da seguire in casi analoghi.

B) nella pubblicità commerciale I fear arousing appeal sono però largamente impiegati anche dalla pubblicità commerciale. Esempi di un loro utilizzo si trovano tra le categorie merceologiche più disparate: dalle assicurazioni, ai fondi di investimento, ai prodotti per la cura del corpo.Ed è proprio, quest’ultimo, ossia il mercato per la cura del corpo a rappresentare uno dei settori nei quali la pubblicità ha fatto ampio ricorso alla “paura” per promuovere atteggiamenti o comportamenti a favore di un determinato prodotto. Si è cioè sfruttato il timore di non risultare sufficientemente attraenti, di apparire sgradevoli agli occhi dei nostri simili, di non essere accettati semplicemente per il mancato uso di un determinato prodotto o per una sua scelta sbagliata. Ecco quindi situazioni di grande imbarazzo come quella che ritrae una donna che, in un pullman affollato, viene evitata da tutti perché le sue ascelle emanano un cattivo odore. Sempre legato al cattivo odore sono due spot che vorrei qui ricordare perché particolarmente riusciti.

Il primo ritrae un gruppo di individui, in completo nero, probabilmente impiegati, che entra in un ascensore dal quale, a loro volta, esce un altro gruppo. Tutti tengono in mano un maialino. La voce fuori campo commenta: “gente che convive con i propri odori”. Da un altro ascensore escono invece persone che tengono in mano

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maialini di tutti i colori. Questa volta la voce dice: “gente che tenta di mascherare i propri odori”. E conclude, commentando invece, un numero di persone che esce da un ascensore senza nulla in mano: “fortunatamente c’è gente che usa “Byly”, crema deodorante che elimina gli odori”.

Il secondo riprende uno stadio. I tifosi si alzano a fare la ola. Ma quando si sposta la camera, improvvisamente, non si vede più nessuno. Tra tante sedie vuote compare un unico individuo che fa il tifo da solo, nessuno gli si è voluto sedere vicino. “Williams. Loves the skin. Hates the odor”.

Oppure tragiche previsioni di lunghe cure odontoiatriche prospettate a chi si è reso colpevole di una scarsa o inadeguata igiene dentale. L’igiene personale della bocca è il sorriso per chi viene caricato d’ansia nel non poter mostrare i propri denti che, come un profumo, erotizzano lo spazio e seducono; il deodorante è il passpartout per chi viene spaventato dal non sapere stare insieme al proprio gruppo; accessori, oggetti gioiello sono il symbol per chi viene minacciato di esclusione da quegli happy few che possiedono già lo status desiderato75.

In un mondo in cui l’apparire ha un ruolo sempre più centrale e rappresenta un tassello fondamentale nella costruzione della nostra immagine sociale è ovvio che messaggi che fanno leva sul nostro timore di venire esclusi dal gruppo, per la nostra inadeguatezza rispetto a determinati parametri di igiene o di gradevolezza estetica, hanno una considerevole efficacia. Il ricorso dunque a quel determinato prodotto diventa tanto più desiderabile in quanto promette la serenità di cui abbiamo bisogno per muoverci nella società, per rapportarci agli altri senza paura di non piacere.L’ansia, l’angoscia rappresentate prendono infatti le mosse da una minaccia rispetto alla quale siamo però anche immediatamente rassicurati dalla possibilità reale di contrastarle attraverso l’uso di un mezzo salvifico: il prodotto proposto.Prodotto che si fa sinonimo di sicurezza non solo, come nel caso appena descritto, per l’aspetto dell’uomo, per il suo corpo, in una parola per la sua immagine, ma anche per la sua salute e per la sua stabilità economica. Ecco allora tutta una serie di pubblicità che 75 AA. VV., Manuale di tecniche pubblicitarie, op. cit., 1998.

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propongono pneumatici per auto, air bag, fondi di investimento, assicurazioni ecc. Il messaggio ansiogeno è tanto più efficace quanto più riesce a placare il timore che ha suscitato nel pubblico prospettandogli immediatamente la soluzione ai problemi evocati.La pubblicità fornisce cioè gli strumenti, attraverso le informazioni che riguardano il bene promosso, per eliminare i nemici profilati. Spesso infatti, è soprattutto il caso delle creme anti-age, così in voga tra il pubblico femminile, si dipingono volti solcati dalle rughe. Per poi cancellare subitaneamente i segni dello scorrere del tempo attraverso l’uso di una crema particolare. Un simile approccio è tanto sfruttato che è quasi impossibile sfogliare una rivista femminile senza trovarne tracce significative. La forma più diffusa di pubblicità in questo senso propone – con piccole varianti – il volto di una donna diviso in due: una metà ha le rughe, l’altra, quella trattata, no. Esempio in tal senso la campagna a stampa di Vichy. “Per correggere le rughe, bisogna provocare la decontrazione della pelle. Myokine. Trattamento anti-rughe”. Il grado di vicinanza/rilevanza di un problema è in funzione del target di riferimento. E,infatti, si fa leva sulla debolezza della donna (ormai da secoli abituata a pensare – ahimé – che se non si cura l’uomo scappa), più suscettibile dell’uomo a problemi legati all’estetica. Cui contribuisce il confronto costante con i falsi modelli di donna, eternamente giovane, proposti dalla tv. L’accento è tutto, soprattutto in questi casi, sull’emotività. Se infatti la razionalità intervenisse queste signore capirebbero – basta guardarsi attorno – che purtroppo siamo tutti destinati a invecchiare e che i miracoli non esistono.

Altro spot che fa riferimento alla bellezza fisica della donna è il seguente. In primo piano un phon che si muove autonomamente nell’aria. Il foro da cui esce l’aria calda è infuocato. Segue una povera donna in accappatoio coi capelli bagnati. La poveretta si nasconde sotto un divano. La musica di sottofondo sa da thriller. Finché compare Imetec Ion che “asciuga idratando”.

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In questo caso il messaggio ansiogeno è fatto passare in modo divertente. Insinuando però, comunque, nello spettatore, la paura di rovinare i propri capelli usando un asciugacapelli sbagliato.E’ dunque uno spot molto ben riuscito poiché ha saputo giocare con le paure evitando quindi di spaventare il destinatario.

Nel campo delle compagnie di assicurazioni vale invece la pena di ricordare lo spot che vede quale protagonista un grande del cinema, Sean Connery, si trova a vivere una situazione in cui nessuno, a partire dal doorman che gli apre la porta dell’hotel, fino alle persone che incontra per strada lo riconosce. In un crescendo di fraintendimenti Connery perde le certezze che gli erano regalate dalla sua celebrità. Una voce fuori campo afferma: senza certezze noi non siamo nessuno. RAS ti aiuta a investire in un futuro in cui saprai chi sei. RAS costruttori di certezze.

RAS fornisce, a questo fine, una serie di servizi finanziari: pensioni, assicurazioni e un portaolio personale. Lo schema è dunque quello sopra schizzato. Si dipinge un futuro incerto, in cui l’individuo viene a trovarsi in situazioni di disagio, in cui si trova senza nessuna sicurezza ma gli si fornisce subito il modo per uscirne: RAS.

La fiaba La pubblicità “si ispira all’inesauribile serbatoio degli accadimenti dell’attualità, ai grandi archetipi universali trasfigurando in senso mitico la nostra quotidianità, attribuendo dignità e sovente una dimensione epica ai nostri comportamenti di ogni giorno76”. Un’affermazione questa che evidenzia come la pubblicità, di fatto, agisca sul materiale che le offre la realtà trasformandolo, traducendo la quotidianità in qualcosa d’altro. La pubblicità cioè, in fondo, da sempre, in tutte le sue forme, è una grande fiaba che spaccia per reali delle situazioni che invece sono così spiccatamente “rosa” da non poter appartenere che a una dimensione di sogno. Una dimensione che ci regala momenti di evasione dai problemi, dai conflitti, dalle tensioni della realtà. Pensiamo, ad esempio, al “Carosello” (il primo modello di pubblicità televisiva italiana) una sorta di minifilm che

76 G. FABRIS, La pubblicità, op. cit., p.18.

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raccontava di storie positive dove trionfavano i buoni e i giusti, individui/personaggi che agivano in un contesto dai contorni sfumati, irreali. Tanto che gli italiani consentivano ai loro bambini di vedere e di ascoltare il Carosello, prima di andare a letto, proprio come se si fosse trattato di una fiaba. Una versione moderna di quelle tradizionali che avevano propiziato il sonno di altre generazioni.Tuttavia se la pubblicità, in generale, è una fiaba nel senso, ripeto, di rubare pezzi di realtà rendendoli “magici”, va comunque sottolineato come esista una “struttura” caratteristica della fiaba vera e propria cui spesso la comunicazione pubblicitaria fa ricorso nella creazione degli spot. Ed è proprio ciò di cui ora voglio paralare.La fiaba è una forma di racconto tramandato, alle sue origini, oralmente. Un racconto la cui semplicità, da un punto di vista morfologico, strutturale ne consente la rapida memorizzazione e quindi, in seguito, la ripetizione, il passaggio da una bocca all’altra. Nel passaggio allo scritto questo tipo di narrazione si mantiene fedele a tali caratteristiche di comprensibilità e immediatezza che contribuiscono alla sua diffusione e popolarità.Come ha infatti sottolineato Propp, ne La morfologia della fiaba (1928), la fiaba non è altro che “qualsiasi sviluppo da un danneggiamento o da una mancanza (x) attraverso funzioni intermedie impiegate a mo’ di scioglimento”. In particolare, lo studioso individua, sul piano della sintassi narrativa, due ordini di grandezze:

- i personaggi coi loro nomi e i loro attributi sono grandezze variabili. Queste ultime costituiscono l’intreccio;

- le azioni compiute dai personaggi sono grandezze costanti o funzioni. Esse formano la composizione.

A partire cioè da un numero finito di funzioni - Propp ne ha individuate trent’uno – è possibile costruire una incredibile quantità di intrecci. Ciò significa quindi che sta al narratore intervenire liberamente sugli attribuiti dei personaggi, all’interno di una struttura che invece si ripete invariata nel tempo.

Applicando la teoria di Propp (1966) alla fiaba, si può dire che ogni comunicato pubblicitario si basa su variazioni fatte su schemi generali: come le fiabe raccontano sempre una stessa storia con lo stesso finale (nelle fiabe non manca mai “e tutti vissero felici e contenti”), così in pubblicità, l’uomo arriva alla soddisfazione del suo desiderio dopo aver acquistato ciò

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che desiderava. Ma il parallelo potrebbe continuare: il racconto delle fiabe prevede gli stessi personaggi (il cattivo, l’ero, ecc.), e nella pubblicità vengono usate figure stereotipiche chiaramente codificate, che hanno il vantaggio di riuscire a rendere in pochissimo tempo personaggi, situazioni e quindi storie77.

Una forma narrativa dunque, quella della fiaba, che incontra tre esigenze fondamentali della comunicazione pubblicitaria, ossia: sinteticità, chiarezza, memorabilità.Gli spot che si costruiscono su elementi fantastici, che ci introducono in un mondo attraente in cui domina il bene e tutti sono felici, seguono proprio, quanto a forma narrativa, il paradigma delle funzioni proppiane. In cui, ad esempio, il prodotto è il mezzo magico che consente di risolvere le situazioni oppure l’aiutante, che scioglie i problemi, è personificazione della marca. La fiaba è un racconto in cui il meraviglioso78 costituisce la caratteristica fondamentale di una narrazione che parla di fatti che non appartengono al reale. Ecco allora uomini che volano come uccelli, orchi, streghe, fate, animali che parlano, oggetti animati e così via (tutti ingredienti di cui pullula la pubblicità). Insomma una specie di ribaltamento del reale in cui l’impossibile si trasforma in realtà. La fiaba ci consente perciò di sottrarci, momentaneamente, alla nostra finitudine per immaginarci parte di un mondo in cui esistono uomini dotati di poteri tali da dominare la natura stessa. E’ un mondo migliore dunque quello che ci consegna, un mondo dove trionfano la giustizia e la solidarietà, dove le azioni dell’uomo onesto sono coronate dal successo. E’ il mondo dell’“happy end”, del lieto

77 F.R. PUGGELLI, L’occulto del linguaggio. Psicologia della pubblicità, Milano, Franco Angeli, 2000, p.39.78 Mi rifaccio qui alla distinzione di Todorov tra fantastico e meraviglioso. Dove il primo si identifica con l’incertezza, il senso di smarrimento, di turbamento che l’uomo prova di fronte al verificarsi di un evento anormale all’interno della realtà cui è abituato. L’individuo cioè percepisce una realtà altra che si manifesta in forma insolita, che non si presta ad alcun tipo di analisi perché egli di fatto non è attrezzato, non dispone di categorie che gli consentano di decifrarla.Diverso è invece il meraviglioso. Il lettore infatti non si stupisce cioè rispetto ad oggetti e ad eventi spettacolari e insoliti perché sa che il mondo in cui si realizzano è governato da altre leggi. Fin dall’inizio è consapevole di confrontarsi con una dimensione altra.

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fine: è il mondo della pubblicità. Pubblicità il cui discorso ha quasi sempre (fanno eccezione gli spot della pubblicità sociale) una connotazione euforica79 che si concretizza proprio nella felice conclusione di tutte le vicende rappresentate. In particolare, il prodotto, negli spot che fanno uso di questa forma di racconto, viene associato strettamente alle sensazioni/emozioni positive di soddisfazione e di appagamento che sono parte dello svolgimento della storia. Lo spettatore si trova così di fronte a una situazione piacevole, accattivante e alla possibilità di impadronirsi del mezzo, ovvero il prodotto pubblicizzato, per tradurla in realtà, per replicarla nella vita di tutti i giorni.Da non dimenticare poi che la fiaba regala sensazioni buone, positive, fa sognare. Tanto che, a Natale, un periodo legato a valori positivi, in cui tutti siamo o dovremmo essere più buoni, le pubblicità fanno gran ricorso alla fiaba. Esemplare per tutte la Coca Cola che, tra l’altro, riporta proprio Babbo Natale su tutti i suoi prodotti. Il motivo è semplice. In un clima di euforia, di buoni sentimenti nessun linguaggio meglio di quello della fiaba può parlare al pubblico. Forse il lettore non sa che l’abito di Babbo Natale, bianco e rosso, è stato addirittura inventato dalla Coca Cola. La fiaba è sinonimo di sogno a occhi aperti. Ci rassicura, ci consola delle brutture della vita quotidiana regalandoci momenti di gioiosa libertà. Non esistono più limiti temporali, né spaziali, né vincoli legati alla nostra, ahimé, fragile umanità. Tutto si tinge davvero di polvere di stelle. Proprio come gli omonimi biscotti del Mulino Bianco. Racconto qui di seguito lo spot.

Una mamma, improvvisamente, mentre i bambini dormono, si trasforma in Mary Poppins e vola nel cielo stellato, con un magico ombrellino, per raccogliere, in una borsa, le stelle. Stelle che poi si stenderanno sui biscotti che al mattino porterà ai suoi piccoli. L’elemento magico ha qui dunque un ruolo di primo piano. E l’associazione di un’esperienza fantastica, ossia il volo nello spazio per catturare le stelle, che poi compariranno sui biscotti, a un prodotto comunissimo regala a quest’ultimo un’aura di magia. Ossia una capacità di distinzione rispetto a altri prodotti simili, tutta giocata

79 U. VOLLI, Semiotica della pubblicità, op. cit., p.26.

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sull’evocazione di una rete di emozioni collegate alla positività della fiaba.In questo caso poi, la fiaba messa in scena richiama al concetto di famiglia caro alla tradizione del Mulino Bianco. Si recuperano cioè indirettamente anche i valori di ingenuità, di purezza legati al periodo infantile e assecondati da una mamma che riesce addirittura a vestire i panni di una sorta di fatina per far felici i suoi bambini.L’headline “mangia sano, vivi meglio” si fa emblematica di una condizione in cui realtà e immaginazione si confondono. I prodotti del Mulino Bianco diventano altrettante possibilità di realizzare i propri desideri, di entrare in un sogno. “Vivi meglio” non è altro che il traslato del “e vissero tutti felici e contenti” della fiaba.Quella di far uso della forma narrativa della fiaba è una strategia molto frequentata dal Mulino Bianco che se ne è servito in parecchi spot. Utilizzando, tra l’altro, largamente, anche la citazione (nel caso dello spot appena analizzato, Mary Poppins). Citazione di fiabe famose, fiabe che appartengono all’infanzia di tutti noi e che quindi stabiliscono un contatto immediato con la sfera emozionale tanto dei piccini che degli adulti. Citazione che si fa iperbole di quella rappresentazione dei desideri che, di fatto, le fiabe mettono in scena. E’ come cioè se al setting, già di per sé magico, della fiaba si aggiungesse, a suo rinforzo, il fascino del personaggio e delle azioni del personaggio protagonista di un racconto conosciuto. Il prodotto cioè può contare non solo sulle emozioni che suscita al momento della sua visione, in quel contesto particolare, ma anche su quelle che risveglia e che sono tanto più dolci in quanto legate a momenti di svago, di sogno appartenenti a un dolce passato (adulti) o a un caro presente (bambini).

Qui di seguito racconto alcuni spot del Mulino Bianco.1. Si apre un grande libro – come una sorta di format narrativo che ci introduce nel mondo delle fiabe - sulla cui copertina è raffigurato il Mulino Bianco. Al suo interno si muove Alice (“Alice nel paese delle meraviglie”) che toglie la maschera di coniglio a un bel principe.2. Biancaneve porta i saccottini a sette bambini – allusione a “I sette nani”, ovviamente – che vivono in una sorta di casa-giocattolo, al

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cui interno c’è un forno coi pulsanti colorati. Improvvisamente un bimbo si sveglia da un sogno.3. Una Cenerentola moderna è la sarta di modelle arroganti. Ma un fotografo, sul luogo per ritrarre le modelle, rimane colpito dalla sua bellezza. Si sposano e lei appare vestita di bianco con la scarpina di vetro in mano.4. Uomini, apparentemente normali, lavorano in un forno dove producono biscotti enormi che poi trasportano su un camioncino. Il mistero è presto svelato. La consegna è a uomini di statura normale da parte di lillipuziani. Ovvio il riferimento ai Viaggi di Gulliver.5. In mezzo ad un bosco c’è una casina rossa circondata da cervi, uccelli e altri animali. Al suo interno una ragazza bacia un ragazzo e poi entrambi mangiano dei dolci (Nastrine). Infine lei indossa una mantella rossa col cappuccio e lui un giubbotto in pelle nera che porta l’immagine del leone sulla retro. Partono assieme in moto. Si tratta di una evidente rivisitazione di Cappuccetto Rosso.6. Una mongolfiera si sposta attraverso vari paesi. In primo piano un quaderno su cui compare una crocetta in corrispondenza del numero ottanta. Il riferimento è a “il giro del mondo in ottanta giorni”. I due ospiti della mongolfiera, padre e figlio, si stanno finalmente avvicinando a casa attraverso tetti su cui spicca una bandierina col galletto. A casa li attende la rispettiva moglie e madre con un vassoio di biscotti galletti. 7. Dei bambini giocano a pallone. Ma ad un certo punto questo resta impigliato tra i rami di un albero e allora Shreck e il suo amico asino li aiutano a riprenderlo. Poi tutti mangiano le merendine chiamate flauti. Questo e il seguente sono esempi di spot che si citano una “fiaba” moderna, quella che ha, appunto, per protagonista un mostro verde che ama mangiare cose disgustose e vivere nel lerciume. Un mostro che sovverte tutti i modelli classici di fiaba di cui ne rappresenta, con le sue avventure, una chiara parodia. 8. Di nuovo Shreck che vola, su di un drago, per prendere con sé dei bambini e portali a fare colazione in sua compagnia.

La fiaba è, però, lo ripeto, largamente impiegata da tutta la pubblicità. L’aver scelto Mulino Bianco dipende esclusivamente dal fatto che questa brand ne ha fatto uso in modo sistematico per un

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lungo periodo che, tra l’altro, continua tuttora. Cosa che è evidente dallo stesso numero di spot, e sono solo alcuni, che ho qui ripreso a mo’ di esempio.Vale la pena di raccontare lo spot, realizzato da “Infostrada”, che si serve della fiaba in modo divertente. La comicità assume, in questo caso, un ruolo di primo piano.

Compare un omaccione, seguito, a cavallo, da molti altri individui. Viaggiano in mezzo al deserto, indossano turbanti e al loro fianco tengono delle spade. Improvvisamente si fermano dinnanzi a una montagna, alla cui base sembra esserci una specie di porta di pietra, bloccata. Il più grosso, quello che guida il gruppo e che ha evidentemente un ruolo di leader, urla: “Apriti Teramo!”. Ma nulla, la porta non si apre. Interviene un suo soldato che gli suggerisce “sedano”. Ancora nulla. Finalmente si fa avanti un altro soldato, più giovane rispetto agli altri, che ha con sé un portatile. Digita qualcosa ed ecco che compare la storia di Alì Babà e i quaranta ladroni. La parola magica è “sesamo”: la porta si apre. “Infostrada 2001. Digita www.iol.it. ti si apriranno porte che non avresti mai pensato.

Lo spot, realizzato da un grande regista, Emir Kusturika, gioca con le nostre conoscenze, con i nostri ricordi. Saremmo infatti quasi tentati di intervenire quando Alì Babà non pronuncia la parola giusta. Noi la conoscevamo fin dall’inizio. Intrigante la frase “ti si apriranno porte che non avresti mai pensato”, poiché da una parte richiama la fisicità della porta aperta da Alì Babà e dall’altra allude alla possibilità di accedere a mondi diversi grazie a internet che, come la fantasia e la fiaba ci fa entrare in realtà a noi sconosciute.

L’inversione dei ruoli Quando parliamo di “inversione dei ruoli” il primo nome che ci viene alla mente è indubbiamente quello di Esopo (620-560 A.C.). Autore di numerose favole (gliene sono attribuite quattrocento), Esopo fa uso di questo stratagemma frequentemente. Le sue favole, i cui protagonisti sono animali, cose, piante che parlano e si comportano come esseri umani, hanno una forte tensione etica che si

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materializza in una conclusione in cui vengono dati degli insegnamenti/indicazioni di tipo morale. In qualche modo, Esopo trasla all’impianto narrativo uno dei concetti su cui poggia l’intera retorica, quello cioè di tropo. Ossia l’uso di un termine in modo “imprevisto”, che devia cioè dalla norma. A tale riguardo si parla anche di straniamento intendendo proprio sottolineare la forte componente di novità di cui improvvisamente una parola o una frase e quindi il concetto o il pensiero che veicolano si trovano investite. La lingua supera i suoi limiti, la sua finitezza arricchendosi delle infinite e impreviste sfumature che le regala l’uso, in senso figurato, di termini opacizzati dalla consuetudine.Esopo segue lo stesso principio. Vestendo cioè animali, cose, piante di attributi umani mette in rilievo, ci spinge ad osservare comportamenti, vizi e virtù che abbiamo abitudinariamente sotto gli occhi ma che non riusciamo a percepire perché ormai la consuetudine ce li porge in una maniera assolutamente prevedibile. Decontestualizzando invece questi ultimi, trascinandoli in una sfera che non appartiene loro, ci obbliga ad accorgercene e a rifletterci sopra. Ritrovare questo procedimento in campo pubblicitario non può certo meravigliarci. Sappiamo infatti che tra gli obiettivi primari di questo metagenere vi è, sempre più, proprio quello di catturare e mantenere, all’interno di un ormai babelico bombardamento di messaggi, l’attenzione del pubblico. Il ciceroniano docere, movere, delectare trova nell’inversione dei ruoli un suo strumento di realizzazione. Tre sono gli effetti positivi:

1. il pubblico si diverte nell’assistere a un sovvertimento parodico – è il medesimo principio che guida il bambino a imitare l’adulto nel modo di fare o vestirsi – di modelli vecchi di secoli e, per forza di cose, inalterabili;

2. il pubblico trae piacere, lo stesso che regala il carnevale, dal ribaltamento paradossale di qualsivoglia norma;

3. il pubblico viene sorpreso, e quindi catturato, dal messaggio che viola in modo evidente ogni aspettativa.

L’inversione dei ruoli (è noto l’assioma giornalistico che il cane che morde un uomo non fa notizia, come invece se è l’uomo a mordere il cane) consente cioè di rappresentare banali scene di vita quotidiana

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sotto una luce nuova. Colora di interesse situazioni logorate dalla monotona ripetitività.In particolare, vorrei qui ricordare quattro pubblicità che esemplificano questa mia rapidissima riflessione sull’inversione dei ruoli.

1. Padre e figlio scendono lungo una gradinata. Il padre dice al figlio: “Non preoccuparti. Finirà velocemente. Ascolta. Se non ti lavi bene i denti, ti verranno le carie. Se hai paura semplicemente fallo e dimostrerai quanto sei coraggioso”. Dopodiché i due si scambiano un gesto di ok. Poi, il bimbo sembra guardare con interesse/preoccupazione due uomini che perforano il suolo col trapano. Quest’azione sembra cioè rimandare a quanto forse lo aspetta dal dentista.I due si danno la mano e poi riprendono a camminare. Una anziana signora, che sta pulendo il marciapiedi davanti a casa, chiede al piccolo dov’è diretto e il papà risponde che stanno andando dal dentista. La signora appoggia allora la mano sulla testa del bimbo e gli dice che non soffrirà perché avrà il papà vicino a lui. Finalmente i due giungono a destinazione: viene inquadrata la porta del dentista, quindi l’interno dove i due sono seduti l’uno vicino all’altro. Il bimbo legge mentre il papà dice che limeranno il dente e che quindi sentirà un po’ di dolore. L’inquadratura è poi sul bimbo sempre molto serio. Si sente quindi la voce dell’infermiera, ma ad alzarsi è l’adulto, il papà. Allora il figlio lo chiama e con la mano fa il gesto dell’ok cui il padre ricambia allo stesso modo. Una voce fuori campo afferma che i problemi dentali tra gli adulti sono in aumento. Quindi il padre del piccolo viene ripreso di spalle mentre alza la mano“Clinica Lion con enzimi previene il deperimento dei denti e aiuta a promuovere una buona salute dentale”.

In questo spot è presente una forte componente di comicità, come del resto accade spesso quando abbiamo un’inversione dei ruoli. La spiegazione è semplice. Ed è la stessa che anima lo spirito del carnevale. Ossia il desiderio di rompere con le convenzioni, con le regole, di liberarsi, attraverso il riso, dei ruoli che siamo costretti a recitare ogni giorno nella nostra società. Ci sbarazziamo delle nostre

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abituali maschere per indossarne altre. Altre che però non ci appartengono, che sono assolutamente incongrue con la nostra realtà. Diceva Propp, a proposito della comicità, che il riso viene provocato dalla scoperta di un qualche difetto nascosto. E quale modo migliore di metterlo in evidenza decontestualizzandolo? Facendolo rappresentare a chi solitamente non ne è toccato perché di natura, posizione, sesso diversi? Propp sottolinea inoltre come l’uomo possiede un certo istinto del dovuto, di quello che egli ritiene la norma: queste norme riguardano tanto l’aspetto esteriore che le norme della vita morale e intellettuale. E che dire allora di un bambino che consola il papà? Secondo le norme della nostra società l’adulto ha più esperienza e quindi più saggezza di un bambino, di conseguenza deve essere per forza di cose il primo a sostenere il secondo e non viceversa. Qui invece abbiamo un sovvertimento del senso comune, poiché accade esattamente il contrario.

2. La terza ha per protagonisti delle donne coi loro figli. I piccoli cercano di imboccare le loro mamme con un cucchiaio di yogurt ma queste storcono la bocca nel tentativo di sottrarsi a un alimento senz’altro naturale ma non appetitoso. Un comportamento questo che è solito dei bambini piuttosto che degli adulti. A sottolineare la paradossalità di una simile situazione è la voce fuori campo che recita: “i bambini stanno insegnando ai loro genitori come seguire una dieta più naturale (children are teaching how to follow a more natural diet their parents)”. Insomma un’inversione che vede l’adulto restio a seguire un’alimentazione sana proprio come di solito fanno i bambini che preferiscono i dolci, gli hamburger e le patate fritte a frutta e verdura.Considerazioni analoghe alle precedenti.

3. In primo piano, singolarmente, in successione, parecchi animali: una rana, un cavallo, un’oca, un cervo, una tartaruga, un gatto, una capra, ecc… La cosa singolare è che tutti hanno una sigaretta in bocca: gli animali fumano. Una voce fuori campo afferma: “if you think this is ridiculous remember smoking is just as natural for you as for them”.

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In questo caso invece alla comicità si sostituisce l’ironia, al riso subentra il sorriso. Subentra cioè la riflessione sull’esistente. La frase di commento alla sequenza di immagini contiene è di chi si pone in modo critico rispetto al reale. L’invito è ad andare oltre l’abitudine, oltre le nostre comode certezze per porci invece, rispetto al reale, in modo dialettico, interrogandolo. Ecco allora che ne esce l’amara constatazione che, in fondo, la natura non ha creato neanche noi, esseri umani, con la sigaretta in bocca. Il nostro comportamento è tanto scorretto, sciocco, ridicolo quanto il loro. E forse anche di più, dal momento che noi abbiamo la ragione per evitare di commettere simili errori.

4. Musica jazz in un’auto su cui viaggiano tre giovani vestiti da rapper. Tutti e tre portano bandana, hanno molti anelli e due indossano occhiali da sole. In prossimità di un incrocio, in cui c’è un pedone che attende per attraversare, cambiano musica e mettono il rap. Anche i loro movimenti nel seguire la melodia e l’espressione dei loro visi mutano conformemente al nuovo cd. Compare una scritta che dice: It’s that time of the year. San Francisco Jazz Festival.

Qui l’inversione avviene attraverso il ribaltamento dello stereotipo secondo cui la gente vestita in un certo modo dovrebbe avere determinati gusti ed abitudini. Evidentemente non è così. E il sorriso che ci balena sulle labbra è a conferma del nostro adeguamento alle convenzioni. Di cui sono, ahimé, vittima gli stessi protagonisti dello spot costretti a cambiare musica per non venir meno all’immagine che di loro ha la gente. Pena la mancanza di rispetto.Mi sembra di poter affermare, attraverso questi esempi, che l’inversione dei ruoli è un linguaggio altamente polisemico. Polisemia che gli deriva dalla rappresentazione di situazioni che rovesciandosi, ribaltandosi, vanno a toccare una molteplicità di convenzioni, di stereotipi, di sensibilità che inevitabilmente lo colorano di variegate e intriganti sfumature.

Lo straniamento

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Un uomo guida un’auto, una Mazda: è notte e piove a dirotto. L’uomo è talmente stanco che cede al sonno. La sua testa si appoggia pericolosamente al volante. Arriva ad un incrocio e rischia di scontrarsi con un camion che lui, ovviamente, essendo addormentato, non ha visto. Solo il caso lo salva. Si sveglia infatti in tempo per sterzare evitando un incidente probabilmente mortale. Ha il viso sconvolto, ma continua a guidare. Percorre una strada semideserta. Finché, probabilmente per la stanchezza, si ferma sul ciglio della stessa. Ma, anziché bloccare l’auto, volontariamente, più volte, la dirige contro il palo della luce che si trova davanti a lui. Improvvisamente, l’ultimo urto, è molto forte, esce l’airbag. L’uomo vi appoggia il viso, come fosse un cuscino, e dorme. “An airbag can save your life”.

Il finale di questo breve “racconto” non può che cogliere di sorpresa lo spettatore. L’andamento della narrazione fa infatti prevedere una conclusione molto diversa e sicuramente più realistica. Nulla lascia presagire un simile sviluppo dei fatti. Come “lettori” del messaggio noi facciamo infatti riferimento a un’enciclopedia che ci viene dall’esperienza del reale, con tutte le sue declinazioni, e dalla frequentazione di “testi”, mediali o meno, che ci hanno familiarizzati con certe situazioni insinuando quindi in noi un determinato ventaglio di possibili soluzioni entro cui muoverci. Un uomo, al volante, con un simile comportamento non può che far pensare ad uno spot sociale che intende evidenziare i danni derivanti, dall’uso di alcool o droghe, a chi, irresponsabilmente, si metta alla guida di un’auto. Secondo tale interpretazione si tratterebbe di un invito alla prudenza. Ma che dire quando l’uomo, dopo essersi fermato, va ad urtare più volte contro un palo elettrico?!? Non sappiamo che pensare. Che senso ha una simile pubblicità? Iniziamo col dire che, come “lettori”, assumiamo un atteggiamento diverso a seconda del genere a cui ci troviamo di fronte. E’ in sostanza il cosiddetto patto narrativo in nome del quale il lettore/spettatore/ascoltatore accetta di partecipare a quanto gli viene narrato per immedesimarsi e quindi partecipare attivamente alla storia che gli viene raccontata a seconda delle convenzioni, dello stile, della struttura che la caratterizzano. Se cioè stiamo leggendo un giallo ci poniamo nei panni di spettatori/detectives, ci aspettiamo che

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ci siano uno o più colpevoli e che alla fine vengano scoperti. Se, ed è questo il nostro caso, ci troviamo invece di fronte al metagenere pubblicità, ci aspettiamo, da lettori/consumatori perfettamente coscienti, critici e disincantati che ci riveli prima o poi qual è il vero protagonista del suo messaggio. Cosa cioè intende promuovere, cosa vuole portare alla nostra attenzione. Beh, in questa precisa situazione ci troviamo disorientati: siamo spiazzati. Non ci è mai capitata una cosa del genere e non ce la saremmo mai nemmeno immaginata. Supera addirittura la nostra fantasia. Ci coglie di sorpresa. E’ lo straniamento o spiazzamento. Uno strumento di straordinaria importanza per la pubblicità poiché tale da suscitare interesse nel destinatario grazie a un tipo di comunicazione che rifiuta l’abitudine, le convenzioni per coinvolgere il proprio destinatario all’interno di un meccanismo che gli proporrà situazioni che rompono con le consuetudini e sanno per questo suscitare emozioni. Il pubblico non può infatti assistere passivamente, ad esempio, allo spot che ho sopra descritto. E’ probabile invece che dapprima si spaventi o si dispiaccia o provi un forte senso di biasimo verso un individuo che, a causa del suo comportamento irresponsabile, rischia la propria vita e quella di altri esseri umani, e che poi avverta una certa inquietudine rispetto a un situazione che non sa spiegare, ma che sembra trovare, forse, l’unica ragione nella pazzia. E’ in fondo lo stesso meccanismo che guida Hitchcock nella realizzazione dei suoi film (si pensi, ad esempio, a Psycho). Lo spettatore è cioè condotto attraverso una rete di relazioni, di descrizioni apparentemente comprensibili. Avverte però una sensazione di disagio man mano che l’azione si sviluppa. Aumenta la tensione, cresce la suspense. Fino a quando quest’ultima, improvvisamente, esplode e fa la comparsa l’elemento dirompente. Ossia un qualcosa che spiazza tutte le nostre ipotesi/aspettative. Tornando alla comunicazione pubblicitaria è il caso dunque di sottolineare che se, , come più volte è stato evidenziato, compito della pubblicità è anche “movere”, allora direi che con lo straniamento ci siamo proprio. Ed è un movere di tanta più forza e attualità se pensiamo che questo che stiamo vivendo è proprio il secolo della complessità e della turbolenza. All’interno delle quali vive e con le quali ha imparato a rapportarsi e ad interagire il consumatore postmoderno. Un individuo ormai avezzo a muoversi, a

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districarsi “nella discontinuità, pluralità, disordine, ambiguità, paradosso, molteplicità delle verità, fluidità, libertà che definiscono la condizione postmoderna80”. Nella quale “si verifica uno shift dall’emisfero sinistro – logico, deduttivo – verso quello destro – emotivo, intuitivo- […], e si realizza un inedito protagonismo, nel vivere sociale, delle emozioni. […] con cui la marca deve essere in grado di flirtare81”. E’ un consumatore che ha rinunciato al primato della razionalità a favore invece di una polisensorialità diffusa che lo porta a confrontarsi con il diverso, con l’incongruo, con l’imprevedibile in una condizione di assoluta apertura. Un individuo che ama giocare col reale, che non accetta più passivamente così come gli è stato consegnato dalla modernità ossia irretitito dai miti della scienza, dell’ordine, dell’intelleggibilità ma che, anzi, scava proprio nei suoi aspetti più contraddittori, inediti. E la pubblicità che si fa interprete dello spirito del tempo, che assorbe miti, riti, valori dalla società che la nutre non può che farsi specchio e veicolo di tale sensibilità. E a questo può arrivare attraverso un meccanismo, appunto lo straniamento, che si concretizza bene nelle parole di Rubicam, fondatore dell’agenzia “Young & Rubicam” che sostiene “make the familiar strange and the strange familiar”. Indicando così una delle strategie principali che la pubblicità deve seguire per imporsi all’attenzione del pubblico. Straniamento come modo per rendere affascinanti e accattivanti situazioni altrimenti logorate dalla pigrizia delle abitudini. Spesso servendosi di una sequenza di immagini insolita, come in questo caso, per connotare la parola. Dire infatti che un “airbag ti può salvare la vita” non significa pronunciare nulla di originale. In molti l’hanno già sostenuto. Tanto che saremmo tentati di rimuovere un messaggio in fondo straabusato e con esso il ricordo della marca associata. Tutte le auto hanno l’airbag e tante altre pubblicità ce lo dicono. Ma a colorare il brand “mazda” non è l’headline quanto piuttosto il ricordo di un episodio assolutamente fuori dell’ordinario di cui lei è protagonista. A farci ricordare la marca sono le emozioni associate a questo strana rappresentazione di un fatto assolutamente lontano da ogni nostra esperienza. Straniamento dunque come

80 G. FABRIS, Il nuovo consumatore: verso il postmoderno, op. cit., p.38.81 Ivi, p.91.

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antidoto per non cadere in quella prevedibilità-ripetitività che sono i nemici di una pubblicità di successo.

La pubblicità fa uso abbondante di tecniche che un tempo erano patrimonio esclusivo del mondo artistico e la sua abbondante offerta vive principalmente di un solo gesto e di un nome antico: straniamento. Lo straniamento è un vecchio arnese teorico dei formalisti russi; a suo tempo anche Bertold Brecht tentò di impadronirsene per “reclamizzare” il suo teatro politico. Come si sa, la consuetudine ci vieta di vedere, di sentire gli oggetti, bisogna in qualche modo deformarli se si vuole che possano catturare ancora la nostra attenzione; il fine delle convenioni artistiche e, più in generale, comunicative, sta proprio in questo: sconfiggere l’abitudine.Ma anche le convenzioni, se le si accettano, finiscono col facilitare l’automatismo anziché distruggerlo. Ogni comunicatore conosce una regola fondamentale. L’informazione recata da un messaggio diminuisce via via che ne aumenta la probabilità. Per questo sia il linguaggio creativo che la pubblicità hanno come compito statutario quello di stupire. “Stupire” deriva dal latino stupere che significa, appunto, “sbalordire”, impressionare, “sorprendere”. La quotidianità - soprattutto oggi che viviamo in una condizione di agiatezza visiva, di eccedenza di offerta – rende opaco ogni messaggio, confonde ogni risposta.Insomma, bisogna convincersi che la pubblicità non consiste nel presentare cose nuove, bensì nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità. La percezione è tutto, la cosa (i contenuti, gli argomenti, i temi) niente. Ecco perché la pubblicità, all’interno della programmazione televisiva, si è assunta anche il compito di sfuggire all’omologazione, il peggiore nemico di ogni identità nazionale82.

Viene in mente il testo di Jean-Marie Dru che, nel titolo, ben riassume quanto sto dicendo riguardo allo straniamento/spiazzamento, ovvero: Disruption. Il sovvertimento delle convenzioni e il risveglio del mercato83. Titolo in cui sono contenuti alcuni concetti chiave che svilupperò qui di seguito. Innanzitutto sovvertimento rimanda al potere dirompente con cui idee davvero innovative reinventano l’esistente. Nel nostro caso le brands.

82 A. GRASSO, Introduzione, in AA. VV., La scatola nera della pubblicità. Il linguaggio, op. cit., p.XIX.83 J.-M. DRU, Disruption. Il sovvertimento delle convenzioni e il risveglio del mercato, Milano, McGraw-Hill, 1996.

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Se le società e le marche non attuano la disruption, corrono il rischio che i consumatori si facciano smaliziati e perdano ogni interesse nelle marche. Con la disruption, il loro interesse e fedeltà si rinnovano. Questo è il risultato finale della disruption. Porta le persone a pensare in modo nuovo a una marca, a rinfrescarsi le idee al riguardo. La disruption pungola, vitalizia le tanto amate, le riporta alla ribalta. È bello vederne il nuovo vigore e dinamismo. Se i consumatori già le amavano, ora le amano di più84.

La disruption si realizza infatti in tre fasi: convention, disruption (appena descritta), vision.Entrano quindi in campo altri due termini del titolo del testo di Dru: “convenzioni” e “risveglio”. Dru suggerisce infatti di individuare le convenzioni, ossia abitudini e costumi tanto radicati da non essere più messi in discussione, e di ribaltarle. O meglio di usarle come altrettanti punti di partenza per creare nuove strategie. Si tratta quindi, effettivamente, di “risvegliare” il mercato dalle consuetudini, per metterlo invece di fronte all’inconsueto, al non codificato. Il tutto si trasforma in linfa vitale per prodotti ormai così omologati da rischiare di cadere nell’indifferenza. È come se la comunicazione pubblicitaria vestisse il bene di un filtro che ne trasforma la normalità/banalità in eccezionalità.La disruption è il salto creativo, è un passo verso il futuro, è il coraggio del cambiamento.Si parte dunque da una convenzione

e poi si cerca un modo per romperla, ma [bisogna] rimanere fedeli alla marca e all’immagine che [si vuole] ne [abbia] il pubblico. Occorre quindi prefigurarsi con molta chiarezza la visione della marca a lungo termine. La visione […] è la raffigurazione di dove sarà la marca nel tempo, in una più ampia e ambiziosa misura85.

Insomma straniamento come strumento di defamiliarizzazione/rivitalizzazione della marca. Il che rimanda anche al pensiero laterale che De Bono definisce “come la capacità di cambiare schema, di vedere le cose in maniera diversa. [e sottolinea come] occorra animare il pensiero e utilizzare gli strumenti

84 Ivi, p.70.85 Ivi, p.56.

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del cambiamento: l’errore, il caso e l’Umorismo86”. Con l’aggettivo laterale De Bono intende proprio puntare sulla non sequenzialità che caratterizza un tipo di ragionamento che combina aspetti tra loro distanti dell’esistente per creare nuove percezioni. La creatività è dunque uscire dai binari consueti, impegnarsi in nuovi percorsi. Si tratta di guardare alle cose in una nuova prospettiva.

Faccio qui di seguito alcuni esempi di spot che usano lo straniamento. In mezzo alla savana si muove un grosso camion su cui viaggiano degli uomini di colore. Più precisamente uno è al volante e altri tre sono seduti sul tetto del veicolo. Trasportano qualcosa. Parlano e dicono che è tutto sbagliato, perché la città non è il posto adatto a loro. Sono infatti costretti a stare a lungo fermi. Non hanno vero spazio per muoversi. Da quanto affermano dunque e dalle dimensioni del mezzo di trasporto, supponiamo si tratti di un animale di grossa taglia. Ci sentiamo confermati quando il camion si arresta e gli uomini scendono. Aprono infatti la parte posteriore del veicolo, con molta cautela, tenendosi a distanza dall’“uscita”. Provengono dei suoni simili a un ruggito. A ulteriore conferma giungono le osservazioni che si scambiano gli uomini circa il loro stare meglio lì, dove possono correre liberi. Improvvisamente esce una SUV: una Land Rover. L’auto si muove rapidamente in mezzo alla savana, comunicando un senso di libertà sottolineata dall’apparizione di altre Land Rover che metaforicamente rimandano all’idea del branco di animali selvaggi e come tali assolutamente, lo ripeto, liberi. “Freelander. Made by Land Rover”.

Esempio evidente di straniamento poiché ci vengono offerti tutta una serie di indizi che ci portano però sulla strada sbagliata. Lo svelamento dell’arcano è fonte così di spiazzante sorpresa. Le nostre congetture si sono rivelate tutte errate. Restiamo piacevolmente sorpresi dall’abilità con cui siamo stati coinvolti in un gioco di cui non potevamo prevedere la conclusione. Una conclusione che ci ha divertito e stupito. Il contrario dell’indifferenza tanto temuta dalla pubblicità.

86 E. DE BONO, Lateral thinking for management, Middlex, Penguin Books, 1987.

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La componente ludica, di irrisione rispetto alle norme (torna in mente l’irriverenza gioiosa e liberatoria del carnevale), alle regole che governano la quotidianità, la consuetudine, a favore invece di una sana liberazione all’insegna dell’anticonvenzionalità sono quasi una costante dello straniamento in pubblicità. Come dimostrano i due spot che descriverò qui di seguito.

In primo piano un anziano signore, di nome Antonio, che si muove all’interno di una vecchia e grande casa. Lo vediamo in cucina mentre mescola, in un pentolone di rame, gli ingredienti che, dice una voce fuori campo, ha attentamente selezionato e la cui preparazione lo impegna per delle ore poiché tutto deve essere perfetto. È la festa di Antonio e tutta la sua famiglia è riunita. Antonio porta in tavola il suo piatto. Ma la reazione dei commensali non è quella che immaginavamo. Interviene ancora la voce fuori campo che afferma che tutti concordano riguardo al fatto che si tratta della cosa peggiore che abbiano mai mangiato. Lo confermano le espressioni di disgusto dipinte sul volto dei familiari di Antonio. Dalla moglie, una vecchia signora, al più piccolo, al nipotino, ancora bebè, al cane e persino ad una mosca, tutti appaiono inorriditi di fronte al piatto del povero Antonio. Compare, a questo punto, l’immagine “confortante” di una bella pizza: Little Caesar Pizza! Pizza!.

La comicità è un tratto palese di questo spot. In cui la stereotipia di una scenetta, che raccoglie e rappresenta tutti i luoghi comuni sulla famiglia meridionale depositaria di saperi e di sapori appartenenti a un passato ricco di una grande tradizione anche gastronomica, viene parodicamente stravolta in nome di un divertito e critico sguardo su quel mondo di altri tempi che forse così perfetto non è.

L’altro spot che voglio qui raccontare è quello per la Compagnia di Assicurazioni Central Beheer.Un marinaio viene spinto da due amici all’interno di un negozio dove si effettuano tatuaggi. Ce lo dice l’insegna “Tattoo”. Il giovane ragazzo rimane impressionato dal luogo, popolato di strane creature appartenenti alla mitologia orientale, e, soprattutto, dall’energumeno che dovrebbe eseguire il tatuaggio. Quest’ultimo,

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completamente tatuato, lo fa brutalmente sdraiare supinamente su un tavolo e poi lega i polsi, allo stesso, tramite delle corde di pelle.Inizia quindi a lavorare. Il ragazzo digrigna i denti. E l’uomo sembra quasi divertito mentre disegna la figura scelta: un cuore. Improvvisamente squilla il telefono. Il tatuatore risponde, ma continua anche a lavorare. La conversazione (a noi incomprensibile perché in lingua) ne provoca il riso. L’uomo urta con la testa contro il lampadario che illumina, al povero malcapitato sotto i suoi “ferri”, statuette di terribili creature. Finalmente, dopo tanta sofferenza, il tatuatore riaggancia il telefono e osserva il suo lavoro, terminato. Rimane colpito. Sulla schiena del ragazzo c’è sì il cuore ma anche numero di telefono, nome e indicazione della via così come gli sono state comunicate telefonicamente.

Ancora una volta la situazione rappresentata ha una forte componente ludica. La sorte ha infatti giocato un brutto scherzo al povero marinaio. Scherzo di cui noi non potevamo prevedere lo sviluppo poiché, di fatto, al di fuori da ogni nostra possibile ipotesi. Non avevamo cioè elementi, né precedenti per poter immaginare un simile epilogo. Di nuovo quindi la forza di uno spot che si sottrae alla noia della prevedibilità.

Il nonsenseIl nonsense è un vocabolo inglese che si compone di due parti non “non, senza” e sense “senso”87.Anglosassone è anche l’origine di un genere letterario, definito appunto nonsense, che nasce nell’Inghilterra del XIX secolo. I due massimi esponenti sono Edward Lear e Lewis Carroll. In particolare, mentre il primo è autore dei nonsense verses (i cosiddetti limericks) raccolti nel Book of Nonsense (e accompagnati da disegni tanto primitivi quanto espressivi realizzati dallo stesso), sicuramente però a molti non noti, è indubbiamente il secondo, Lewis Carroll, il rappresentante più conosciuto di questo genere. In 87 Letteralmente, il nonsense indica cosa contraria alla logica comune, un controsenso, un’assurdità, un’incongruenza, in DISC, Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti, 1997. Letteralmente, il nonsense indica cosa contraria alla logica comune, un controsenso, un’assurdità, un’incongruenza.

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Alice nel paese delle meraviglie numerosi sono i cosiddetti (è Alice stessa a definirli come segue) “indovinelli senza risposta”. Alcuni esempi:

Che cosa, esattamente, non ricordi?Chi, precisamente, non hai preso in giro?

Vuoi un regalo di non-compleanno?

Lo stesso ambiente in cui si muovono gli incredibili personaggi che popolano il magico e strampalato mondo di Alice è all’insegna del nonsense. La dimensione onirica investe ogni aspetto del non-reale in cui vive la piccola. Siamo in un sogno e la logica è quella del sogno. Ciò significa che, in realtà, la razionalità è inibita a favore di complesse, bizzarre e per questo tanto più coinvolgenti realtà/dimensioni altre. Un po’ come nel surrealismo (una delle avanguardie88 del ‘900). All’insegna cioè di quella medesima alogicità/ludicità che caratterizza lo spot che racconto qui di seguito. Uno commercial in cui il gioco fine a sé stesso ne guida la “composizione”.

In primo piano un cameriere, dall’aria ammiccante e un po’ luciferina, mentre si aggira in una nave portando su un vassoio una bottiglia di vodka. Fin qui nulla di strano, non fosse che i passeggeri della nave sono assolutamente fuori del comune quanto ad abbigliamento e ad atteggiamento. L’atmosfera è inquietante.

88 Il nonsense è parte anche del dadaismo cui voglio qui solo brevemente accennare. Anch’esso si svolge all’insegna della libertà, della rottura rispetto ai tentativi della società di incasellare il reale. E’ un movimento di avanguardia estrema e radicale nato a Zurigo (1916-1918) attorno ad un caffè letterario, il Cabaret Voltaire, composto da poeti e pensatori di varia provenienza. Il linguaggio dei dadaisti, in letteratura, distrugge ogni tessuto logico del discorso, propone una scrittura rivoluzionaria, formata di suoni e di fonemi in libertà, al limite del paradosso e del nonsense. Il Dada, secondo Trista Tzara è portavoce "di una rivolta che era comune a tutti i giovani, una rivolta che esigeva un’adesione completa dell’individuo alle necessità della sua natura, senza riguardi per la storia, la logica, la morale comune, l’Onore, la Patria, la Famiglia, l’Arte (si pensi alla ruota di bicicletta (1913), di Marcel Duchamp, promossa a opera d’arte), la Religione, la Libertà, la Fratellanza, e tante altre nozioni corrispondenti a delle necessità umane, di cui però non sussistevano che delle scheletriche convenzioni, perché erano state svuotate del loro contenuto iniziale".

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Ogniqualvolta infatti il cameriere si muove, e nel suo muoversi si sposta anche la bottiglia, quest’ultima e il suo contenuto “inquadrano” qualcuno dei personaggi che popolano la nave rivelandone la natura quasi mostruosa. Ecco allora che i fiori, contenuti in un vaso, si muovono e si aprono quasi a voler mordere: sono carnivori. Il girocollo di una donna, dall’aria provocante, si trasforma in un serpente che la stessa accarezza con piacere. E ancora, i capelli neri e ondulati di una ragazza si mutano in serpi ricordandoci la terribile Medusa. E così via. Di fronte a un simile spettacolo lo spettatore rimane stupito piacevolmente poiché riconosce da subito la dimensione fantastica, irreale di quanto gli viene proposto. E sente la bellezza, la poesia che sprigionano da un mondo libero da qualsivoglia abitudine.

Quello appena descritto è uno spot per la vodka Smirnoff (1993). L’atmosfera è indubbiamente surreale. La componente ludica, il senso di anarchica liberazione da qualsiasi vincolo dominano il “testo” e si trasmettono allo spettatore/consumatore. L’effetto è il consenso emotivo dello stesso.Il nonsense, il surrealismo fanno appello all’emisfero destro del pubblico. La loro è la lingua delle emozioni. Suscitano turbamento, inquietudine, coinvolgono il destinatario in una rete di sensazioni che chiamano in campo la sua sensorialità piuttosto che razionalità. Le immagini che si susseguono hanno un ché di onirico, appartengono al mondo dei sogni. Non c’è alcuna razionalità in ciò che vediamo succedersi sullo schermo. Gli sguardi, i movimenti, gli ambienti stessi rimandano a una realtà altra. Nei confronti della quale da una parte proviamo attrazione e dall’altra ci sentiamo spiazzati. Proprio come nel surrealismo assistiamo all’accostamento di elementi reali in modo del tutto inconsueto. Gli ospiti di una nave diventano degli inquietanti esseri che sembrano provenire da una dimensione sconosciuta e che con il loro aspetto mutano la concretezza della nave, la sua materialità in uno strano contenitore di situazioni al confine col mostruoso. Ed è proprio la commistione reale/irreale ad affascinarci. E’ come se, proprio come avviene nei sogni, improvvisamente non ci fossero più freni di tipo culturale o razionale alle nostre fantasie che amano sovvertire l’ordine della banale quotidianità. E’ l’adrenalina del diverso quella che ci viene

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comunicata. Un diverso che però si muove in un clima ovattato e che per questo ci affascina ma non ci spaventa. Conosciamo bene i nostri sogni, conosciamo la loro struttura, ovvero la loro alogicità eppure li amiamo perché ci garantiscono un attimo di pausa dalla ripetitiva e prevedibile realtà. E quando André Breton89 redige il Manifesto del Surrealismo (1924) prende le mosse proprio da L’interpretazione dei sogni ( 1900) di Freud in cui quest’ultimo sostiene che il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio» che si traveste in immagini di tipo simbolico. I sogni, prodotto della nostra psiche, sono infatti caratterizzati da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. Siamo partecipi, nei sogni, o testimoni di situazioni che non possono accadere nella realtà. Domina l’anarchia che impedisce agli eventi di succedersi secondo una catena logica. Il sogno è dunque il luogo privilegiato, il luogo della “surrealtà”. Un mondo in cui non esistono più i freni inibitori della coscienza razionale, le remore morali, i vincoli, un mondo in cui il pensiero può dunque finalmente manifestarsi senza censure per portare a galla l’inconscio. Secondo Bréton, bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà), in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno. Ed è quanto fa il surrealismo nei suoi dipinti in cui dà vita a un diverso ordine della realtà e rovescia il senso comune. E’ dunque chiara la volontà di rottura rispetto a tutte le forme di realismo e di rigore razionale in nome dei diritti espressivi dell’inconscio. E non è forse quanto accade nello spot che segue?

Protagonista un gruppo di donne, tra cui un transessuale, vestite in modo eccentrico. Indossano molto metallo. Metallo delle collane che si avvitano, coprendolo interamente, al loro collo e metallo dei corpetti che avvolgono i seni assumendo una forma conica. I loro volti sono pallidi, le labbra rosse. Sussurrano frasi apparentemente

89 Così Breton definisce il surrealismo: «automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».

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insensate. Le loro voci, molto sensuali, assomigliano a dei bisbiglii lontani. L’impressione è di un’atmosfera ovattata, proprio come quella dei sogni. Tra le giovani donne c’è anche una signora anziana, comunque una bella donna, piena di collane di perle. Appena inizia a parlare subisce una trasformazione e diventa Jean Paul Gaultier: lo stilista che dà il nome al profumo. La frase che viene ripetuta quasi ossessivamente da una voce fuori campo è “Spirit are you there?”. E quando finalmente compare il profumo, l’oggetto evocato quasi spiriticamente durante tutto lo spot, la sua apparizione suscita gioia che si traduce nelle frasi: “It’s here, it’s here! I can feel it, I can even smell it!”. Proprio come s,e magicamente, una realtà solo invocata si fosse materializzata.

Si tratta della comunicazione del profumo di Jean Paul Gaultier. E’ questo un altro chiaro esempio di surrealismo. Surrealismo che si esprime, proprio come nella pittura, attraverso l’accostamento di immagini inusuali. Quello del sogno è infatti un linguaggio analogico e per questo più adatto ad essere tradotto in immagini – strumento principe della comunicazione pubblicitaria - che in parole. Solo le immagini possono infatti restituire il flusso del pensiero che ha le sue radici nell’inconscio. Bandita la logica, la sequenzialità si aprono le porte del non reale. Che mantiene però col reale un dialogo continuo. Da questo non si stacca, ma ne svela le ombre che suscitano in noi turbamento. Max Ernst, grande pittore e scultore surrealista, citava spesso una frase del poeta Lautréamont: «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio» e spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse». E che dire allora di queste donne/androgini che siedono attorno a un tavolo come se stessero partecipando a una seduta spiritica (ce lo fa pensare la frase, più volte ripetuta, “spirit are you there?”) senza però seguire alcuno dei rituali cui siamo abituati, ma piuttosto semplicemente sussurrando frasi insensate? E che dire poi della signora anziana il cui volto, improvvisamente, prende le sembianze di un uomo (Gaultier, appunto)? E che dire, ancora, della esclamazione finale: “it’s here, it’s here! I can feel it, I can even smell it!” che sembra concludere positivamente l’invocazione?

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Insomma l’impressione è di trovarci di fronte, nuovamente, a qualcosa che supera il reale, a una surrealtà. Ce lo dice, in primis, l’alogicità che connota non solo le immagini, popolate da individui dai volti pallidissimi e vestiti in modo assolutamente inconsueto, ma anche le loro parole prive di un senso reale. Sganciate da qualsiasi logica, svuotate di una qualche coerenza. A tutto questo si aggiunga il tono con cui vengono pronunciate. Sembrano in realtà sussurrate. E’ come se venissero da chissà quali profondità, come se appartenessero a un sogno.La confusione tra realtà e rappresentazione, tra reale e immaginario si riflette sull’oggetto che assume nuove sembianze. E’ come se cioè partecipasse della natura “perturabante” della surrealtà in cui è immerso acquistando una nuova dimensione. L’oggetto noto si fa testimone, portatore di segnali che non appartengono alla realtà: si fa ignoto. Acquisisce un fascino altro che gli viene dal contesto inusuale di cui si è trovato partecipe.Il claim dei pneumatici Dunlop, Tested for the unexpected, si fa emblematico proprio della partecipazione del bene pubblicizzato a una realtà che possiamo solo sognare. Questo il senso dell’aggettivo “unexpected” che indica la non prevedibilità di uno scenario con cui non ci siamo mai confrontati, nella vita di tutti i giorni, dal momento che appartiene a una dimensione governata dall’anarchia dell’inconscio.

Racconto lo spot.In primo piano il faccione color oro di un uomo corpulento. Quindi un’auto nera, sportiva che si muove attraverso un sentiero lungo il quale si trovano individui di grossa stazza completamente vestiti di bianco. Qui e lì esplodono dei fuochi che però l’auto riesce ad evitare. Si vedono poi degli uomini, alcuni dipinti di argento altri di oro, con i piedi immersi nell’acqua, una sorta di enorme pozzanghera e piegati a toccarla come se cercassero qualcosa. L’auto attraversa l’acqua e improvvisamente appare in primo piano il volto di una donna attorno ai cui occhi si trovano ali di farfalla. La vettura prosegue e la osservano dei bimbi, color oro e argento, dai folti capelli bordeaux e biondo intenso. Compare quindi un uomo, obeso, bianchissimo, con indosso solo un paio di slip neri e un enorme cinturone che gli fascia la vita: ai capezzoli due anelli.

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L’uomo è seduto su di un semicerchio di metallo, che si trova in mezzo alla strada, e attorno a lui si muovono enormi sfere d’acciaio. Si china a rovistare tra migliaia di biglie nere. Biglie su cui passa rapidamente, con suo disappunto, l’auto causa di meraviglia tra gli strani bimbi. Di nuovo l’inquadratura è sull’uomo grasso ora sdraiato sulle palline. Appare quindi un alternarsi di primi piani che inquadrano: dapprima un pneumatico che riporta la scritta tested, seguito dal volto di una donna con gli occhi di gatto, poi di nuovo dal pneumatico recante le parole for the e, per finire, dal volto coperto da un passamontagna nero, con una zip all’altezza della bocca, interamente rivestito di enormi aghi, che vengono accarezzati delicatamente da una mano femminile e quindi di nuovo il pneumatico la scritta unexpected Dunlop.

Il pneumatico Dunlop porta con sé il fascino dell’ignoto, dimostrandosi capace di muoversi anche all’interno di territori inesplorati e non governabili razionalmente. Vince dunque perché associa alla marca non solo la qualità delle prestazioni, ma anche la malia che gli deriva dall’essere magico strumento capace di misurarsi col misterioso regno della surrealtà.Nonsense dunque come linguaggio estremamente attuale poiché capace di rispondere a quel desiderio di partecipazione e di emozioni, di imprevedibilità e di rifiuto della razionalità che sono caratteristici del consumatore postmoderno.

La trasgressione Trasgredire significa violare, non rispettare ciò che la legge o la morale comune ci impongono. Significa infrangere le norme sociali, le norme codificate e non, che la società ha elaborato per determinare ciò che è buono, bello, virtuoso, da imitare, etico e ciò che non lo è.Nel sostantivo, trasgressione, è implicita infatti la tensione al superamento dei limiti imposti dalla società. Limiti che si materializzano in norme comportamentali che siamo tenuti a seguire. Nel momento in cui, invece, seguiamo Dioniso abbandonandoci all’istinto, alla passione, scegliendo il caos rispetto all’ordine

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diventiamo potenzialmente “pericolosi” per l’altro. Dove per pericolo intendo l’inquietudine, il disagio, il disappunto, la disapprovazione che il nostro mancato rispetto di vincoli sociali, considerati ineludibili, provocano nella persona con cui interagiamo. Naturalmente vanno considerati i “contesti”. Nel senso che è la realtà di riferimento che rende o meno trasgressivo un comportamento. E per realtà intendo la cultura e l’insieme di valori, atteggiamenti, consuetudini, percezioni, che caratterizzano il modo di essere degli individui in alcuni periodi storici e in alcuni tipi di società piuttosto che in altre. E allora come non ricordare le campagne di Oliviero Toscani per Benetton. Toscani affronta infatti temi importanti in modo assolutamente provocatorio. Negli anni 80, in particolare, le campagne Benetton parlano di impegno, di fratellanza, di diritto all’uguaglianza, di accettazione della diversità ma lo fanno attaccando la facciata ipocrita della società. Attaccando cioè i luoghi comuni, le certezze codificate. Insinuando il disagio del confronto con realtà scomode, censurate da tutta una serie di norme morali. Che poi tutto ciò sia fatto in modo pretestuoso, strumentale, all’insegna dello “sbatti il mostro in prima pagina” e dell’épater le bourgeois anziché del sensibilizzare riguardo a temi sociali di grande rilievo, è un problema che non affronto in questa sede.Ecco quindi la pubblicità (autunno-inverno 88-89) di una donna di colore che allatta un bambino bianco. Immagine che provoca dure contestazione negli Stati Uniti “proprio all’interno della comunità nera, la quale, anziché compiacersi della intenzione antirazzista di Toscani, rivive la condizione brutalmente emarginante e subalterna della nurse di colore”90. Immagine premiata invece in Europa. Esempio dunque questo di come la trasgressione dipenda, come dicevo prima, dal contesto in cui è inserita. Nel senso che ciò che in alcuni paesi o gruppi della società è accettato in altri può essere motivo di scandalo perché in contrasto coi valori, con le norme dominanti. Eccone un esempio. In un paese cattolico come l’Italia, in cui la chiesa ha esercitato un forte controllo sociale un manifesto, come quello dell’autunno-inverno 91, che ritrae una suora e un prete mentre si sfiorano le labbra, non può che suscitare scalpore. Si parla di oltraggio al pubblico pudore, di resa fotografica provocatoria, se

90 L. PAGNUCCO SALVEMINI, Benetton. Toscani. Storia di un’avventura 1984-2002, Azzano San Paolo, Bolis, 2002, p.46.

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non blasfema. Toscani ha infatti osato toccare uno dei principi su cui si deve fondare la vita dei sacerdoti di Dio, ossia la castità. E una comunicazione di questo tipo non può che risultare trasgressiva poiché viola un tabù, ossia il divieto assoluto della pratica sessuale per chi decida di dedicarsi a Dio. “Una reazione inversa si riscontra [invece] nei paesi a maggioranza protestante dove il matrimonio del religioso è consuetudine raccomandata. In Inghilterra, per esempio, il cartellone conquista addirittura il premio “Eurobest Award””91. Quello del sesso, della sessuofobia è un altro dei temi scottanti cari a Toscani. Ma va rilevato, ancora una volta, come il messaggio sia più o meno trasgressivo a seconda del target destinatario dello stesso. Mentre quindi i moralisti benpensanti della vecchia generazione, di fronte all’immagine dei preservativi di vari colori, protagonisti della comunicazione primavera-estate 91, provano sdegno, i giovani invece, a favore di una condotta sessuale libera, ne apprezzano la dimensione “rivoluzionaria”. I giovani infatti rivendicano il loro diritto a proporre una visione alternativa del mondo: sono alla ricerca di una loro identità e per questo rifiutano di accettare (la trasgressione è anche sinonimo di anticonformismo) i modelli imposti/proposti dai genitori o dagli adulti in genere. Va comunque evidenziato che, spesso, gli spot trasgressivi hanno un contenuto educativo anche se quest’ultimo viene oscurato dalla “forma” inusuale tramite cui viene trasmesso. Ne è un esempio lo spot che segue in cui la trasgressione si limita alla rappresentazione di una situazione non consueta, ma il messaggio, appunto, è in realtà un invito alla prudenza.

Un padre osserva, con apprensione, il piccolo figlio che gioca con due Barbie. Il bambino porta con sé le due bambole persino in auto, accrescendo le preoccupazioni del genitore. Per risolvere la situazione l’uomo fa un tentativo: porta in regalo al figlio due Big Jim (uno bianco e uno di colore) forzuti, vestiti da guerriero. Ma il piccolo non reagisce con entusiasmo. La sera, il padre, entra nella camera del bimbo, raccoglie desolatamente da terra i due Big Jim, e guarda rassegnato il figlio che dorme tra le due Barbie dai lunghi capelli biondi. Passano gli anni, il bambino è un uomo e lo vediamo nell’atto di svegliarsi tra due donne bionde e bellissime proprio

91 Ivi.

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come le Barbie. Per terra, in camera, i preservativi Tulipan. Il ragazzo, dopo essersi alzato dal letto, entra in cucina dove il padre sta facendo colazione con due uomini muscolosi – sono tutti evidentemente gay, padre compreso - uno bianco e uno di colore, proprio come i Big Jim. Il claim recita: pick whatever you want but pick Tulipan condoms.

Si tratta di uno spot divertente in cui la trasgressione si esprime attraverso l’inversione dei ruoli che ha come conseguenza un inevitabile spiazzamento. Tutto infatti è condotto in modo da far pensare che il ragazzino, da adulto, avrà tendenze omosessuali. E invece non solo questo non accade, ma è addirittura il padre a comportarsi da gay. Non avremmo mai potuto immaginare un simile epilogo. Questo finale ci ha colti di sorpresa. Il messaggio è un chiaro invito a andare oltre sciocchi pregiudizi per prendere atto dell’unica cosa che conta veramente, ossia la nostra sicurezza. E’ cioè indifferente il sesso del nostro partner, mentre è importante che ci tuteliamo.La trasgressione dunque, in realtà, ha una funzione di smascheramento di ipocrite convenzioni che ci incatenano a stupidi luoghi comuni nocivi, in primis, a noi stessi.L’attenzione del consumatore è garantita poiché lo spot non solo rappresenta una “storia” assolutamente nuova, al di fuori di ogni previsione e come tale più accattivante, ma lo fa in modo divertito, senza puntare il dito contro nessuno. Sa di gioco, è leggero, non accusa nessuno.

In primo piano un pene che al suono di una musica da discoteca pian piano si drizza sempre di più. Segue il ritmo della musica e addirittura canta. Free FM Sydney Gay & Lesbian Broadcasters inc en air 22nd February.

Questo è un comunicato molto forte. Il primo piano è infatti dedicato a un organo sessuale che solitamente si nasconde/copre con gli indumenti. Il suo essere protagonista di un intero spot genera in noi imbarazzo. In molti sicuramente ripulsione, rifiuto. Potrebbe benissimo essere considerato volgare.

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Ma il fatto di personificarlo, di farlo cantare ne sdrammatizza la carica di trasgressione rispetto alle norme sociali, alla morale. In qualche modo ci fa sorridere, tanto è fuori da ogni previsione il ruolo che si trova a “recitare”. E’ l’irriverenza di chi, il mondo gay appunto, non accetta più di restare in un angolo, coperto dall’ipocrisia dei benpensanti, ma vuole essere accettato, vuole uscire allo scoperto.

In Vaticano, fuori una folla immensa attende il Papa, un giovane prete sembra muoversi disperatamente alla ricerca di qualcosa tra le stanze del palazzo. Parla con altri preti ma sembra che anche questi ultimi non possano aiutarlo: hanno tutti l’aria preoccupata. Il giovane prete entra quindi in una cappella a pregare. Poi si avvicina a una porta. Bussa e con sua grande sorpresa vede, davanti a sé, il Papa che indossa una gonna rossa e una camicia blu e bianca annodata in vita. Pascale Fashion.

L’irriverenza/trasgressione si esprime nel non rispettare un ruolo codificato da secoli. Il Papa, simbolo della cristianità, e quindi puro, retto, pio ecc… Cioè dotato di tutte le qualità richieste a un buon, anzi perfetto cattolico viene invece scoperto mentre si veste da donna.Una simile pubblicità certo suscita l’ostilità di chi ci vede un’aperta violazione della santità del Papa. E’ anche vero però che il Papa sorride, sembra felice. Sembra rompere col grigiore di una vita all’insegna della ripetitività, dell’austerità per introdurre invece il colore che deriva dai capi Pascale. Una moda, quella della linea Pascale, che ha saputo far cadere in tentazione persino il Pontefice.Al di là della accettabilità o meno di questo e degli altri messaggi, a cui mi sono precedentemente riferita, siano essi su carta stampata che in video, va comunque rilevata la forte carica di novità che li caratterizza e il loro sapersi rivolgere alla parte più emotiva dell’uomo. Checché se ne dica le emozioni sono chiamate e costrette a entrare in gioco. O sotto forma di sdegnoso rifiuto, di rabbiosa critica o invece di affascinata attenzione. Affascinata perché siamo intrigati da un gioco che ha saputo andare oltre le nostre aspettative e che si muove ai limiti di ciò che comunemente ci viene vietato. E se è vero che le regole sono fatte per essere trasgredite ecco allora che

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messaggi di questo tipo stuzzicano la nostra voglia latente di trasgressione, di rompere con la routine, con le convenzioni.A volte però la trasgressione sconfina nel trash, tanto da suscitare repulsione nel pubblico.

E’ il caso dell’ultimo spot della Perfetti per Vigorsol. Protagonista un ragazzo che, dopo aver masticato una gomma “Air Action” (la cui lettura fa richiama alla mente “erection”, termine qui assolutamente pertinente) , si ritrova con i capezzoli allungati in modo spropositato. Ma non è un dramma, anzi, questi ultimi diventano il suo punto di forza, lo pongono al centro dell’attenzione delle ragazze. Improvvisamente si infila in una sorta di guinness dei primati usando i suoi incredibili capezzoli per “scretchare”, per chiamare l’ascensore, per far ruotare il freesbie, per appenderci gli occhiali ecc… Lo vediamo infine all’interno dell’ascensore mentre guarda con interesse una bella ragazza dal seno prosperoso. Le offre una gomma. Come andrà a finire?

E’ uno spot fortemente trasgressivo poiché propone/impone un’immagine che per molti può risultare volgare e assolutamente gratuita. Lo testimonia il brano che cito di seguito, tratto dall’articolo di Michele Serra, apparso su “la Repubblica” il 15 ottobre 2003.

Il ragazzo dai capezzoli a forma di spiedo entra nelle vostre case a tutte le ore del giorno, erotico o ripugnante a seconda che siate iscritti o meno a un club sadomaso. […]Nessun bambino muore, è chiaro, per un capezzolo a forma di spiedo, men che meno per una delle rombate imposte full-time dagli spot. Diciamo che è una questione di misura, e di misura nella scoperta della vita, ivi comprese le sue bizzarrie piacevoli e spiacevoli. Vederle e saperle tutte fra i cinque e i dieci anni è forse un po’ costrittivo, un po’ violento, un po’ mortificante. La bulimia da immagini forti rischia di generare, magari, proprio dei moralisti sessuofobi, o gnagnerose famiglie da mulino Bianco. Il troppo stroppia […] e i capezzoli pizzuti, dagli e dagli, cavano gli occhi. Piantatela no?92

La reazione del pubblico è stata in effetti immediata, tanto che all’indirizzo internet http://www.sorrisi.com/sorrisi/

92 M. SERRA, L’ora degli spot estremi in tv, in “la Repubblica”, 15 ottobre 2003, p.1 e p.17.

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diretta/art023001005473.jsp è stata creata una sezione che contiene le mail pro e contro questo spot.Tra l’altro, l’azienda, la Perfetti stessa, è stata interpellata dalla giornalista Nicoletta Brambilla93, al sito www.sorrisi.com, per difendersi dalle accuse di volgarità mosse da parecchi telespettatori. La risposta dell’azienda è stata la seguente:

“è dal 1996 che affidiamo il nostro budget pubblicitario all’agenzia inglese BBH, la stessa di Levi’s e Reebok, per intenderci. E per noi ha sempre realizzato campagne estreme. Ricordiamo quella dell’incantatore di serpenti con l’animale che balla la break dance, oppure il vincitore del bingo schiacciato da una vettura che plana dal cielo. Si tratta sempre di un linguaggio giovane, innovativo e fuori dagli schemi, così come quello provocatorio usato questa volta. Scegliendolo sapevamo che saremmo andati incontro a critiche negative, ma anche positive”.

Effettivamente questo tipo di comunicazione ha fatto parlare molto di sé, ma viene da chiedersi quanto possa ripercuotersi negativamente una simile pubblicità sul prodotto. Non mancano i casi, tra l’altro tra i giovanissimi, di ragazzi/e che dicono di non voler più acquistare i chewing goom della Vigorsol perché li associano a un’immagine per loro disgustosa, ributtante. Non credo sia pertanto inappropriato parlare di senso della misura, ma è anche vero che allora la trasgressione dov’è?!?

L’erotismo [La sessualità] un tempo del tutto genitalizzata, e finalizzata al momento dell’orgasmo, adesso va estendendo sempre più le zone erogene fino a farle coincidere con gran parte del corpo e non soltanto con l’area genitale. Quelli che un tempo si chiamavano “riduttivamente” preliminari assumono un nuovo protagonismo nel rapporto sessuale, il ruolo dell’immaginazione e della fantasia rivestono un grande rilievo in tutta la vita sessuale. L’erotismo che è una componente basica della sessualità, è in larga misura un’elaborazione mentale94.

93 N. BRAMBILLA, Lo spot della discordia, 28 ottobre 2003, all’indirizzo http://www.sorrisi.com/sorrisi/ diretta/art023001005472.jsp.

94 G. FABRIS, Il nuovo consumatore, op. cit., p.169.

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A differenza infatti della pornografia che esibisce il corpo in modo crudo, violento l’erotismo si sposta dalla sfera della carnalità, della materialità, della pura sessualità fine a sé stessa per recuperare invece una dimensione di piacere raffinato, fantasioso. L’erotismo è creatività.L’erotismo nasce da una complessa alchimia fatta di atmosfere, di musiche, di odori, di suoni, di piccoli frammenti anche del quotidiano orchestrati però in modo tale da coinvolgere emotivamente lo spettatore/ascoltatore/lettore. L’erotismo non è cioè legato soltanto al rapporto tra due corpi ma anche al contesto in cui questo avviene, agli elementi da sfondo e sottofondo che concorrono nel trasmetterci un brivido di piacere che turba piacevolmente la nostra razionalità. Non è semplicemente il richiamo dell’istinto, il desiderio dell’accoppiamento quanto piuttosto una sensazione di calda ebbrezza che ci rapisce la mente per propagarsi a tutto il corpo.

Emblematico in tal senso il comunicato a stampa per “Roma” il profumo di Laura Biagiotti.

In primo piano un uomo e una donna. Entrambi vestiti di biancheria intima, di seta, lui indossa una vestaglia e lei una leggera camicia da notte. Sono in piedi, lui le tiene il viso e parte del collo tra le mani e la bacia, vicino all’orecchio. È notte. Sullo sfondo le colonne che richiamano il disegno delle due boccette di profumo, riprese in primo piano, e Roma, scrigno di preziosi antichi tesori.In una mano l’uomo tiene una candela e il vento, accarezzandola, ne sparge mille piccole scintille nell’aria. Il claim recita: Roma, un soffio di eternità.

Credo di aver portato un esempio lampante di quanto appena affermato. La pubblicità appena descritta non esibisce infatti corpi nudi, anzi. Sono piuttosto l’espressione di rapimento della donna baciata, lo sfiorarsi dei due corpi, la loro bellezza unita allo scenario, evocato tramite pochi dettagli, ossia Roma, la città eterna, a catturarci, a risvegliare le nostre emozioni.

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Lo stesso dicasi per il commercial che segue, in cui vale lo stesso principio. Niente volgarità, nessuna nudità, ma gioco di sguardi e di movimenti molto sensuale.

Auto sportiva, cabriolet, bianca. Alla guida una donna di cui si vedono i capelli biondi che seguono i movimenti dell’aria. Il percorso dell’auto viene bloccato da una sbarra che improvvisamente si abbassa. E’ la dogana col Messico. Un giovane e affascinante poliziotto si avvicina all’auto per un controllo. La donna, una bellissima Kim Basinger, si toglie gli occhiali da sole, lo guarda e si porta l’astina tra le labbra socchiuse, dipinte di un rosso acceso. L’agente apre il bagagliaio dell’auto, all’interno del quale c’è una valigia piena di collant Golden Lady. Chiede a Kim Basinger, mostrandole la confezione rossa di un paio di collant, a che cosa le servano tutte quelle calze. L’attrice gli risponde che glielo mostrerà immediatamente. Toglie perciò, dalla confezione portale dall’uomo, un paio di collant neri. Tutti i suoi gesti sono improntati ad un estrema sensualità. Tanto che sfila i collant, dal loro involucro, in modo che, con un movimento verticale allungato, le accarezzino il viso. A questo punto, come in uno spettacolo di seduzione, l’attrice infila lentamente i collant catturando l’attenzione/interesse dell’agente. Quindi vengono inquadrate le gambe dell’attrice, che indossa un abito cortissimo, nero, con tacchi a spillo. La Basinger si piega poi sull’auto appoggiandovi parte del busto, con inquadratura del fondoschiena e delle gambe, e il viso che guarda l’uomo in modo seducente. A questo punto lei si avvicina a lui lo fissa e gli sfiora il naso con la punta del suo, quindi sale in auto. L’uomo guarda l’auto muoversi e oltrepassare la sbarra che segna il confine. La Basinger sorride e lancia in aria la confezione di calze appena usata. La riceve il poliziotto e un primo piano del pacchetto mostra la scritta: “kisses. Kim Basinger”.

Protagonista di questo commercial è, come abbiamo detto, Kim Basinger. Un’attrice che, negli anni 90, diventa icona della sensualità grazie al film “9 settimane e mezzo” che la vede protagonista di una storia d’amore e di giochi sessuali con il bel Mickey Rourke. Il suo personaggio cinematografico dunque, con il ricordo che ne deriva al pubblico, unito alla sua bellezza oggettiva, avvolgono l’intero spot di

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un estrema sensualità. Labbra rosse, pose sexy, gesti lenti, mirati a mettere in evidenza le varie parti del corpo, musica dolce, insomma un’orchestrazione perfetta per dar vita ad una scena tutta giocata sul filo della seduzione. Una scena che viene interpretata di fronte a un uomo che non appartiene alla realtà quotidiana: la sua bellezza fa piuttosto pensare a un modello. Un situazione dunque che assomiglia molto al sogno. E, del resto, non è proprio nei sogni che l’inconscio prende il sopravvento e ci regala situazioni erotiche irripetibili nel reale?E’ comunque indubbio che questo comunicato non si caratterizza per originalità. Ci troviamo infatti innanzi a una delle tipologie più frequentate dalla pubblicità. Ossia la promessa rivolta agli spettatori/lettori di risultare affascinanti, di piacere, di interessare all’altro sesso acquistando il prodotto presentato. E per far passare questo messaggio non c’è nulla di più accattivante che servirsi di individui attraenti. Quasi a voler significare l’importanza che esercita, nella conquista dell’altro/a, l’attrazione fisica, cui possono contribuire, in modo determinante, alcuni prodotti.Prodotti che, del resto, se non venisse loro conferita una qualche coloritura emozionale, sarebbero indistinguibili rispetto ad altri. Nel caso specifico, ossia quello dello spot Golden Lady, la memorabilità della marca è agevolata dalla presenza di un testimonial, la Basinger, che, nell’immaginario collettivo, ha una connotazione fortemente sensuale. Comunque l’utilizzo di donne ideali ritratte in modo provocante è ormai una costante in pubblicità. Si tratta di un espediente comune alle classi più disparate di prodotti: dall’abbigliamento agli articoli da toletta, dai cosmetici ai prodotti di drogheria, dalla automobili ai prodotti industriali. E’ cioè un linguaggio, quello dell’erotismo, che taglia trasversalmente le più diverse categorie merceologiche cui garantisce un fascino derivante dalla messa in scena delle performances che il loro possesso sembra garantire, nel corteggiamento uomo-donna, attraverso un meccanismo che spesso si muove tra bisogno e sua soddisfazione. L’esempio classico è quello del profumo. Un modello riproposto con migliaia di varianti ma che, solitamente, si svolge tra un uomo anonimo, che però immediatamente dopo l’uso del quasi magico prodotto diventa improvvisamente interessante, e la o le donne che ne rimangono

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affascinate. Il bisogno di piacere viene quindi soddisfatto attraverso l’acquisto di quel profumo.

Una pubblicità particolarmente eye-catching perché provocante e trasgressiva è la campagna a stampa 2001per il profumo “Opium” di Yves Saint Lauraint. Protagonista è la maxi modella Sophie Dahl, completamente nuda, sdraiata su un tappeto di velluto nero, gambe aperte e occhi chiusi in un impeto di voluttà.

La modella, un po’ in carne, immagine del profumo Opium è, “simbolo dell’eccesso di sesso, di amore e di cibo”, come ha spiegato lo stilista Tom Ford. Il lussurioso orgasmo di Sophie, vestita solo di sandali e collier, è una calamita per gli sguardi allibiti del pubblico. La pubblicità in questo caso è riuscita a stupire il suo pubblico, ne ha catturato l’attenzione. E lo ha fatto mescolando in modo sapiente il piacere, e le emozioni ad esso legate, con lo shock. Uno shock che però non ha in sé nulla di negativo. Non nasce cioè dal fastidio di un’immagine percepita come volgare. E’ uno shock che non offende la sensibilità poiché si realizza in un ambiente quasi ovattato. Il velluto, il collier, i sandali, la carnagione bianca, eterea della ragazza sanno di sogno. Sophie è immersa in un mondo che ha il fascino della bellezza e del lusso.Dunque una pubblicità intelligente poiché ha saputo mantenersi al di quà della linea del buon gusto, della decenza. Non ha ammiccato alla pornografia, né alla oscenità. Ha evitato di offendere il suo pubblico. Laddove infatti questo rispetto viene a mancare c’è il pericolo di un fallimento del messaggio pubblicitario. In quest’ultimo caso il consumatore associando il prodotto all’immagine, recepita come sconcia, finisce col decidere di non acquistarlo poiché non vuole condividere un sistema di valori che non solo gli sono estranei ma che condanna. E’ necessario dunque fare molta attenzione quando si gioca con l’erotismo poiché è labile il confine con la pornografia e l’oscenità che nulla hanno a che spartire. Il primo nasce infatti e soprattutto da certi atteggiamenti, gesti, situazioni, i secondi si legano solo alla fisicità quasi ginecologica dei soggetti rappresentati.

Altro esempio in tal senso è l’ annuncio che promuove White di Armani, annuncio in cui compaiono due adolescenti seminudi,

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avvinghiati l’uno all’altra. Lei tiene negli slip, sui fianchi, una boccetta di White.

Anche in questo caso l’immagine non offende la sensibilità di alcuno poiché rappresenta una scena di passione tra due ragazzi in modo quasi artistico. Una passione che si trasmette, nella sua sensualità, grazie alla posa, allo sguardo dei due protagonisti e non dipende dalla loro semplice simnudità. Non è infatti il nudo in sé a colpire, quanto piuttosto il confronto con un’immagine accattivante.Va da sé che l’erotismo è un linguaggio fortemente espressivo poiché nascendo da un istinto primario, ossia l’impulso sessuale, non appartiene a un target specifico, ma è universalmente condiviso. E se fino ad alcuni anni fa poteva esprimersi solo nella rappresentazione dei rapporti eterosessuali ora si è allargato fino a comprendere tra i suoi soggetti gay e lesbiche. Ancora una volta dunque la pubblicità segue passo passo l’evoluzione del costume. La perdita di controllo, da parte della Chiesa, sul comportamento sessuale degli individui, si traduce in libertà di ammiccare (più banalmente, alla donna rappresentando uomini seminudi) anche a quei consumatori che sempre di più hanno un ruolo di primo piano nel mondo dei consumi.

Ricordo a questo proposito una delle campagne (2001) per Sisley che fotografa due ragazzi a letto, l’uno con la testa appoggiata sull’addome dell’altro. O la pubblicità per Envy, un profumo di Gucci, che propone il primo piano di due ragazze. Dell’una si vede l’intero profilo. Guarda la telecamera con occhio languido. Appoggia il viso contro un’altra ragazza nella cui bocca, semiaperta, tiene il pollice.

Entrambi le pubblicità si fanno espressione di un piacere non codificato dalle norme morali e sociali, di un desiderio che non ha ancora piena cittadinanza nella sfera della cosiddetta normalità.

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