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l’ arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti Muro intonacato, pigmentato, scrostato e rappezzato. Particolare anno III, n° 8 aprile - maggio 2010 2 €

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l’arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti

Muro intonacato, pigmentato, scrostato e rappezzato. Particolare

anno III, n° 8 aprile - maggio

2010

2 €

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C he strano, si dirà, dedicare un nu-mero ai muri. Certo non è un tema con-sueto, ma, a ben vedere, non solo questo argomento un numero se lo merita, ma forse richiederebbe addirittura uno spe-ciale approfondimento. Se, infatti, pen-siamo ad una nostra normale giornata, ci riesce impossibile riuscire a visualizzar-la eliminando dall'immagine mentale la sagoma di un contenitore murato (casa, scuola, uffi cio, fabbrica...). Anche il paesaggio rurale, con le recinzioni, le case coloniche, le ville signorili, le chie-sette, ci restituisce immancabilmente un repertorio di costruzioni, di manufatti, di muri. E, quando dovessero mancare i muri fisici, non ne mancherebbero certo

di altri tipi. Proprio di questo secondo genere sono, in prevalenza, i muri che vengono affront ati nella rivista. Se si dovesse trovare, tra tutti gli articoli, un tratto che li caratterizza tutti, è probabil-mente quello dell'ambiguità. I muri di casa prot eggono la famiglia, le mura della città proteggevano la comunità, i confini territoriali proteggono dallo stra-niero e dal nemico. Ma il muro che ci offre sicurezza è anche quello che ci stanca, ci annoia, ci impedisce di cre-scere poiché rappresenta un limite ed un ostacolo. Allora il muro si trasforma in oggetto di desiderio, da bucare, farne brecci a, scaval care, frantumare, per farci incontrare l'altro, ciò che è diverso da noi, senza del quale, però, la nostra

identità non può essere costruita. Come l’endogamia porta all’impoverimento genetico, così l’isolamento porta alla perdita di diversità, all'impoverimento culturale.E noi sappiamo che, come in natura la bio-diversità è forza ed intera-zione, nella cultura la diversità è ric-chezza. Dovremmo, forse, cambiare la nostra immagine dei muri, le metafore che usiamo per rappresentarli. Non pro-tezione, ma prigione; non sicurezza, ma paura; non di fesa, ma meschinità. Si potrebbe continuare ma, in fondo, appa-re chiaro che dietro il muro possono accumularsi i peggiori sentimenti ed impulsi. E poco di positivo. Proviamo ad eliminarne alcuni? Saremmo molto più liberi.

Editoriale

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Ho conosciuto Gerico,

ho avuto anch’io la mia Palestina, le mura del manicomio

erano le mura di Gerico e una pozza di acqua infettata

ci ha battezzati tutti. Lì dentro eravamo ebrei

e i Farisei erano in alto e c’era anche il Messia

confuso dentro la folla: un pazzo che urlava al Cielo

tutto il suo amore in Dio.

Noi tutti, branco di asceti

eravamo come gli uccelli e ogni tanto una rete

oscura ci imprigionava ma andavamo verso le messe,

le messe di nostro Signore e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti, odoravamo di incenso.

E, dopo, quando amavamo, ci facevano gli elettrochoc

perchè, dicevano, un pazzo non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l’avello anch’io mi sono ridestata

e anch’io come Gesù ho avuto la mia resurrezione,

ma non sono salita ai cieli sono discesa all’inferno

da dove riguardo stupita le mura di Gerico antica.

La Terra Santa

di Alda Merini

da La Terra Santa, 1984

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foto da internet

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3333

U n cane randagio non poteva che fermarsi a marchiare il territorio nel luogo dei ratti. Sgattaiolavano dentro, fuori, a destra e a manca di un carrello riempito di mon-nezza. Naturalmente, lo sfondo era costituito da cemento ed asfalto. Finestre incolori davano sulla via grigia e signore di mezz' età si fermavano a chi edere “buste, questa volta piene”. Nel frattempo, un traffi co di media in-tensità, formato dalla più piccola e sca-dente utilitaria alla macchina per bene,

dal tassì all'autobùs, orientava allo scoppiettante sonoro. Pozzanghere, fermate, non-luoghi, mar-ciapiedi, siepi lontane dalla cura bor-ghese proiettavano la mia realtà in quel-lo, socialmente costruito, che era il su-permercato della droga. Il cielo, come sempre, plumbeo. L'aria, ovviamente, immobile. La realtà come percezione dei sensi sottoposti alla cultura di cui sono figlio. Parole arabe, vociare egiziano. Un tea-tro, un palcoscenico. Un sorriso del gaudente, un ribrezzo dello schizzinoso: ecco il mercato dello scugnizzo, illegale ma protetto, istitu-zionalmente negato e voluto, indivi-dualmente necessario, solida esistenza nell'inesistenza.

Dieci, venti, cento euro e il gioco gira. Degli alberi sembrano tristi, di uccelli non ve ne sono. Mannaggia! Un senso di normalità mi chiama: compro un po' di fumo. Parlo ad un giovane arabo situato nella zona di transizione tra le due realtà, quella normal-borghese e quella occul -ta, illegale, decadente;

dopo uno scambio di battute in lingua singhiozzante e dopo l'ultima leccata per chiudere una legittima, in quanto accettata localmente, canna, egli mi conduce per mano metaforica nella real -tà seconda. Mi addentro nel vicolo sterrato e bagna-to, sempre più decadente man mano che si procede, sempre più a pezzi, fino a quando ne sono quasi immerso. Non ci si immerge del tutto se non lo si vive. L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Precaria è la tettoia sotto alla quale sono situate sedie panchine e stendini. Un uomo esce da una porta priva di serramenti carico di vestiti lavati da far asciugare.

La casa da cui esce è fatiscente. Tutt'intorno discariche all'aperto e im-provvisate. Aspetto il mio fumo girato, per mante-nere il segreto dello Stato Secondo. Ketamina? Cocaina. Che altro necessito per un normale quieto vivere? Ecstasy, speed, robba, mdma e la luce si fa a scatti, come lo è normalmente la mia realtà, tra un motore a scoppio e l'altro su di un passaggio pedonale, tra una lezione ed una mobilitazione stu-dentesca, tra un tg e la pubblicità, nel mio presente senza fine, nella metropo-litana, negli schermi “informativi” e nel bicchiere colmo d'alcol la sera. La stanchezza, al mattino. Qui stanno male tutti, preferisco almeno che sia evidente. La decadenza, l'amore per l'umano.

Un uomo disse ad un altro: “Ciao”, e, questo, si riempì di curiosità. Ruben Minervini

Oltre il muro

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Sommario

Editoriale, p. 2

Ruben Minervini, Oltre il muro della periferia: la seconda realtà, p. 3

Sommario, p. 4

Alda Merini, La Terra Santa, p. 4

Pietra Pomice, I writers del I secolo d.C., p. 5

Stefania Lucia Zammataro, L’inquietante muro nero, pp. 6-7

Franco Paradiso, Muri, mura, muraglie, pp.8-10

Dario D’Angelo, Ci sono solamente 10 tipi di persone nel mondo:

chi comprende il sistema binario e chi no, p. 11

Giovanni Abbagnato, Un muro dentro l’anima, pp. 12-13

Piero Castoro, Fontane di rugiada, pp. 14-15

Leonardo La Forgia, Oltre la disabilità: i muri del pregiudizio, pp. 15-16

Giacomo Pisani, Sbattere contro il muro dell’ideologia, p. 17

Antonio Squeo, I muri del paradiso … e quelli della rivoluzione pp. 18-20

Guglielmo Manenti, Il Minotauro, p. 21

Salvo Torre, Geopolitica dei muri, pp. 22-23

Vivina Iannelli, Attenti al muro! pp. 24-25

Ruben Minervini, Invisibili muri, pp. 26-27

Francesco Mancini, I muri di parole e l’occultamento della realtà, pp. 28- 29

Aldo Migliorisi, l’invasione degli acronimi verdi, pp. 30-31

A.L.D., Quanti muri… Troppi!, pp. 32-33

Anteo Quisono, Un vandalo artista, Banksy, p. 34

Pietro Paolo Spucches, Lingua e Cultura per abbattere le barriere, p. 35

Le fotografie, ove non diversamente indicato, sono di Antonio Squeo

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L a tragedia che colpì Pompei nel 79 d.C., seppellendola improvvisamente, ha permesso di conservare, intatte, le testimonianze della sua civiltà. Ma que-sta civiltà non sarebbe ben compresa se, accanto ai reperti “importanti” di natura architettonica ed artistica, non si consi-derassero anche quei frammenti di vita che disegnano un popolo nella sua nor-male quotidianità. I muri di Pompei parlano. Ci restituiscono messaggi d'a-more, formule di augurio, invettive, oscenità, frammenti di poesia, pubblici-tà, campagne elettorali. Leggiamo, ad esempio, MARCELLUS PRAENESTI-NAM AMAT ET NON CURATUR, cioè “Marcello ama Prenestina ma non è ricambiato”, una sconsolata situazio-ne nella quale, ancora e a tutte le latitu-dini, moltissimi giovani possono ricono-scersi. Oppure la bellissima dichiarazio-ne d'amore: MI DICTAT AMOR MO-STRATQUE CUPIDO [AT] PEREAM SINE TE SI DEUS ESSE VELIM, “A me che scrivo, Amore detta e Cupido suggerisce: ma possa io morire se vo-lessi essere un dio senza di te”. Né manca la testimonianza di un bisticcio tra fidanzati: NUNC EST IRA RECENS NUNC EST DISC[EDERE TEMPUS] SI DOLOR AFUERIT CREDE REDI-BIT [AMOR], vale a dire, “Ora la rab-bia è recente, ora è tempo di andar via se il dolore passerà, credi, ritornerà l’amore”. Storie d'amicizia che, attra-verso i muri, hanno sfidato l'oblio del tempo, come in questa iscrizione: FUI-MUS CARI DUO NOS SINE FINE SODALES; NOMINA SI [QUAERIS CAIUS ET AULUS ERANT], cioè “Noi, amici senza fine, siamo stati qui; se vuoi sapere i nomi, erano Caio e Aulo”. Le pubblicità elettorali non sono certo paragonabili alle attuali per in-gombro ed invadenza; riescono, tuttavi-a, a svolgere efficacemente la loro parte, evidenziando i meriti dei candidati. Nell'iscrizione IULIUM POLYBIUM AED(ILEM) O(RO) V(OS) FACIA-TIS), PANEM BONUM FERT, il soste-nitore dice: “Vi prego di eleggere C. Giulio Polibio edile, fa del buon pane”. Tra i compiti della carica di edìle c'era,

infatti, anche quello di controllare il rispetto delle regole della panificazione. Sulle pareti di casa sua, un certo Veso-nio Primo invita a votare per C. Gavio Rufo, ritenuto persona utile alla comu-nità: C. GAVIUM RUFUM II VIR(UM) O(RO) V(OS) F(ACIATIS)/ UTI-LEM R(EI) P(UBLICAE), VESONIUS PRIMUS ROGAT. Un anonimo, invece, chiede che venga votato come duoviro Lucio Rusticelio Celere, attestandone la dignità: L(UCIUM) RUSTICELIUM CELEREM II VIR(UM) I(URE) D(ICUNDO) ITER(UM) D(IGNUM) R(EI) P(UBLICAE) O(RO) V(OS) F(ACIATIS). Anche nell'antica Pompei non mancavano comportamenti poco “urbani”, in grado di suscitare le prote-ste di chi si sentiva danneggiato. La scritta: OTIOSIS LOCUS HIC NON EST DISCEDE MORATOR chiede apertamente agli oziosi di starsene alla larga. Più pressante è l'invito registrato in quest’altra: CACATOR SIC VALE-AS UT TU HOC LOCUM TRASIAS, nel quale si augura al destinatario di stare così bene da andare a fare i suoi bisogni in un posto più lontano. A volte ci si poteva divertire a fare la parodia di versi molto noti, o addirittura dei classi-ci. Come nel caso: HOSPES AD HUNC TUMULUM NI MEIAS OSSA PRE-CANTUR TECTA HOMINIS SET SI GRATUS HOMO ES MISCE BIBE DA MI. Tradotto suona più o meno così: “ Passante, che tu non orini presso que-sto tumulo chiedono le ossa sepolte di un uomo, ma, se sei un uomo di buoni sentimenti, versa (del vino), bevine e offrimene”. L'iscrizione FULLONES ULULAM E(GO) CANO NON ARMA VIRUM(QUE), si deve con ogni proba-bilità ad un autore con una certa cultura letterari a, visto che, utilizzando le prime parole dell'Eneide, Arma virumque

cano (Canto le armi e l'eroe), le stravol-ge in un verso che ha gusto molto mo-derno: “Io canto i lavandai, la civetta, non le armi e l’eroe”. Moderno è anche il tema xenofobo della scritta: BARBA-RIBUS BARBAB ANT BARBAR A BARBIS, cioè “ Cose barbare balbetta-vano sotto le barbare barbe”, cui va almeno riconosciuto, a differenza dei

nostri razzisti attuali, almeno un certo gusto per l'allitterazione. I muri di Pom-pei ospitano anche ri flessioni di tipo esistenziale, come nella scritta: NIHIL DURARE POTEST TEMPORE PER-PETUO CUM BENE SOL NITUIT REDDITUR OCEANO / DECRESCIT PHOEBE QUAE MODO PLENA FUIT VEN[TO]RUM FERITAS SAEPE FIT AURA L[E]VIS, vale a dire “Nulla può durare per un tempo perpetuo: dopo aver ben brillato, il sole ritorna all'Oce-ano, decresce la luna che appena poco fa era piena, spesso la violenza dei venti diventa brezza leggera”. Ma, a volte, il tono declina verso un registro più comu-ne, nell'eterna protesta verso chi fa della frode un elemento della propria attività commercial e, come in TALIA TE FAL-LANT UTINAM ME(N)DACIA COPO TU VE(N)DES ACUAM ET BIBES IPSE MERUM), cioè, “ Vorrei che tali inganni ti si ritorcessero contro, oste: tu vendi acqua ma bevi vino puro”. Insomma, la voglia di scrivere certo non mancava; e sui muri si doveva scrivere così tanto da suggerire a un writer que-sta battuta: “Mi meraviglio, o parete, che tu non sia caduta in rovina, dato che devi sopportare le tante sciocchezze degli scribacchini": ADMIROR, PA-RIES, TE NON CECIDISSE RUINA, QUI TOT SCRIPTORUM TAEDIA SUSTINEAS.

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I writers

del I secolo d.C.

Iscrizione mural e a Pompei

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L’inquietante

muro nero

I l muro può esprimere un'antitesi tra coraggio e viltà, tra libertà e oppressio-ne e spesso esprime un atteggiamento di fronte alla vita. Nell’arco della nostra esistenza costruiamo muri per difender-ci da ciò che riteniamo minaccioso. Gli artisti hanno la sensibilità di individuare e denunciare i muri che l’uomo costrui-sce. E così, nell’arte realistica, i muri sono rappresentazioni oggettive, mentre con Jacques-Louis David e Francisco Goya, nella fase transitoria tra Sette e

Ottocento, rimandano invece a signifi -cati simbolici. Nell’arte astratta o infor-male ameri cana del secondo dopoguer-ra, il muro diventa presentazione di se stesso, capace di evocare signifi cati profondi e di stabilire comunicazioni intersoggettive tra autore e osservatore. L'arte, in quanto strumento di comuni-cazione visiva, è in grado di aprire la mente dell’osservatore per abbattere le barriere dell’ipocrisia e dell’ignoranza, anche se ciò è subordinato all’abilità ricettiva personale. Con l’arte informale

la materia (intesa come materiale da utilizzare) diventa essa stessa prodotto artistico, in grado di rimandare a mondi soggettivi e stati d’animo. Nelle opere d’argilla chiamate Cretti, di Alberto Burri, la materia è essiccata dal calore fino a far emergere screpolature e rughe. È una materia in continuo deterioramen-to a causa della polverizzazione, meta-fora della disgregazione di tutto ciò che è materia, incluso l’uomo. La materia è senza nome, l’amalgama informe in cui tutto si miscela e si confonde. Il muro d’argilla non è più rappresentazione reale e neanche supporto del manufatto artistico. È, superato il tabù della brutta forma, entità viva, pulsante, individuale, modificabile, imprevedibile, deteriora-bile. L’informe è la negazione di una forma preesistente; la forma preesiste solo dentro la mente che la genera.

Gli artisti delle neoavanguardie ribalta-no la visione antropocentrica della cul-tura occidentale, in cui è solo l’uomo ad essere i l punto di ri ferimento dell’universo. Per comprendere la gene-si del muro d’argilla presente nei Cretti, leggiamo un passo di Belpoliti in cui si rievoca Città di Castello, città natale di Burri: “ E ci sono i muri, poi i muri, gra-nulosi, pastosi, opachi…ho voluto per-correrle quelle strade strette tra i muri aguzzi, come fossero le rughe del Gran-de Cretto di Gibellina in Sicilia”.

Francisco Goya y Lucientes El tres de mayo de 1808 en Madrid , 1814 - olio su tela - Madrid, Museo del Prado

Questi muri attendono che la polvere, complice dell ’atto creativo insieme all ’artista,

posandosi attribuisca loro una connotazione unica e casuale.

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Robert Rauschemberg, artista infor-male, creatore della combine painting (pittura in cui si combinano diversi og-getti e materiali) costruisce muri d’oro, neri, bianchi, realizzati con materi ali di scarto come polvere, fango e impasti vari. Questi muri attendono che la pol-vere, complice dell’atto creativo insie-me all’artista, posandosi attribuisca loro una connotazione unica e casuale. La casualità voluta dall’artista evoca il sen-so aleatorio dell’esistenza. È la contrap-posizione tra vuoto e materia. Il muro bianco è il vuoto, la polvere che vi si adagia sopra è la materia. Pensiamo all’installazione Vuoto, esposta a Parigi nel 1958 da Yves Klein, dove il nulla si trova al posto dell’opera.

Sempre nell’ambiente informale, Matta-Clark si serve degli scarti delle costru-zioni abbandonate, nelle quali pratica buchi e rimuove pareti per ridare luce agli edifici. Gli edifici diventano la me-tafora negativa della società consumisti-ca occidentale. Ci sono opere concettua-li che nascono dall’evento storico e non dall’intenzionalità di un artista. Sui muri di molti Lager, ancora oggi, sono visibi-li i segni delle fucilazioni. Alcuni, aper-ti al pubblico, sono stati imbiancati per non impressionare i visitatori con le macchie di sangue. Un'impressionante pozza di sangue occupa invece, voluta-mente, l a part e cent ral e del l a “fucilazione del tre maggio” di Franci-sco Goya. Il dipinto celebra la ribellione popolare del popolo spagnolo nei con-fronti di un regime imposto con la vio-lenza. I soldati francesi di Napoleone non hanno volto, quindi personalità: sono manichini al servizio del potere. I volti dei patrioti sono ben distinguibili, ma non sono eroi, sono solo uomini terrorizzati che hanno comunque avuto il coraggio di dire di no.

Dietro i patrioti c’è un muro. Il muro è la barriera che divide la tragedia in cor-so dalla città che tranquillamente dor-me; è la separazione tra chi agisce se-guendo ideali e passioni e chi per dena-ro è disposto a diventare assassino. Go-ya è un artista moderno, nel senso che ha ormai rotto con le regole classiche dell’uso del colore e della prospettiva e, pur non essendo un artista realistico, le suggestioni che riesce a trasmettere han-no l’efficacia di un reportage fotografi -co. La modernità di Goya fa da ponte tra l’arte celebrativa e idealizzante del pas-sato e l’arte avanguardistica del ventesi-mo secolo. Anche David, pur essendo un classico rigoroso nell’uso del colore e della prospettiva, è un uomo moderno. Nel dipinto la morte di Marat, non c’è il pathos o la passione che c’è in Goya: la figura di Marat non è fatta di sangue e ossa, è di marmo; il suo volto non tradi-sce il terrore provato nel momento della brutale aggressione perché è un eroe, è imperturbabile. Allora, dove sta la sua modernità? Sta nel muro dietro la vasca, nel baratro profondo che separa l a vita dell’eroe dal nulla dell’eternità. Oltre la vita dell’eroe non c’è un meritato para-diso pieno di angeli e anime benedette, c’è la lucida e fredda visione dell’uomo illuminista che non si rifugia nella reli-gione, ma che si fida solo della ragione e della scienza che tutto misura e dimo-stra. Siamo nel 1793, ma già si delinea la visione dell’uomo postmoderno, una condizione più che una visione: non una lucida presa di coscienza, ma un rasse-gnato nichilismo che inghiotte tutto. Il muro dietro la statua di Marat è il cretto deteriorato dal tempo di Burri, è il muro bianco aggredito dalla polvere di Rau-schemberg, è l’edificio ormai inutile e in disuso di Matta-Clark, è l’uomo stes-so, materia in continuo deterioramento che non lascia niente di se, eccetto un mucchietto di polvere.

Stefania Lucia Zammataro

Jacques-Louis David, La morte di Marat, 1793 - olio su tela Musées Royaux des Beaux-Arts, Brussels

E ci sono i muri, poi i muri, granulosi,

pastosi, opachi… Alberto Burri, Cretti

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M uro, muri, mura, muraglia son parole che, oltre alla assonanza sonora e alla parent ela etimologica, hanno una indubbia affinità semiotica, nonostante le pur diverse sfumature che potrebbero assumere a seconda dei contesti discor-sivi e delle culture ent ro cui sono utiliz-zate. Entro certi limiti, dunque, potrem-mo indifferent emente utilizzare una delle suddette parol e per signi ficare uno stesso concetto. Non dimentichiamo, però, che quelle parole potrebbero an-che avere signi ficati pressoché opposti. Si pensi, per esempio, al valore inquie-tante di un muro su cui si stagliano mes-saggi di protesta (scritte, disegni, fumet-ti) in grado di sommuovere, di inquieta-re, di squietare le coscienze, e poi si pensi al muro quietante che mette al riparo e, nel far ciò, acquieta e rassicura. Qui ci occupiamo del muro che acquiet a e rassicura, di quel muro che divide un al di qua da un al di là, in maniera tale che nell’al di qua rientri tutto ciò che è noto, bello e buono, nettamente reciso da ciò che nell’al di là è ignoto, brutto, cattivo, diverso, insolito, inconsueto, difforme e disgustoso. Ciò che è al di là può esser tratteggiato a fosche tinte che rivelano l’obbrobrio da evitare, la mo-struosità con cui non si deve aver con-tatto. Ma si tratta, per l’appunto, di un semplice tratteggio che fa leva sulla emotività, e che non invita all’attenta analisi razional e volta alla comprensio-ne del diverso, del dissimile, del discor-de. Ma non sempre le cose sono così nette. Spesso c’è bisogno di una plurali-

tà di muri, poiché ciò che è discorde e stona può albergare entro l’al di qua, sì che occorrano mura entro le mura, a mo’ delle scatole cinesi. Così, con pre-ziosa maestria, Franz Kafka, nel rac-conto La Metamorfosi, incapsula entro le mura domestiche una famigliola di quattro persone composta da padre, ma-dre, una figlia, Rita, e un figlio, Grego-rio Samsa, che, a sua volta, è condanna-to a vivere ulteriormente incapsulato nella sua stanza, dal preciso momento in cui si ritrova stranamente tramutato in uno scarafaggio. Nell’ appartamen-to, padre, madre e figlia accedono libe-ramente in tutte le stanze, tranne che in quella in cui vivacchia lo scarafaggio Gregorio (pregevole emblema dell a

alienazione umana), al riparo dagli sguardi di chicchessia, ormai carcerato in casa propria, solo e abbandonato da tutti. Solamente sua sorella gli porta da mangiare. Ma ella non sa rendersi conto che quel suo scarafaggio fratello è or-mai diverso. E, per la verità, persino lo stesso Gregorio non ha subito piena coscienza della sua completa trasforma-zione. Ben contento del servigio della sorella, che gli ha portato del latte con pezzi di pane, Gregorio scopre che « il latte, di solito la sua bevanda preferita e perciò appunto messo lì dalla sorella, non gli piaceva più affatto» e, perciò, «si allontanò quasi con disgusto dalla scodella» (FK, M, p. 179). Un essere che ai cibi freschi preferisce «vecchi

Franz Kafka

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legumi, mezzi andati a male, ossi avan-zati dalla cena» (FK, M, p. 181), non può avere più alcunché di umano, nono-stante sino a qualche ora prima fosse stato un normale e comune commesso viaggiatore. L’obbrobriosa vergogna della famiglia dev’essere necessaria-mente segregata in una delle stanze. E nel l e al t re s t anze nessuno più, all’infuori della famiglia Samsa, può avere l’accesso. Anna, la donna di servi-zio, ben conscia dell’imbarazzante tra-smutazione di Gregorio, «aveva pregato in ginocchio la madre di licenziarla subito, e quando dopo un quarto d’ora si era congedata, aveva ringraziato, piangendo, per il licenziamento, come per la maggior prova di bontà che le era stata data in casa e aveva promesso con uno spaventoso giuramento, che non le era stato chiesto, di non svelare mai niente a nessuno.» (FK, M, p. 184). Dunque, la famiglia Samsa non ha chie-sto né imposto alcunché alla governan-te. I Samsa si sono autoesclusi dal resto della società, autosegregati tra le mura domestiche che hanno abbandonato solo per quel tanto ch’era strettamente neces-sario per continuare a vivere, procuran-dosi denaro, con il lavoro, e beni di as-soluta necessità. Ma poi, quando, final-mente, l’obbrobrio Gregorio scarafaggio crep a, sol l evat i e ri nfran cat i , « lasciarono tutti e tre insieme la casa – ciò che non avevano fatto già da mesi – e andarono col tram fuori città in aper-ta campagna» (FK, M, p. 220), lì ove non hanno ricercato né muri, né muretti, né capanne, né muraglie a protezione d’una vergogna, perché la vergogna ormai non c’era più. Sono stati essi stes-si che, sia pur condizionati dalla società, con tutta la sua cultura e con tutte le sue

convenzioni, si sono arroccati tra le mura domestiche. L’ignaro muratore, a suo tempo, ha creduto di costruire pro-prio quelle mura per sola difesa umana dalle intemperie naturali, nulla potendo presagire circa un qualsiasi altro scopo cui sarebbe stata eventualmente destina-ta la sua costruzione.

Il muratore, per quanto possa mal sop-portare il suo lavoro, allorché dedito alla costruzione di abitazioni, pure persiste nelle sue prestazioni, a ciò indotto dal bisogno di denaro, senza il quale non potrebbe vivere: non ha bisogno di po-derose coazioni ideologiche perché si presenti quotidianamente sul cantiere edile. Ben diverso è, invece, il pungolo occorrente a che il muratore si dedichi alla, e persista nella, costruzione di una muraglia. Non è stata certamente cosa da poco la costruzione della Grande Muraglia cinese, lunga seimila chilome-tri (ma pare che si ano anche parecchi di più), non solo per l a grandiosit à dell’opera in sé presa, ma anche perché ha richiesto la mobilitazione di tante forze umane a rischio di probabile ri fiu-to e sollevazione, se solo un momento esse si fossero riposate, si fossero fer-mate per lasciar lavorare la mente, onde rifl ettere sulla inanità dell’impresa.

A fferma, a tal proposito, Luis Bor-ges che «Recingere un orto o un giardi-no è cosa comune; non così, recingere un impero. E neppure è una bagatella pretendere che la più tradizionalista delle razze rinunci alla memoria del suo passato, mitico o vero. Tremila anni di cronologia avevano i cinesi […] quando Shih Huang Ti ordinò che la storia co-minciasse da lui.» (JLB, p. 907). È noto, infatti, che l’imperatore cinese Shih Huang Ti (259-210 a. C.), oltre ad aver impartito l’ordine della costruzione della Grande Muraglia, impose che ve-nissero distrutti tutti i libri esistenti, fatta eccezione per quelli con contenuto strettamente tecnico e scienti fico, allo scopo di cancellare tutto il passato della Cina precedente il suo regno. Ora, nella comprensione dei possibili meccanismi coercitivi usati per mettere all’opera un’ingente quantità di manodopera, ci soccorre Franz Kafka che, sia pure a modo suo, con un testo letterario che non ha pretesa alcuna di verità storio-grafica, non dev’essere andato molto lontano da ciò che realmente sarà acca-duto durante la costruzione della mura-glia cinese. In ogni caso, è qui fuori luogo l’attendibilità del testo kafkiano, cioè la corrispondenza tra fatti narrati e fatti realmente accaduti. I testi di Kafka, suscettibili di una pluralità di interpreta-zioni, hanno senza dubbio anche il ca-rattere di parabola. E qui intenderemo quel racconto kafkiano che ha per titolo Durante la costruzione della muraglia

cinese proprio come una parabola: sosti-tuendo a “ costruzione della muraglia” una qualsiasi altra grande impresa, le cose cambierebbero non nella sostanza, ma solo per piccole sfumature. Perché, si chiede la voce narrante del racconto, dev’esser costruita una mura-glia di lunghezza sterminata? Essa a-vrebbe lo scopo di proteggere l’Impero cinese dai popoli del nord. Ma quei po-poli non sono mai stati visti, «e se non ci allontaniamo dal nostro villaggio non li vedremo mai, neanche se in groppa ai loro cavalli selvaggi si lanciassero di-rettamente verso di noi – troppo grande è il paese e non li lascerebbe avvi cinar-s i, di sori entati s i smarr irebbero nell’aria.» (FK, C, p. 405). Tuttavia, l’Impero va protetto in ogni caso, anche da pericoli che si verificherebbero con probabilità infinitamente piccola, per-ché, anche se « il singolo imperatore cade e crolla e persino intere dinastie finiscono col decadere e spirare in un solo rantolo» (FK, C, p. 408), esso è sacro, in quanto « immortale» (ibidem). Inutile, poi, farsi tante domande a cui

Jorge Luis Borges La grande muraglia cinese

Perché, si chiede la voce narrante

del racconto, dev’esser costruita

una muraglia di lunghezza sterminata?

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non può seguire alcuna razional e rispo-sta. Per giunta, ai «migliori» era stato inculcato il seguente principio: «Cerca di comprendere con tutte le tue forze le disposizioni dei dirigenti, ma soltanto fino a un determinato limite e poi smetti di pensarci.» (FK, C, p. 404). L’Impero, «una delle nostre istituzioni più oscure» (FK, C, p. 406), dice la vo-ce narrante, ha pazientemente coartato le coscienze sino a illuderle, poi, facen-do credere di prender parte a un grande progetto utile al popolo nella sua inte-rezza. Afferma i l narratore che «L’opera non era stata intrapresa con l eggerezza. C inquant ’anni pr ima d’incominciarla si era dichiarato, in tutta la Cina che doveva essere cinta dal muro, che l’architettura e in parti-colare il mestiere del muratore erano l e

scienze più importanti e che tutto il re-sto era ammesso solo in quanto era in rapporto con quelle. Ricordo ancora benissimo che da bambini, appena saldi sulle gambe, eravamo nel giardino del nostro maestro e dovevamo costruire con sassolini una specie di muro, e che il maestro reggendo i lembi della veste corse contro il muro, rovesciò natural-mente tutto e ci rimproverò per la debo-lezza della costruzione, così aspramente che scappammo piangendo di qua e di là, cercando rifugio presso i genito-ri.» (FK, C, pp. 399-400). I più esposti al rischio dell’alienazione, durante la costruzione della grande mu-raglia, erano, indubbiamente, i capi diri-genti perché essi, più degli altri, avreb-bero potuto perdere «ogni fiducia in sé, nella costruzione, nel mondo» (FK, C, p. 401). Ed è per questo che viene esco-gitato il sistema delle costruzioni parzia-li: ultimata la costruzione di cinquecen-

to metri di muraglia, tutti vengono tra-sferiti altrove e, durante il viaggio, han-no modo di adocchiare altre costruzioni parziali della muraglia, con all’opera operai e ingegneri ancora contenti e felici di partecipare a simile grande im-presa. E poi essi «udivano nei luoghi sacri i canti dei devoti che pregavano per il compimento della f abbri -ca» (ibidem). Allorquando, poi, giunge-vano nei propri villaggi di origine, «La vita tranquilla del proprio paese dove trascorrevano qualche tempo dava loro novello vigore, l’autorità di cui godeva-no tutti gli addetti alla costruzione, la fiduciosa umiltà con cui erano ascoltate le loro notizie, la fiducia che il cittadino semplice e tranquillo riponeva nel futu-ro compimento della Muraglia, tutto ciò contribuiva a tenere tese le corde dell’anima. Come fanciulli animati da perpetua speranza prendevano poi com-miato dal luogo natale, la smania di riprendere il lavoro all’opera del popo-lo diventava incoercibile. Partivano da casa prima che fosse necessario, metà del villaggio li accompagnava per lun-ghi tratti. Per tutte le strade crocchi, vessilli, bandiere: non avevano mai visto quanto fosse grande e ricco e bello e amabile il loro paese. Ogni contadino era un fratello per il quale si costruiva il muro di protezione e per tutta la vita egli era grato con tutto ciò che era e possedeva. Unione, unione! Spalla a spalla, una danza di popolo, il sangue non più imprigionato nel meschino cir-colo delle membra, ma scorrente con dolcezza e con perpetuo ricorso attra-verso la Cina infinita.» (ibidem).

L a muraglia, molto più che le mura domestiche, ha la funzione precipua di contenere dentro e di tenere sotto con-trollo l’ammissibile, lasciando fuori tutto ciò che, in quanto diverso, è inam-missibile. La muraglia, ancor più che le mura domestiche, separa la sacralità dalla diabolicità. Ora, chi, prosaicamen-te, non crede nella propria sacralità contrapposta all’altrui demonicità a-vrebbe la possibilità, se solo lo deside-rasse e all’uopo si industriasse, di inizia-re a scal fire muri e muraglie, nella spe-ranza che sempre più mani possano ag-giungersi all’opera demolitrice, sì da poter mostrare che l’altro che è al di là, tutto sommato, non è quel gran mostro che il potere ha sempre dipinto come abominevole. Ma – ci sia permessa un’ultima considerazione – c’è un nuo-vo tipo di muro, ben più pericoloso e diffi cile da demolire. È proprio quello domestico, in genere del salotto o della camera da letto, che fa da cornice al televisore, di dimensioni sempre più grandi, che comunica univocamente, perché mostra e parla ma non ascolta e così ammaestra e può ottenebrare e ob-nubilare le cosci enze. A nulla varrebbe lo spegnimento del proprio televisore. A nulla varrebbe il lancio della propri a scarpa contro il proprio monitor televisi-vo: mille e milioni di altri muri conti-nuerebbero a far da cornice a monitor ottenebranti. Occorrerebbe, piuttosto, uscir fuori di casa ed escogitare strate-gie per una riappropriazione massicci a della piazza intesa, sì, come luogo fisi-co, topografico, ma anche, e soprattutto, come luogo simbolico deputato alla aggregazione, in cui sono possibili la discussione, il dialogo e il confronto. Ma a questo punto occorrerebbe aprire un altro universo di discorso che, però, rimandiamo a una prossima occasione.

Franco Paradiso

Referenze bibliografiche

FK, M: FRANZ KAFKA, La metamorfosi, in FRANZ KAFKA, Racconti, a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 1973, pp. 157-220. FK, C: FRANZ KAFKA, Durante la costruzione della muraglia cinese, in FRANZ KA-FKA, Racconti, a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 1973, pp. 398-417. JLB: JORGE LUIS BORGES, La muraglia e i libri, in JORGE LUIS BORGES, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Milano, Mondadori, 1994, vol. I, pp. 907-910.

La muraglia, molto più che le mura domestiche, ha la

funzione precipua di contenere dentro e di tenere sotto controllo l ’ammissibile, lasciando fuori

tutto ciò che, in quanto diverso, è inammissibile.

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Intra e fora. Intra e fora. E su fazzu un passo avanti sugnu fora e chiuru questa porta. O a lassu aperta che tanto non ha importanza. E allora putissi andarmene. Furiare il mondo. Anche se il mondo é solo quello che trovo scinnennu le scale. Ma andrebbe bene lo stesso che tanto non cè differenza. E se torno indietro invece trovare rifugio e cunottu macari. Che fuori la gente è tinta. Malata. Che non cè nenti fora. Che non cè.

Certo. Putissi macari arristari cà e aspittari i fulinii che si fanno parete supra i me razza. Na me testa. In mezzo alle mie gambe. Senza chiù respirari. Futturi. Pinsari. Moriri insomma. Arristannu vivo. Intra e fora. Intra e fora. Che tutta la differenza alla fine sta in un muro. Epperò ogni muro ciavi puttusa e punti deboli e terremoti anche. Pronti a distruggerlo. A farne ricordo. E non serve chiedere aiuto che il muro uno quasi sempre se lo porta ma-cari ca non si viri e ci appoggia lanima susciannu. Chinu di pinseri.

Intra e fora. Intra e fora. U sacciu. Lunica cosa buona fussi abbiarli nterra sti mura. E abballari. Abballari supra alle macerie. Senza più sapere unni è intra. Unni è fora. Intra e fora. Intra e fora.

Dario D’Angelo

“Ci sono solamente 10 tipi

di persone nel mondo:

chi comprende il

sistema binario

e chi no”

Intr

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fora

Supplemento a Sicilia Libertaria n°294 - aprile 2010. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registrazione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fotocopiato presso Fast Service Digital Photo, via Antonino Longo n. 36/a –

Catania. La Redazione, composta da volontari, si riunisce periodicamente in un Comitato di reLazione. Chiunque, condividendo i princìpi antifa-scisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettroni-ca: [email protected]. Sul sito htpp://rivistalarcobaleno.blogspot.com è possibile leggere e scaricare i numeri arretrati e gli approfondimenti tematici.

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I l muro ha sempre simboleggiato qualsiasi tipo di barriera, anche psicolo-gica, che impedisce la comunicazione, imprigiona gli istinti, sterilizza il con-fronto e, quindi, rende le diverse realtà invalicabili perché chiuse a di fesa di spazi specifici, indisponibili per le nor-mali relazioni sociali. Si alzano muri per difendersi e per imporre qualcosa. Si costruiscono muri per tutelare privilegi, ma anche per nascondere paure e nevro-si che non si ha il coraggio di affrontare e delle quali, spesso inconsciamente, non si ha la capacità di disfarsi. Il muro come barri era invalicabile entro la qual e costruire uno spazio di “ potere” che, nella misura in cui allontana alcuni ed imprigiona altri, crea le condizioni per la peggiore solitudine, quella che rende gli uomini chiusi, oltre che agli altri, anche a se stessi. I muri non finiscono mai, e non si fa a tempo a sberciarne uno che già ne sono pronti tanti altri, sempre più forti ed invalicabili. E non c’è eccezione a questa proliferazione di muri. Nello specifico mafioso i muri hanno rappresentato sempre un potere, pressoché sconosciuto ma incombente, in grado di costruire barriere insuperabi -li, volte a creare un’aura d’invincibilità del mafioso. Tali barriere, creando di-stanze arti ficiose, rendono meno percet-tibili le debolezze, fisiche e psicologi-che, che un uomo d’onore non può per-mettersi. Per questo è forse utile passare da un’idea, per molti versi folkloristica,

dell’omertà intesa solo come muro ma-fioso, come si s t ema di di fesa dell’ organizzazione criminal e, ad un’analisi di tipo psicologico. È quanto suggerisce il gruppo guidato dal profes -sor Girolamo Lo Verso, dell’Università di Palermo, in una ricerca che intende approfondire l’antropsichismo mafioso.

Infatti, se si vuole attaccare la mafi a dall’interno dei suoi codici culturali per smascherarla negli aspetti meno edifi-canti e addirittura “ mostruosi”, perfino per gli aderenti, è necessario capire le fragilità del mafioso, che ci sono, come in ogni essere umano, anche per indivi-duare i luoghi dove egli trova la vera forza della sua legittimazione sociale. Il termine omertà probabilmente deriva dall’etimo latino humilitas - umiltà, che è possibile abbia subito la degenerazio-ne lingui sti ca impost a da idiomi dell’Italia meridionale, all’interno dei quali si è coniato il termine umirtà. Più che un termine, una parola, nel suo più ampio significato antropologico, che

vuole segnare una caratteristica domi-nante del soggetto positivo che, più che giudicare, marchia come infame e pre-suntuoso chiunque propali ad estranei informazioni d’interesse del clan di appartenenza. C’è, in questo atteggia-mento, la difesa del potere del clan, ma anche lo speci fico del suo prestigio cri-minale, che è supportato da un ricono-scimento sociale manifestato attraverso un consenso tributato dal resto della collettività, che va ben oltre l’effetto dell’intimidazione manifest ata e della violenza praticata. Un’organizzazione mafiosa vive del suo essere part e di un territorio, nella sua componente fisica e sociale, ma nel contempo ne deve essere al di sopra, abbastanza da suscitare la consegna della riservatezza dei tanti che ne conoscono il potere e ne accettano, senza condizioni, la presenza. Tuttavia, le cosche mafiose, tradizionalmente dotate di una notevole capacità di adat-tamento, non possono evitare di fare i conti con la modernizzazione che ri -guarda soprattutto due fattori fondamen-tali per la loro organizzazione: i passag-gi dei cicli dell’economia e le trasfor-mazioni dei codici culturali. Non è un mistero per nessuno che una società globalizzata costringe a modificare pro-fondamente i tratti della presenza mafio-sa che, indubbiamente, oggi declina in modo diverso tutte le parole che descri-vono il suo potere. Perfino le diverse forme dell’omertà vivono in dimensioni ben più ampie e tecnologicamente sofi -

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Nello specifico mafioso i muri hanno rappresentato sempre un potere, pressoché sconosciuto ma incombente,

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sticate, quando si misurano sui terreni della transnazionalità del crimine orga-nizzato. Eppure, probabilmente, sbaglie-rebbe quell’analista che, enfatizzando troppo le modifi cazioni intervenute all’interno di cosa nostra, ritenesse del tutto superate le forme in cui l’omertà si manifesta nella sua territorialità. Sarà capitato a tanti, anche ai più giovani, di vedere in Tv un celebre servizio giorna-listico del grande giornalista Joe Mar-razzo, girato agli inizi degli anni ’60 nella Corleone rurale dei grandi boss, già allora in ascesa. Alle domande fic-canti del cronista seguivano porte e per-siane pesantemente chiuse in faccia alla troupe e mezze frasi seguite da fughe quasi grottesche. Era, quella, una Corle-one, come tanti altri paesi del Meridio-ne, soffocata dalla compresenza del sottosviluppo socio-economico e dalla mafia, allora ancora agraria e appena apertasi ai grandi affari dell’edilizia urbana. Ma, in anni molto più recenti, alcuni servizi girati in un residence e nei corridoi ovattati di un’importante azien-da della Milano simbolo della moderni-tà, non diedero risultati tutto sommato diversi, se si eccettua il fatto che a s fug-gire goffamente davanti alle telecamere, o a balbettare impauriti ai microfoni non c’erano vecchietti sdentati e anziane donne coperte di scialli scuri, ma signo-re ossigenate e manager dagli evidenti colletti bianchi. Era facilmente rilevabi-le che tra l’opulenta borghesia lombar-da, come tra i contadini siciliani, in quelle situazioni uniti in un “sentire” omertoso, serpeggiava la paura di chi conosce il fiato della mafia. Ma si tratta-va solo di questo? Oppure c’era anche il sentirsi un po’ parte di quel mondo che, se da una parte non si apprezzava aper-tamente, dall’altra non si comprendeva fino in fondo perché dovesse essere combattuto?

Conoscere le ragioni per combattere la mafia signifi ca essenzialmente averl a destrutturata nel suo immaginario, inter-no ed esterno all’organizzazione, e ave-re fatto, talvolta drammaticamente, i conti con se stessi. In questo senso, ogni giorno la vita chiede a tanti di prendere posizioni contro le mille forme, anche le meno eclatanti, in cui le mafie attent ano alla dignità delle persone, nella loro dimensione individuale e collettiva.

Qualcuno ha interpretat a questa dignità in condizioni oggettivamente “ estreme” e per questo la vita ha chiesto loro un tributo molto più difficile e lacerante. Il riferimento è a chi ha voluto abbattere il muro dell’omertà che proteggeva la sua stessa casa e i suoi stessi familiari.

Coloro che, per liberarsi dalla mafia, hanno dovuto incidere la carne e il san-gue dei loro affetti più intimi come Rita Atria e Peppino Impastato, due giova-ni diversissimi per storia e temperamen-to, ma che rappresentano la ribellione “terribile” ad un destino di mafia, già segnato dalla loro appartenenza a fami-glie mafiose. Entrambi conclusero tragi -camente la loro di fficilissima esistenza, sostanzi almente entrambi assassinati dalla mafi a, anche se Peppino fu fatto saltare dai sicari su di una carica di tri-tolo, mentre Rita saltò di sua volontà dal terrazzino di un anonimo condominio romano, dove viveva nascosta come testimone di giustizia. Fu in quella soli-tudine che Rita, appresa la morte del suo giudice - papà Paolo Borsellino, pur senza deflettere dalla sua scelta di vita, ritenne di non potere più andare avanti. Illuminanti in questo senso, le parole tratte dal suo diario: Prima di combattere la mafia devi farti un auto-

esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi

combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il

nostro mondo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui cre-

devi, ma io senza di te sono morta. Spe-culare in termini di assunzione di re-sponsabilità la frase attribuita a Peppino Impastato nel drammatico dialogo con suo fratello Giovanni, vicino alla casa del boss Badalamenti, nel film sulla sua vita “ I cento passi”: Sai contare…sai camminare… e contare e camminare

insieme lo sai fare? ...Allora forza con-ta e cammina… 97-98-99- cento passi.

Lo sai chi ci abita qui? U zu Tanu ….

Cento passi ci sono da casa nostra…. Forse, dopo la lettura di queste frasi non c’è molto da aggiungere sull’omertà e su tutti i codici culturali che supportano la presenza della mafi a, in tutte le forme in cui si manifesta.

Giovanni Abbagnato

...ogni giorno la vita chiede a tanti di prendere posizioni

contro le mille forme, anche le meno eclatanti, in cui le mafie attentano

alla dignità delle persone...

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U na delle caratteristiche peculiari del paesaggio mediterraneo è testimo-niata dalla presenza di una fittissima rete di muri a secco in pietra calcarea. In alcune regioni, come la Puglia, tale pre-senza assume un rilievo straordinario in quanto, tranne le distese cerealicol e della Capitanata, i muri a secco di pietra disegnano un groviglio ordinato di rica-mi quasi senza soluzione di continuità, le cui propaggini, non di rado, penetra-no persino nei centri storici. In questa regione si trovano fino a 14 chilometri lineari di muretti a secco per chilometro quadrato (cfr. la Carta Topografica d’Italia 1:25.000 relativa alla Puglia). Il fenomeno, com’è noto, va ricondotto alla speciale intimità che l’uomo medi-terraneo ha sperimentato, nei secoli, con quell’elemento che ha permeato a lungo e profondamente la sua stessa civiltà: la pietra. L’uso e la raccolta (spietratura) sapiente di questo material e non solo ha permesso al contadino pugliese di con-quistare l’80% del territorio alle attività storicamente prevalenti, quali la pastori-zia e l’agricoltura, ma ha consentito la costruzione di un articolato e complesso sistema di manufatti rurali, che ancora oggi si dispongono e si confondono senza distonie nell’ambiente circostante. I muretti a secco rispondono, natural-mente, ad una molteplicità di esigenze simboliche e produttive: recinti per l e bestie, delimitazioni di strade, di trattu-ri, di confini delle proprietà e degli ap-pezzamenti anche minuti, protezione di masserie e di seminativi, di orti, di vi-gne, di ulivi e alberi da frutta dei “giardini”.... Tra tutte queste funzioni ve n’è una assolutamente peculiare e in gran part e ancora misconosciuta. Data l’altissima permeabilità delle rocce calcaree, che costituiscono l’ossatura geologica della Puglia, e l’assenza di un reticolo idro-

grafi co superfi ci ale sempre att ivo, l’acqua è sempre stata considerata una risorsa preziosa, per il cui possesso e conservazione gli uomini hanno speri-mentato a lungo e con fatica il loro in-gegno. Gli innumerevoli pozzi e cister-ne che si rinvengono ovunque nelle in-senature delle lame pugliesi servono appunto a catturare le discese pluviali, prima che il sole le trasformi in vapore e prima di essere inghiottite dalle gruviere calcaree della terra.

In questo ambiente, delicato e sitibondo, i muretti a secco sono in grado di capta-re giornalmente dall’atmosfera una quantità d’acqua che trasferiscono nel suolo contribuendo, soprattutto nei pe-riodi più caldi e secchi dell’anno, all’alimentazione delle piante a loro più prossime. Questi speciali manufatti fun-gono, insomma, da veri e propri con-densatori di vapore atmosferico. Se la quantità di vapore contenuto nell’aria risulta, secondo un noto principio, diret-tamente proporzional e alla temperatura dell’atmosfera, ne consegue che col procedere del riscaldamento solare au-menta la percentuale di vapore acqueo, che si espande “ penetrando nei meati delle rocce e nei corpi naturali, a loro

volta riscaldati, sino al limite di satura-zione. Cessato il riscaldamento diurno, ha inizio il raffreddamento dell’aria, delle rocce, del suolo, che culmina all’alba, quando il sole sorgente inizia il nuovo riscaldamento diurno. Per effetto del graduale raffreddamento le minute goccioline, che via via si condensano sulle superfici delle rocce e dei muretti, diventano soggette alla gravità e inizia-no la discesa lungo i pori o le fessure, sino a raggiungere il suolo sottostante. Il terreno assorbe quest’acqua, sino a satu-razione, per ridistribuirla agli apparati radicali delle piante che si spingono fin sotto ai muretti per rifornirsi del liquido necessario” (C. Cantelli, Umanesimo della Pietra-Verde, gennaio, 1994). Si calcola che l’assorbimento idrico dovu-to ai muretti possa raggiungere il 30% in più dell’apporto dovuto alla piovosità media annua, che in Puglia risulta essere compresa tra 600 e 800 millimetri. I muretti a secco risultano perciò origina-lissimi accumulatori di risorse idriche, in quanto proteggono l’acqua di conden-sazione, che si deposita di notte al loro interno, dalla inevitabile evaporazione diurna. Inoltre, i muretti a secco impedi-scono al sole di riscaldare la superfici e all’interno del perimetro d’appoggio, favorendo la protezione delle piante basse e dei microambienti che si svilup-pano alla base. La presenza accertata e diffusa in molti paesi aridi di simili ma-nufatti in grado di catturare l’acqua per condensazione, documenta l’ingegnosa risposta dell’uomo alle avversità clima-tiche, ma ci induce anche al confronto e alla riscoperta di una sapienza ambien-tale la cui utilizzazione può risultare ancora oggi, a fronte delle emergenze idriche destinate a crescere sempre più nel nostro tempo, assolutamente indi-spensabile. Oltre alla funzione estetica e produttiva, l’uso che la pietra trova nei muretti a

Fontane

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...i muretti a secco sono in grado di captare giornalmente dall ’atmosfera una quantità

d’acqua, che trasferiscono nel suolo contribuendo, soprattutto nei periodi più caldi e secchi dell ’anno, all ’alimentazione

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secco anche al fine di aumentare, a bas-so costo, le risorse d’acqua disponibili, ci deve far ri fl ettere sull’utilizzo dissen-nato del territorio, con la conseguente distruzione dei segni e dei manufatti, con l’impiego massiccio di cemento per le nuove recinzioni e, soprattutto, con la pratica dello spietra mento, ovvero la frantumazione meccanica delle rocce calcaree affioranti e spesso anche di quel che resta dei muri a secco in disfa-cimento. L’uomo che continua ad abita-re i luoghi assetati, dove lo “ scirocco avvampa”, ha il compito di riconoscere in queste fontane di rugiada una risor-sa troppo preziosa per la sua stessa so-pravvivenza e, come tale, deve impe-gnarsi concretamente a tutelarla dagli assalti ciechi e veloci dei falsi progressi. Piero Castoro

Oltre la disabilita’:

i muri del pregiudizio

M uri: eretti per costruire, spesso per dividere. Muri: creati non solo per frazionare porzioni di territorio ma so-prattutto per interporsi fra due idee, due concetti. Un muro di mattoni e cemento si può abbattere, e la storia ci dice che questo è accaduto. Ma un muro che divide due idee è più difficile da elimi-nare e si radica più profondamente nel tessuto sociale. Il muro dei pregiudizi è quello che più influenza il comporta-mento umano, al punto da compromet-terne le azioni. Pregiudizi razzi ali, reli-giosi, sessuali; pregiudizi comporta-mentali, politici, sociali. Muri elevati dall’uomo per contrapporre concetti fra loro, senza possibilità di un interscam-bio fra due idee diverse. Le barriere innalzate dai muri costituiscono cert a-mente un ostacolo a qualsiasi attività

umana, fisica o concettual e. Per questo vanno necessari amente eliminate. E questo lo si può fare in modi diversi a seconda della sostanza.

Un muro di mattoni, si diceva, lo si può abbattere. Diverso è il discorso nel caso di un muro eretto fra idee contrappost e. Occorre tirar fuori tutta l’intelligenza di

cui si dispone per capire, innanzitutto, il perché della contrapposizione, tutta la sensibilità di cui il nostro essere è capa-ce per non deridere o, peggio, sottomet-tere idealmente chi non pensa come il più fort e. La capacità umana di com-prendere non è illimitata, ma proprio nello sforzo di capire, nell’ utilizzare tutte le risorse di cui si dispone, si ha quella giusta tensione che poi, inequivo-cabilmente, porta alla verità. Verità non assoluta, ma relativa alla circostanza particolare. Occorre valutare con sag-gezza la situazione in essere e non er-gersi a giudice supremo alla maniera dell’Ipse dixit. La costante ricerca della verità porta alla libertà dell’individuo perché la conoscenza reale dei fatti comporta l’ulteriore sviluppo della sin-tesi critica, senza il condizionamento di passioni o preconcetti.

Chi vive una situazione di disagio fisico, poi,

deve combattere contro molti altri muri fisici e reali e,

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C osì il muro creato fra due posizioni diverse può essere rimosso, anche se non facilmente, o per lo meno incrinato nella sua solidità. Chi vive una situazione di disagio fisi-co, poi, deve combattere contro molti altri muri fisici e reali ma, soprattutto, concettuali. È diffi cile per un diversa-mente abile affrontare la realtà quoti-diana, costituita da innumerevoli barrie-re architettoniche. Diventa più ostico combattere contro la convinzione di molti secondo la quale un disabile è sempre e comunque un minorato (con tutte le accezioni, esplicite o implicite che il termine comporta) e pertanto da meno di un essere normale. Questo perché la nostra società ci ha abituati alla ipervalutazione di un estetismo becero e banale per cui chi è bello, pre-stante, formoso ed atletico è valido in tutti i sensi, mentre un individuo co-stretto, ad esempio, su di una carrozzina non lo è. Anzi, merita solo un pietismo di seconda mano adattato alla specifi ca circostanza. Si dimentica spesso che non è l’esteriorità ad essere preval ente-mente importante, ma quello che si ha dentro e come lo si esprime. Non im-porta, quindi, come si è fatti: in realtà le i dee sono mol to più important i dell’aspetto fisico. Comprendere questo vuol dire dare una valutazione differen-te degli individui, utilizzando parametri inusuali in una società sottomessa a valori prettamente rivolti alla celebra-zione della fisicità pura e semplice.

Quante volte ci è capitato di fermarci davanti ad un muro, magari osservando un manifesto pubblicitario, lasciando andare in piena libertà la fantasia. E ci si ritrova a fantasticare su quelle cose o su quel paese che ci affascina. La nostra mente viaggia cercando di superare l’ostacolo frapposto fra noi e l’infinito che ci nasconde, così come nella mitica siepe leopardiana che “ tanta parte dell’ultimo orizzonte lo sguardo esclu-de…”. E, come per Leopardi, il fantasti-care (o l’immaginare) è la ricerca di un infinito non più così lontano, in quanto le distanze ed il tempo vengono quasi annullati dalla forza immaginifica della nostra mente. La nostra fantasia, poi,

cerca quello che la realtà, nella sua con-tingenza, ci nega, limitando la nostra libertà di ricerca. Quindi il nostro obiettivo è quello di cercare l’essenza delle cose, ma soprat-tutto la loro intrinseca verità. Così il muro viene abbattuto e non rappresenta più un impedimento. Ci si svincola dal-la mera costrizione in cui ci racchiude il contenitore fisico: il muro non è più un ostacolo ma un mezzo attraverso il qua-le si riesce a interagire, a pensare, a fantasticare. La nostra libertà di pensiero, libera or-mai da vincoli materiali, aleggia in tutti i campi e si esplica totalmente senza dover chiedere permessi. In tutto questo la nostra immaginazione viaggia in totale libertà e le barriere (fisi che, ar-chitettoniche e morali) cadono sotto i colpi di maglio della superiorità della mente, che termina di essere schiava delle costrizioni, qualunque esse siano. Giacché schiavo non è chi ha una cate-na al piede, ma chi non riesce ad imma-ginare una vita in libertà.

Leonardo La Forgia

Il muro dei pregiudizi è quello che più influenza il comportamento umano

al punto da comprometterne

le azioni.

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“ Il marxismo intorpidito mette tutto in tutto, rende gli uomini reali simboli dei suoi miti; così si trasforma in sogno paranoide la sola filosofia che possa realmente cogl iere l a complessità dell’essere umano”. Con queste parole Jean Paul Sartre, in “ Questioni di metodo”, prendeva le di-stanze dai marxisti ortodossi, quelli che sacri ficavano le speci fi cità della vita delle persone pur di applicare a quella vita e alle condizioni in cui essa si spie-gava le categorie del marxismo. Proprio in questa frase, Sartre sottolinea che il marxismo è la sola filosofia in grado di dire la vita, di percorrerla nel suo svilup-po dialettico, sempre calato in un intrec-cio di contingenze che lo determinano nel profondo e non lo lasciano mai total-mente libero. Ma la libertà è proprio nella possibilità di scegliere a partire da quelle condizioni, nel fatto che quelle condizioni non siano un vincolo, ma l’oggetto privilegiato dei propri bisogni e della propria vita. La libertà è in quelle stesse condizioni in cui si oggettiva l’interiorità dell’uomo. Ma quando l’esame dell’oggetto storico risulta sche-matizzato e inscritto nelle categorie del marxismo, esso rischia di costituirsi come un “ muro” che si interpone fra il soggetto e la realtà. Le lenti offuscate di una filosofi a dinamica, vitale, ma fissata in una serie di definizioni assolute, ri-fl ettono una realtà deforme, adattata ai pregiudizi che orientano il giudizio. L’ apriorismo isterilisce la vita riducendola a un movimento meccanico, sempre identico, regolato da principi che ignora-no le reali dinamiche in cui si articola la vita. Ignorando le persone in carne e ossa, pur di rispecchiarsi nelle costruzio-ni intellettuali che stimolano i propri studi e le personali speculazioni filosofi-che. Per Sartre “ solo l’esame senza pregiudi-zi dell’oggetto storico potrà, in ogni caso, determinare se l’azione o l’opera riflettono i moventi strutturali di gruppi o d’individui formati da certi condizio-namenti di base, o se esse vanno spiega-te riferendosi immediatamente alle con-

traddizioni economiche e ai conflitti d’interesse materiali”. Per i marxisti è necessario adattare il progresso storico alla generalità e all’astrattezza della teoria marxista, che si specifica in ogni data condizione. In questo modo, sia la teoria che i compo-nenti di una data situazione storica si concretizzano, prendendo posto nel si-stema ben strutturato del marxismo. Ne deriva una continua feticizzazione della vita stessa, che viene considerata un mezzo per l’attualizzazione della teoria marxista, che altrimenti resterebbe vuo-ta, appunto astratta , e obsoleta. Il marxista è indotto a ritenere apparente il comportamento reale di una persona e

il suo pensiero, e quando dissolve il par-ticolare nell’universale pensa di aver finalmente ridotto l’apparenza a verità. Ma questo modo di guardare il mondo ci ha allontanati dalla vita vera, dalla vita vissuta, portandoci a vivere in una storia di concetti rei ficati, estranei al mondo concreto, quello che viviamo ogni gior-no. La vita è fatta di persone con storie uniche, di dolori provati sulla pelle, di sentimenti inespressi, di gioie rubate al mondo sempre più veloce, esigente. La vita è fatta di sangue e sudore, ed è da quel sudore che bisogna partire per portare le nostre idee a scontrarsi in ogni momento con i fatti, a fare i conti con la fatica del lavoro, con la fame domata dei giovani, con le mani sporche di olio e benzina. Perché da quelle mani si fa il mondo, bisogna sporcarsi le dita, la fac-cia, metterci il cuore, per ripartire da chi la storia la fa tutti i giorni. I muri ci hanno diviso dal campo in cui quella filosofia, l’unica che può dire l’uomo, l’unica fatta di uomini, è nata, si è fatta, dando voce alle lotte sanguigne di operai concreti ma sognatori. Il mar-xismo ha ridotto l’uomo a variabile di-pendente dal principio, dalla teoria, alie-nando quella teoria dall’unica voce che può confermarla, che può farl a crescere. Perché con la storia bisogna farsi male, bisogna prendere Marx e sbattergli in faccia la realtà amara di laureati disoc-cupati, di giovani ricercatori precari, di operai costretti a rischiare la vita sul posto di lavoro. Così la teoria torna a fare i conti con la prassi, si carica di significati, torna a riempire le categorie di principio con storie di vita, fa crollare i muri per mostrare il mondo di Valéry, il singolo intellettuale piccolo borghese che tutti i marxisti avevano sfruttato per dare s foggio alle proprie dispute sovra-strutturali, a cui Sartre vuole ridare un minimo di dignità. Perché “ Valéry è un intellettuale piccolo borghese, non c’è nessun dubbio. Ma non ogni intellettuale piccolo borghese è Valéry”.

Giacomo Pisani

Sbattere contro

il muro

dell’ideologia

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I n questo splendido quadro del Quat-trocento tedesco, la cinta muraria e mer-lata si veste di sogno e di poesia. Come se fosse appollai ato sopra un alto albero, l’artista volge lo sguardo al di là del muro e ce ne restituisce una dettagliatis-sima descrizione. Soprattutto, però, rie-sce ad infonderci un senso di pace, di armonia, di equilibrio che sembra non poter esistere fuori dai confini segnati da quelle mura. Siamo in un giardino chiuso, un hortus conclusus che, ripren-

dendo un tema biblico, dal medioevo era divenuto un attributo della purezza della Vergine, un chiaro ri ferimento alla sua illibatezza. In questo spazio netta-mente delimitato, oltre alla Vergine, placidamente assorta nella lettura, ritro-viamo Gesù Bambino, tre sante e tre santi. La superficie del quadro è ricoper-ta completamente da erbe, fiori, frutti, uccelli. È l’Eden, la scena della vita felice della prima coppia umana. Qui viene evocata l'antica, originaria armo-nia dell'universo, l'unione del divino e

dell'umano, del mondo animale e vege-tale, dove il peccato ed il male sono presenti solo in una forma latente e inof-fensiva. La scimmia/Satana (A) è ac-quattata impotente ai piedi dell’ arcan-gelo Michele, mentre il drago (B) di san Giorgio, ben lontano dall’ispirare timo-re, sembra crogiolarsi al sole, con la pancia all'aria. Un altro santo, non iden-tificato, partecipa alla conversazione, non particolarmente accesa a giudicare dallo sguardo soporifero di san Michele, che si regge il mento con la mano.

Anonimo tedesco, attivo nel 1410 in Alta Renania. Il giardino dell’Eden, circa 1410. Tempera su legno. Städelsches Kunstinstitut, Frankfurt

I MURI DEL PARADISO

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Più attive, ma questa non era una novità neanche nell’Europa del XV secolo, sono le tre sante. Una attinge placida-mente l’acqua da una piscinella; un’altra raccoglie frutti e, con un gesto molto famigliare, li ripone in una piega della tunica; l’ultima, che sembrerebbe sant a Cecilia, ha tra le mani un salterio, uno strumento simile all’arpa, che porge ad un Bambinello alquanto interessato e divertito. Il committente di questo di-pinto deve aver voluto che in questo giardino, come in un erbario, fossero descritte con esattezza scienti fica, e perciò riconoscibili, molte specie vege-tali. Allo stesso modo sono descritti, e altrettanto riconoscibili, una dozzina di uccelli, a cui si aggiungono poi farfalle e libellule. Questa interpretazione reali-stica, tipica dello stile gotico internazio-

nale, è limitata solo ad alcuni motivi descrittivi. Il giardino, il tavolo, la fon-tana e lo strumento musicale sono dipin-ti da differenti angoli visuali e sono visti dall’alto. Le figure sono leggere ed ae-ree e l e forme non producono ombra. La mancanza del senso della profondità, dovuta all’assenza di ombre e di pro-spettiva, sottolinea la dimensione fuori dal tempo e dallo spazio della scena raffigurata, specialmente se viene con-trapposta alla meticolosa descri zione dei dettagli vegetali ed animali. Questa real-tà a due dimensioni, nella quale le di-versità di forme e di colori si sono fuse felicemente in una sola scena, suscita un forte sentimento di nostalgia. Per un’età felice, che non è più, nella quale gli uomini non erano appesantiti dalla loro ombra, che è il segno dello scorrere del

tempo e, quindi, della morte. Un’età in cui un solo bicchiere ed alcuni frutti, di cui pochi sbucciati, testimoniano la fru-galità dei bisogni materiali. Un’età in cui mancano le armi ed i segni della fatica e nella quale i simboli del male sono innocui o addirittura derisi. Se l’arte, oltre che espressione, è insegna-mento, si direbbe che l’artista abbia voluto affermare che, entro il perimetro di queste mura, un altro mondo è possi-bile. Una visione nostalgica, ma che, riproposta come sollecitazione al desi-derio di una società paci fica ed armo-niosa, può facilmente diventare pulsione utopica. I muri, allora, diventano il peri-metro prezioso entro cui allestire il can-tiere dove costruire la realtà che voglia-mo. Lasciando fuori la nostra ombra.

Antonio Squeo

…e quelli della

rivoluzione I l 19 luglio del 1936 il popolo di Barcellona, saputo che il general e Francisco Franco ed altri militari si sono sollevati contro il legittimo governo della repubblica spagnola, impugnano le armi per di fender-la. È l’atto iniziale della guerra civil, che terminerà tre anni dopo con la vittoria dei falangisti spagnoli, appoggiati dalla Germania nazista e dall’Italia fascista. È, anche, l’atto iniziale di un processo rivoluzionario che, per la prima volta nella storia, vedrà la realizza-zione concreta di forme di produzione e di distribuzione basate sulla gestione diretta di operai e contadini, organizzati attraverso strutture sindacali. In Spagna, dal luglio del 1936, c’è la guerra e c’è la rivolu-zione. Gli artisti, a volte semplici illustratori o decoratori di ventagli, subito si schierano, in massa, contro i fascisti e per la rivoluzione. Molti di loro entrano a far parte delle milizie, organizzazioni armate formate da volontari, lottando così con le armi e con i pennelli. Ma per fermare i fascisti e far avanzare la rivoluzione non sono suffi -cienti le armi: occorre che ciascuno prenda cosci enza di ciò che ac-cade. Diventa così fondamental e creare un mezzo idoneo, che abbia un linguaggio diretto, semplice ed efficace. Questo mezzo di comu-nicazione è il manifesto murale. Si calcola che nei tre anni della guerra ne siano stati prodotti decine di migliaia, stampati in milioni di esemplari. Gli artisti, per definire la capacità espressiva del mani-festo murale lo chiamarono un grito pegado a la pared, cioè un gri-do attaccato al muro. La definizione è incisiva: si parla di grido e non di voce perché l’emergenza non permette che ci si esprima in modo normale davanti all’avanzata fascista, e si parla di muri perché quel grido possa essere ripetuto e rinnovato in ogni luogo dove gli esseri umani vivono. Ma il concetto di muro ritorna anche in chiave difen-siva. Il manifesto di Vicente Ballister, qui accanto, stampato dalle organizzazioni libertarie in occasione del secondo anniversario della

L’invasore si frantumerà contro la muraglia umana

del popolo spagnolo. Manifesto di Vicente Ballester, 1938.

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insurrezione popolare, mostra un soldato che, con il proprio corpo, imita una barriera. Davanti a sé un profilo di mura merlate rafforza ulteriormente il concetto che, alla fine, viene enunciato a parole: L’invasore si frantumerà contro la mura-

glia umana del popolo spagnolo. Il segno grafico del mani-festo è militaresco ed autoritario, con le linee spigolose e le masse muscolari ben evidenziate, un segno che contrasta in modo evidente sia con i colori rosso e nero, emblema degli anarchici, sia con la frase, che attribuisce al popolo, e non all’esercito popolare, la funzione di opporsi al fascismo. L’ambiguità e la conseguente finale bruttezza del mani festo si spiegano con la lotta che il fronte anti fascista deve affrontare al proprio interno. Mentre le organizzazioni libertarie sono contro l’esercito professionale ed a favore delle milizie volon-tarie, le altre organizzazioni, tra cui i comunisti, appoggiati da Mosca, pretendono un normale esercito, regolato dai rapporti di autorità e gerarchia tipici di qualunque esercito. Nel mani-festo di Sanz Miralles la muraglia popolare si trasforma in una barriera. Alcune sagome di soldati, che seguono una pi-

sta segnata dalla croce uncinata nazista, si avvia all’assalto. Ma a sbarrare loro il passo si erge la barrera inexpugnable formata dalle organizzazioni anarchiche CNT (Confederación Nacional del Trabajo ), FAI (Federación Anarquista Iberica) e AIT (Asociación Internacional de los Trabajadores). Le loro sigle, solide, possenti, rosse e nere, si ergono sicure tra la minaccia attuale ed il nuovo orizzonte su cui splende il sole dell’ avvenire. Nel manifesto di Toni Vidal le sigle della CNT e della FAI sono diventate una barri cata, dalle cui fessure spuntano i fucili dei miliziani. Che si tratti di miliziani, e non di soldati, è rilevabile dal copricapo “ a busta”, rosso e nero, dal fatto che vi sono delle donne, dalla presenza di ciminiere e palazzi, che stanno ad indicare la loro qualifica di lavoratori. L’ultimo manifesto considerato, quello di Dominguez, utiliz-za la costruzione di muri sotto forma di diga. La revolución

No se contiene Se encauza significa che la rivoluzione non si può fermare, la si può solo incanalare. Il tema prescelto è in consonanza con il committente, il Sindacato industriale dei servizi acqua, gas ed el ettricità appartenente alla CNT. Per comprendere bene il senso del mani festo, occorre considerare che, mentre per i comunisti bisognava prima vincere la guerra e poi pensare alla rivoluzione, per gli anarchici guerra e rivo-luzione erano assolutamente inseparabili. Affermare che la rivoluzione è inarrestabile, come un’onda di piena, e che l’unica possibilità che si ha è quella di condurla attraverso un determinato percorso, significa riaffermare la necessità della rivoluzione in aperta polemica con gli avversari politici. Ecco, allora, che l’immagine della diga, della muraglia, della barrie-ra, della barricata, diventa parte importante di un discorso. Ma il discorso, il ragionamento, bisogna essere capaci di farlo. E allora sarebbe opportuno alleggerire la sterminata massa di immagini che ormai ci opprime, educandoci ad approfondirne una piccola quantità. La qualità, una volta tanto, si prende-rebbe la rivincita sull’accumulazione.

Antonio Squeo

Manifesto di Sanz Miralles

Manifesto di Dominguez Manifesto di Toni Vidal

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Il Minotauro, Tavola di Guglielmo Manenti

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U no spazio chiuso, difeso da grandi mura, è in genere sintomo di paura, di necessità di difendersi da un pericolo che incombe; l'idea classica di un muro costruito per motivazioni di controllo del territorio è, infatti, quella del confi-ne difensivo costruito da un impero per arginare le scorribande dei barbari, gli stranieri armati che, secondo tradizione, desiderano saccheggiare le ricchezze delle aree civilizzate. L'esperienza del confine fisico, della costruzione che impedisce l'attraversamento di un terri -torio non è però rel egata al passato. Og-gi esistono sul pianeta diversi muri che possiedono una forte valenza geopoliti-ca. Si tratta di grandi opere che chiudo-no interi territori, muri visibili, tangibili, presenti fisicamente nella vita quotidia-na di milioni di persone, eppure citati sempre più raramente anche negli studi geografi ci. Forse perché la mappa geopolitica dei muri disegna un mondo davvero diffici -le da comprendere, molto diverso da quello che erigeva mura di fensive con-tro le orde che praticavano razzi e, con-tro i popoli provenienti dalle terre igno-te. I muri contemporanei tendono ad assomigliare piuttosto alle alte pareti che chiudono l'accesso agli estranei nelle ville di lusso, perché oltre le mura ci sono sempre popolazioni composte da deboli, a volte sconfitte sul piano milita-re, sempre composte da persone più povere di quelle che abitano dietro i sistemi di difesa. Forse somigliano di più alle pareti che delimitavano i castelli

nelle città dell'Europa di età moderna. Due sistemi difensivi si contendono il titolo di muro più grande del mondo. Al primo posto probabilmente c'è il muro che divide da oltre trent'anni il popolo Saharawi dal Marocco, confinando una popolazione distrutta da decenni di se-gregazione e conflitti in una vasta area desertica, in un lembo di nulla sprovvi-sto al momento anche di un riconosci-mento giuridico internazionale. Il muro protegge le miniere di fos fati e una delle zone di oceano più ricche di vita; i figli delle nuvole, come si definiscono i Sa-harawi in cerca di pioggia, stanno dall'altro lato, raccogliendo acqua in campi profughi e città inventate in mez-

zo al nulla, in uno spazio chiuso anche sul versante del confine con la Maurita-nia, altro paese ostile. Il secondo probabilmente è il muro che divide il confine tra Stati Uniti e Messi-co. Un enorme sistema di fensivo, che alla fine sarà sicuramente lungo oltre 1.123 chilometri, ma che potrebbe finire con il chiudere un confine lungo il tri-plo. La finalità dell'opera, che andrà a competere con la grande muraglia cine-se, è quella di impedire alle masse di migranti irregolari provenienti da Sud di entrare negli USA senza permesso di soggiorno. Da quando è iniziata la co-struzione, le rotte di migranti si sono indirizzate verso le aree desertiche che

Geopolitica

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muri Il muro tra Spagna e Marocco

Il muro tra Stati Uniti e Messico

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ancora non sono state chiuse, così il numero di persone morte nel tentativo di arrivare negli USA è aumentato a dismisura. Il Congresso degli Stati Uniti continua però a finanziare l'opera po-nendosi obiettivi sempre più ambiziosi. Una certa ironia della sorte vuole che il Marocco sia anche il teatro di altre due piccole muraglie, di appena 20 chilome-tri, che possiedono però un grande valo-re simbolico. Si tratta dei sistemi difen-sivi che impediscono l'ingresso a Ceuta e Melilla, due piccole città residuo dell'impero coloniale spagnolo e di fatto ultimo lembo di territorio dell'Unione Europea. Anche il Marocco dunque è separato, tramite un muro, da una terra più ricca, che negli ultimi tempi ha scel-to di fortifi care gli avamposti. Cinque anni fa un gruppo di qualche migliaio di migranti ha inscenato un vero e proprio assalto alle mura di Ceuta; armati di scale di legno, i migranti hanno provato ad entrare in territorio europeo, realiz-zando un caso di aggressione atipica, in un certo senso un assedio all'incontra-rio, in cui gli assediati erano armati e ben riforniti di viveri e gli assedianti erano allo stremo delle forze. La barrie-

ra ha retto all'urto e, in seguito, è stata innalzata di altri tre metri, per sicurezza. Il muro costruito dallo stato di Israele per chiudere gli accessi in Cisgiordania forse è più conosciuto degli altri e sem-bra, ascoltando i commenti disponibili sui media, anche il risultato di un con-flitto armato diretto. A guardar bene però realizza lo stesso principio, è figlio di un'idea simile a quella che ha motiva-to la costruzione degli altri: chiude in uno spazio separato una popolazione nettamente più povera di quella che sta fuori e le impedisce l'accesso al mare, all'acqua potabile, alle forniture di cibo e ai servizi primari. Questi muri sono oggi barriere di sepa-razione tra Nord e Sud, servono a fer-mare le masse di persone che cercano di migrare verso i paesi ricchi o a chiudere l'accesso a risorse preziose, ma non rappresentano una grande novità sul piano della loro funzione e non sono le uniche strutture che contraddicono il principio di libera circolazione degli esseri umani. Possiedono però una forte valenza simbolica, rendono bene l'idea che l'intero sistema delle democrazie occidentali si considera oggi come una cittadella assediata da deboli, quasi un principio di paura, alimentata dal mo-dello di sviluppo che abbiamo seguito negli ultimi secoli. Salvo Torre

Il muro del Sahara Occidentale costruito dal Marocco

Il muro tra Palestina e Israele

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M uro inteso come barriera insor-montabile, come ostacolo che impedisce di andare oltre o di vedere che cosa ci sia al di là. Un muro è qualcosa che separa, che segna distacco, frattura. Mu-ro visto spesso nella l etteratura come l’emblema di una condizione di aliena-zione, di estraniamento, di solitudine, del male di vivere come lo definisce Eugenio Montale. Un muro può essere una porta chiusa e sorda ai lamenti di un innamorato, respinto dall’amata, secon-do il topos letterario del paraklaysì-thyron, molto utilizzato dai poeti elegia-ci latini come Tibullo, Properzio ed O-vidio. Un muro può diventare, Montale docet, addirittura una muraglia che, se non bastasse il significato del sostantivo in sé, ha in cima cocci aguzzi di botti-glia. Tuttavia, se si apre una fessura nel muro, ci può essere un, sia pur tempora-neo, conforto per due innamorati che, separati fisicamente, trovano in quella fenditura la possibilità di parlarsi, guar-darsi e sentirsi, come nella vicenda di Priamo e Tisbe narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. Per fare un po’ di ironia scherzosa sull’argomento, cito un passo tratto da una commedia di Plauto, il Curculio (vv.145 -157), in cui un giova-notto innamorato fa una serenata ai chiavistelli della porta della casa della ragazza che ama, affinché si aprano e lo facciano entrare:

Chiavistelli, oh chiavistelli che piacere salutarvi! Io vi amo e bramo e prego, io vi supplico: il mio amore secondate, miei carissimi, fate un ballo all’italiana in mio onore, sobbalzate, vi scongiuro, fate uscire la fanciulla che mi succhia tutto il sangue, tanto l’amo. Ma lo vedi come dormono questi biechi chiavistelli senza muoversi più lesti per mio bene! Sì, m’accorgo che il mio bene non v’importa. Ma, zitto, zitto… Sento rumore. Finalmente! Davvero questi chiavistelli cominciano a com-portarsi come voglio io. Ovidio, in un’opera didascalica, i Reme-dia amoris (vv.31-36), scrive con tono profondamente diverso: Fa’ che risse notturne infrangano la porta e che una pioggia di ghirlande orni i battenti fino a ricoprirli; fa’ che s’incontrino furtivi i giovani e l e timide fanciulle e con qualche accorgimento esse ingannino il compagno sospettoso; ed ora tenerezze, ora insulti dica l’amante all’uscio che non cede, e, chiu-so fuori, canti col pianto nella voce. E ancora lui, in un’altra opera, gli Amo-res, ai vv.1-6, rivolgendosi al custode di una porta sbarrat a:

Portinaio (o indegnità) legato alla cru-dele catena, / muovi il cardine e schiudi per me l’inesorabile porta. / È poco ciò che ti chiedo. Fa’ che la porta per uno stretto / passaggio accolga semiaperta il mio fianco obliquo. / Un lungo amore mi ha assottigliato così il corpo all’uso, / e consumandomi il corpo mi ha dato membra adatte. Nel IV libro delle Metamorfosi, a pro-posito della storia d’amore tra due gio-vinetti osteggiata dalle rispettive fami-glie, parla di una tenuis rima, di una sottile fessura che intacca la parete co-mune alle case di ambedue. Questa a-pertura permette a loro di scambiarsi bisbigli e sospiri. Unico testimone, il muro che li separa. Da una parte i giovi-netti sono grati alla parete in quanto permette questo scambio di tenerezze, altrimenti impossibile, dall’altro, la defi-niscono invida, “invidiosa” per il senti-

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Attenti al muro!

Muro inteso come barriera insormontabile,

come ostacolo ad andare oltre

o a vedere che cosa ci sia al di là

Esempio di opus reticulatum

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mento che li lega e insensibile in quanto non consente ai due di poter avere un contatto più ravvicinato. In letteratura italiana, il poeta Eugenio Montale, in due poesie tratte dalla rac-colta Ossi di seppia (1925), esprime nell’immagine del muro e della mura-glia il male di vivere, tema ricorrent e nella poesia novecentesca. L’immagine del muro è associata in ambedue i casi ad aggettivi o a espressioni che riman-dano a qualcosa di negativo. Nella poe-sia Non chiederci la parola, il poeta scrive ai vv.5-8: Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri e a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Il poeta ironizza su un tipo di uomo che si mostra sicuro di sé e si illude di avere delle certezze nella vita. Quest’uomo che se ne va sicuro non vede il risvolto oscuro delle cose, la desol azione che lo circonda, simboleggiata dallo scalcinato muro. Egli incarna un modello antitetico a quello del poeta: la familiarità con se stesso e con gli altri (v.6) si oppone alla condizione di estraneità assoluta vissuta dal poeta, all’assenza di certezze ed all’inutilità di porsi domande, come sottolinea il titolo. In un’altra poesia, Meriggiare pallido e assorto, nell’ultima strofa (vv.13-17), il muro della poesia precedente è diventa-to una muraglia: E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. L’esistenza individuale è soffocat a, im-pedita da una condizione di oppressione per cui ogni tentativo di uscirne risulta vano, come quando ci si trova di front e ad un muro invalicabile. E allora, attenti ai muri: se sono muretti sono innocui, ci si può sedere sopra; se sono muraglie non li sottovaluterei e, se doveste riusci-re ad arrivare in cima o ad oltrepassarli, starei attento a quello che potrebbe at -tendervi….!!!

Vivina Iannelli

La leggenda di Piramo e Tisbe è raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Piramo e Tisbe, due fanciulli babilonesi, sono vicini di casa: si conoscono e si innamorano. Il loro amore viene però impedito dai genitori. Il muro tra le due case è solcato da una crepa, che viene usata dagli innamorati per parlarsi. Restando divisi, ciascuno dà al muro i baci che vorrebbe scam-biare con l’altro. Una sera decidono di uscire di casa e di incontrarsi nel silenzio della notte, vicino al sepolcro del re Nino, al buio, sotto un gelso bianco, vicino ad una fonte. Così Tisbe esce di casa e, col volto velato, arriva al sepolcro e si siede sotto l’albero prestabilito. Una leonessa, appena finita la caccia, giunge alla fonte per dissetarsi. Tisbe la vede e corre a ri fugi arsi in una grotta, ma, mentre fugge, il velo le scivola dalle spalle. La leonessa, tornando nel bosco, vede il velo e lo straccia con le fauci insanguinate. Piramo, uscito più tardi, vede le orme della belva e ne ha paura, ma la paura diventa orrore quando trova il velo di Tisbe lacerato e macchiato di sangue. Piangendo la morte dell’amata, si reca davanti al gelso e si conficca il pugnale nel ventre. Il sangue tocca i frutti della pianta, che così diventano scuri. Nel frattempo, Tisbe ritorna al luogo stabili-to e cerca il giovane innamorato. Ritrova il gelso, ma stenta a riconoscerlo per il colore sanguigno dei frutti. Mentre è colta dal dubbio, vede il corpo agonizzante di Piramo e allora, dopo aver baciato l’amato, prende il suo pugnale e si uccide.

Edwin Longsden Long (1829-1891), Thisbe, 1884, Incisione

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P urtroppo, esistono nel mondo molti muri che separano tra loro comunità umane per motivi etnici, religiosi, eco-nomici. Il caso storico più famoso è costituito senz'altro dal muro di Berlino, simbolo della divisione ideologica tra il mondo capitalista occidentale e quello comunista orientale. Si trovano tuttavia esempi ancora attuali lungo la frontiera meridionale degli Stati Uniti, in cui al confine del Messico è stato sovrapposto un muro per controllarne l'immigrazio-ne; oppure in Palestina, dove ormai da anni è in costruzione il muro israeliano, che, per garantire i confini dello Stato, ha comportato soprusi, allargamento del territorio nazionale di Israele e fram-mentazione del territorio e delle città palestinesi, dividendo anche case e fa-miglie. Tutti questi muri rappresentano intrinsecamente la volontà politica di impermeabilità all'Altro, resa estrema-mente fisica dal cemento armato con cui sono costruiti. Rappresentano lo sforzo arti ficiale di fermare lo scambio, i flussi di persone, e quindi di culture, che esse portano inevitabilmente con loro, di isolare le idee nelle comunità di appar-tenenza evitandone così la reciproca contaminazione.

Il desiderio di isolamento di una cultura ha il significato implicito della superio-rità di questa, tanto da non volerla met-tere in discussione nel confronto con una diversa, laddove per confronto non si intende l'accettazione passiva o l'arro-ganza impositiva, ma un dialogo parite-tico.

Ciò di cui vorrei parlare io, però, non è di un muro comunemente inteso, fisico cioè, ma di un altro muro: quello menta-le. Tale muro ha le stesse finalità di isolamento culturale di quelli fisici, è attualissimo e la sua costruzione sta avvenendo in moti paesi europei tra cui il nostro. In Italia vivono milioni di per-sone migranti, provenienti dall'Africa maghrebina e da quella sub-sahari ana, dal Medio Oriente, dall'Asia e dall'Euro-pa dell'est.

Sono viaggiatori, che giungono sino a qui per cercare una vita nuova, delle nuove esperienze, nuove amicizie e nuove mentalità. Sono donne e uomini che sono costretti al viaggio da condi-zioni di miseria e dalle guerre, e che vedono speranza nel nostro Paese. Sono persone che affront ano condizioni di viaggio durissime, passando per tantissi-me frontiere prima di giungere alla no-stra e, in molti casi, con esiti negativi: affogando nel Mediterraneo o rimanen-

Invisibili Muri

...giudicati e condannati clandestini

dalle nostre leggi per il solo fatto di essere arrivati

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do incarcerati in una di queste frontiere. E sono persone che, giunte in Italia, vedono drasticamente ridimensionate, quando non infrante, le loro speranze: giudicati e condannati in quanto clande-stini dalle nostre leggi per il solo fatto di essere arrivati in Italia, sono rinchiusi in centri di accoglienza, ovvero di identifi-cazione ed espulsione, oppure sono co-stretti a vivere la loro clandestinità na-scondendosi ai controlli senza avere la possibilità di affittare con un contratto legale una casa, costretti a lavorare in nero, accettando anche lo s fruttamento, senza nessuna garanzi a di sicurezza e di pagamento. In Italia sono loro a dover fare il lavoro più sporco, più faticoso, meno retribuito. Di per sé, la politica italiana dell'immi-grazione costituisce già un muro che relega questi esseri umani in ruoli estre-mamente marginali, spesso privandoli dei diritti fondamentali.

Ma il muro più diffuso e soprattutto più triste consiste nella mentalità che si sta diffondendo in moltissimi italiani. Tale mentalità vede nei migranti un proble-ma: un pericolo per la sicurezza, un pericolo per la possibile diminuzione

dei posti di lavoro, una pericolosa con-taminazione delle tradizioni. Introdotta ed aizzata dai grandi mezzi di comuni-cazione di massa, che puntualmente, generalizzando, montano dei casi nazio-nali partendo da eventi singoli come gli stupri ed altri crimini commessi da alcu-ni migranti (in ogni caso piccole percen-tuali sulla popolazione migrante in Ita-lia), questa visione si spinge fino al raz-zismo. Ed ecco che, magicamente, tutti i rumeni diventano stupratori, tutti gli arabi diventano terroristi e tutti gli alba-nesi diventano ladri. Nella vita quotidia-na, il clima per un migrante diventa teso e pesante: se da una parte ha una legi -slazione che lo rende estremamente vulnerabile, dall'altra è malvisto da mol-ti cittadini italiani, indifferenti alla sua situazione ed, anzi, sospettosi, pieni di pregiudizi e talvolta privi di rispetto.

Questo secondo muro, quello sociale, diffuso tra i cittadini italiani, dicevo, è il più triste, perché inibisce, nella quoti-dianità, la costruzione di una rete di relazioni umane che porterebbe vantag-gio a tutti. In tal modo i migranti resta-no soli nella loro condizione e gli italia-ni restano soli nelle loro paure, ansie, insicurezze. Tutto questo è triste proprio per la solitudine che lascia intorno a sé, per l'indifferenza di persone, che, data l'esperienza fatta da generazioni di poco precedenti (si pensi alle grandi migra-zioni italiane e siciliane d'inizio '900), dovrebbero ben comprendere le situa-zioni vissute ogni giorno dai migranti. Il vantaggio che deriverebbe dalla conta-minazione culturale reciproca non è di poco conto: l'interazione tra culture di -verse promuove e sviluppa nuove idee, permette il rinnovamento di tradizioni, che d'altronde sono esse stesse il risulta-to di miscugli e intrecci di culture diver-se. Ed è appunto rinnovando le tradizio-ni che è possibile farle evolvere, evitan-done l'as fissia. In termini ecologici que-sta si chiama proprietà emergente, cioè al cune proprietà che scaturiscono dall'insieme delle interazioni che si in-staurano in un sistema e che non sono prevedibili in quanto non appartenenti a nessuna delle singole parti interagenti. Quindi, dall'interazione tra le diverse culture presenti oggi in Italia, potrebbe-ro scaturire culture nuove, frutto di que-sto contatto ma diverse dalle culture d'origine. Non solo, insomma, l'immi-grazione non è un problema reale, ma è un’occasione per l'apertura di orizzonti nuovi, di nuovi intrecci tra popolazioni, di nuove culture nate da questi.

Ruben Minervini

...dall'interazione tra le diverse culture

presenti oggi in Italia, potrebbero scaturire culture

nuove, frutto di questo Contatto, ma diverse dalle culture d'origine

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S i dice che le parole siano pietre, intendendo ri ferirsi alla frequenza con cui esse vengono usate per colpire e provocare sofferenza o, comunque, forti emozioni in chi le ascolta o le legge. Si allude, evidentemente, al signi ficato ed alla durezza e pesantezza di singole parole o di frasi e discorsi che con esse vengono elaborate e trasmesse ad altri. Con ciò, implicitamente, si continua a vedere nelle parole un mezzo per comu-nicare, un materiale per costrui re ponti, canali, gallerie, allo scopo di superare ostacoli che impediscono o rendono diffi coltoso avvicinare e stabilire rap-porti e scambi culturali ed intellettuali con il prossimo. L’esperienza quotidia-na, sia diretta sia, ancor più, mediata dalla televisione o da altri mezzi di co-municazione di massa, ci dimostra, pe-rò, che le parole possono e vengono spesso utilizzate per fini opposti, ossia come materiale da costruzione per eri -gere muri e barriere alla comunicazione. Per tale uso non è indispensabile che le parole vengano utilizzat e per il loro significato. In altri termini, uno stru-mento, qual è la parola, nato e perfezio-nato nei millenni per consentire e facili-tare la comunicazione ed il dialogo, è usato sistematicamente, soprattutto in televisione, allo scopo, esattamente con-trario, di impedire di capire ciò che qualcun altro intende comunicare. Infat -ti, con grandissima frequenza, le parole, ossia le pietre, funzionano letteralmente non da materiale di costruzione, ma da corpo contundente, non tanto e non più per il loro significato, ma per il loro suono e per il volume con cui vengono pronunciate. In altri termini, esse vengo-no utilizzate per interrompere, boicotta-re e confondere l’interlocutore, per im-pedirgli di elaborare ed esporre effi cace-mente e compiutamente discorsi, idee e punti di vista. Assai spesso ci si spinge

fino ad impedire il più possibile agli ascoltatori non solo di comprendere il senso delle frasi, ma perfino di ascoltare e recepire correttamente le parole. Ma ergere muri di parole, con funzione di cortine fumogene volte a nascondere la realtà, non è prerogativa esclusiva degli energumeni dalla voce tonante, che si-mulano, verosimilmente non gratuita-mente e quindi a fini alimentari, senti-menti, emozioni ed indignazioni in real-tà inesistenti.

Le parole possono infatti essere usate, sempre allo scopo di occultare la realtà, costruendo verità arti ficiose, fittizie, posticce, ma meglio idonee a servire il padrone o committente di turno. Tale compito, perlopiù, viene svolto non da t rom boni , m a da p er son ag gi all’apparenza seri, posati, pensosi, colti, rifl essivi e, pertanto, più credibili e me-glio adatti a prendere il pubblico per i fondelli. Non raramente si tratta di intel-lettuali con solida preparazione, magari accademica, talora avvocati o ex magi-strati passati alla politica, con il risulta-to, verosimilmente non casuale ma con-sapevolmente perseguito, di un deciso incremento delle proprie fonti di reddi-to. Per esempio, ci si trova spesso di fronte a magistrati che fingono di ricor-dare male o a rovescio le più elementari norme di diritto e di non saper più leg-gere non solo il testo, ma neanche i di-spositivi di sentenze o perfino articoli di

legge con cui hanno avuto per decenni la più grande dimestichezza. È presso-ché superfluo rammentare che, nel Bel-paese, da qualche tempo a questa parte, quest’opera sistematica di camuffamen-to e distorsione della realtà riguarda in special modo le sentenze e le norme penali. Manco a dirlo, le operazioni di oscuramento, cancellazione, riscrittura, abbellimento o anche di rifacimento del contenuto delle sentenze e delle norme di legge riguardano perlopiù uomini di potere. In particolare, esse hanno in gran part e riguardato uomini politici di primo e primissimo piano, ma anche uomini d’affari e della finanza o spesso, com’è noto, soprattutto ultimamente, appartenenti ad entrambe le categorie. Quando si parla di distorsione della re-altà, non ci si vuole assolutamente pre-sentare quali depositari di chissà quali verità assolute, ma ci si intende unica-mente ri ferire a nulla di più o di diverso che ad affermazioni del tipo: se su un foglio è scritta una cosa non ne è scritta un’altra. Si tratta, cioè, della nozione di verità del tipo più ovvio o banale, anzi proprio terra terra, riguardante, peraltro, testi scritti notori e condivisi dalla gene-ralità degli addetti ai lavori. E, tuttavia, è spesso suffi ciente semplicemente ram-mentare, riprodurre o leggere in pubbli-co i contenuti delle sentenze o delle leggi in questione, per essere tacciati di estremismo forcaiolo, sovversivismo, antidemocraticismo o altri simili gratifi-canti appellativi. Particolarmente signi-fi cativo ed emblematico, è, a tale riguar-do, il ricorso alla nozione inventata e creata dal nulla di assoluzione per pre-scrizione, ovviamente del tutto assente nel diritto penale italiano e mai neanche passato per la testa di nessun legislatore. Come già accennato, a farvi ricorso, nel passato anche recentissimo, non sono solo mass media più o meno asserviti a questo o quel politicante, per i quali,

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I muri di parole e

l’occultamento

della realtà

Insomma, chi parla di assoluzione

per prescrizione trasforma, né più né meno,

un giudizio di colpevolezza nel suo esatto contrario...

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peraltro, non sempre è da escludere che possa trattarsi di manifestazioni di cras-sa e genuina ignoranza. Spesso e volen-tieri sono, invece, tecnici o luminari del diritto ad incorrere con grande sistema-ticità in strafalcioni, che sarebbe davve-ro troppo benevolo quali ficare come errori in buonafede. Va detto, in primo luogo, che, per quanto la cosa possa apparire incredibile, già solo il termine prescri zione è del tutto assente dal codi -ce di procedura penale e, in ogni caso, non è richiamato in alcun modo in mate-ria di proscioglimento, né, tantomeno, di assoluzione.

La norma di legge in questione è l’articolo 531 del codice di procedura penale, che si intitola Dichiarazione di estinzione del reato ed ha il testo che di seguito si riporta: Salvo quanto disposto dall’articolo 129 comma 2, il giudice, se il reato è estinto, pronuncia sentenza di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo. Il giudice provvede nello stesso modo quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato. A rischio di apparire maligni, ma a pen-sar male, si sa, spesso si azzecca, viene da ritenere che la preferenza universal -mente invalsa per l’inesistente termine prescrizione al posto di quello corretto estinzione vada ricollegata alla semplice constatazione che può estinguersi solo qualcosa che esiste. E infatti, il giudice che pronuncia sentenza di prosciogli-mento per estinzione ha giudicato colpe-vole l’imputato, poiché, in caso contra-rio avrebbe dovuto emettere sentenza di assoluzione. Infatti, l’articolo 129, citato nel testo richiamato, che reca il titolo Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità recita quanto segue: In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza. Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato

non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta. Insomma, chi parla di assoluzione per prescri zione tras forma, né più né meno, un giudizio di colpevolezza nel suo e-satto contrario, ossia in una sentenza di assoluzione, dato che l’estinzione del reato esclude la condanna e l’ irrogazio-ne della pena, non il giudizio di colpe-volezza, che permane. Sarebbe quindi del tutto corretto definire pregiudicato il prosciolto per estinzione del reato, an-cor più se, come l’attuale Presidente del Consiglio, è incorso più volte in questo tipo di sentenze. Inganna altresì il pub-blico anche chi afferma, come pure ac-cade ed è accaduto anche di recente, che la sentenza di estinzione implichi che il giudice, per il decorso del tempo, non ha potuto esprimersi nel merito del caso sottoposto al suo giudizio. È invece l’articolo 530 del codice di procedura penale, che reca il titolo Sentenza di assoluzione, a dettare le norme che re-golano tale materia: Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non co-stituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputa-bile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assolu-zione indicandone la causa nel disposi-tivo. Il giudice pronuncia sentenza di assolu-zione anche quando manca, è insuffi-ciente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha com-messo, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da perso-na imputabile. Se vi è la prova che il fatto è stato com-messo in presenza di una causa di giu-

stificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1. Con la sentenza di assoluzione il giudi-ce applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza. È solo se si è assolti ai sensi del primo comma, se cioè il giudice ha ritenuto dimostrata l’innocenza dell’imputato, che si può parlare di assoluzione con formula piena; se nel dispositivo della sentenza è invece richi amato il comma due, l’imputato è stato assolto con for-mula dubitativa, non essendosi ritenuta dimostrata la sua colpevolezza. È quindi ingannevole e fuorviante affermare, come pressoché invariabilmente fanno i mass media, che si è assolti con formula piena se la sentenza afferma che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l’imputato non lo ha commesso. In ultimo, non è superfluo sottolineare che enunciare fedelmente il contenuto lette-rale di un testo scritto non è o, meglio, non dovrebbe essere materi a di opinione né di schieramento politico, ma dovere universale di correttezza, onestà e ri-spetto della verità: nel Belpaese da un bel po’ è divenuto vero il contrario.

Francesco Mancini

per quanto la cosa possa apparire incredibile, già solo

il termine prescrizione è del tutto assente dal codice

di procedura penale

Insomma, chi parla di assoluzione per prescrizione trasforma, né più né meno, un giudizio di colpevolezza

nel suo esatto contrario, ossia in una sentenza di assoluzione..

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L'invasione

degli Acronimi

verdi L’altro giorno sul muro di fronte casa mia è apparsa una scritta verde: TV1KDB. “Un acronimo!” ho subito esclamato con slancio, alzando lo sguardo verso le nuvole della filologia. Le pose plastiche mi vengono sempre bene. Meno, gli iniz i di certi

articoli su temi sconclusionati: come questo sui muri, ad esempio.

“Cosa mai vorrà dire?”mi sono detto sovrappensiero. “Chissà... Magari potre i scriverci un racconto: L'invasione degli

Acronimi verdi”.

- Sei proprio bollito, bello – ha fatto la primula. - Da qualche tempo a questa parte, a forza di scrivere su sport, cibo e scemenze varie per quei rimbambiti de ll'Arcobaleno, tiri fuori solo roba scadente. Tutte cose che con la

musica non c’entrano proprio. Mi sa che potresti inizia re a darti una regolata.

- E se invece ti innaffiassi con l'olio bollente? - le ho chiesto, guardandola come se dovessi impanarla – Sappi che

il saggio sull'uso della punteggiatura nel Settecento inglese al quale s to lavorando è un lavoro importante, e di

un certo spessore letterario.

La primula prima ha storto i pistilli, poi ha gonfiato le guance e alla fine ha sbuffato. Fa sempre così quando sente parla re di

punteggiatura.

- Non sapevo che le primule soffiassero - le ho detto sarcastico – mi sa che dovrò riportati dal f ioraio, a farti

dare una controllata.

- Hai visto la scritta sul muro di fronte casa? Chissà cosa vorrà dire- si è intromessa la gatta provando a

cambiare discorso. Lei, invece, non sopporta il Settecento inglese. - Hai saputo? Quelli dell’Arcobaleno hanno

tirato fuori un numero sui muri. Non sanno più cosa inventa rsi, ecco la verità – ha aggiunto.

Leggere quella scritta sul muro di fronte casa non era stato un buon modo per iniziare la giornata.

- Potresti scrivere qualcosa su Phil Spector, il produttore americano degli anni sessanta, quello che ha inventato il Wall of Sound – è ritornata all'attacco la gatta, dando un'occhiata a i dischi - Quegli arrangiamenti pieni di

fiati, doppie batterie,cori, echi e riverberi: hai presente?

- Cos'è, Wagner per gli adolescenti?

- Secondo me, meglio ancora sarebbe qua lcosa sui Tokio Hotel- si è intromessa la primula, togliendos i le

cuffiette dell'Ipod.

- Ancora loro? - Ho chiesto- E sopra ttutto: ancora tu? Perchè non te ne vai sul balcone che così puoi sproloquia re con i piccioni, invece di da re fastidio per casa con i tuoi Tokio Hotel? E poi, che c’entrano i Tokio

Hotel con i muri?

- Si vede che non hai visto Sanremo, bello -ha detto lei.- T i perdi sempre le occasioni di cres cita culturale che la televisione offre alla nazione intera: Bruno Vespa, i pacchi, Sanremo… Ti comunico che al Festival i Tokio Hotel hanno cantato “World behind my wall” - ha fatto lei. Furbe come volpi, queste primule s tanziali da cucina, ho

subito pensato.

- Basta, ho deciso: scriverò qualcosa su the Wall of Voodo. - ho fatto con lo sguardo perso sull'orizzonte: il muro di fronte casa. - Almeno loro sì che facevano post-punk – ho aggiunto con tono commosso, sospirando sulla

mia giovinezza perduta.

- Quelli erano solo cavernicoli alle prese con tecnologie moderne – ha ripreso la primula. - E poi è roba vecchia di trent’anni. Una eternità. Aggiornati: ascolta Jovanotti, almeno lui l’ha fatto un brano che parla di muri, “Ti

vedo scritta sopra i muri”-.

Impossibile fare finta di niente: la primula che mi ero messo dentro casa aveva gusti musicali terribili. E dire che quando

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l’avevo vista la prima volta, dal f ioraio, mi era sembrata così bella, delicata, sensibile.

- Viviamo nell'illusione, mio caro amico - è intervenuta la gatta, filosofeggiando malamente. - È proprio vero: il

mondo come volontà e rappresentazione, come diceva il vecchio A rt.

- Art chi, quella che ca ntava con Paul Simon?

La primula ha colto l'occasione al volo: - Quello è Art Garfunkel, bello. Si vede che sei proprio intrappolato negli anni

sessanta. La tua gatta si riferiva a quel vecchio bacucco di Arthur Schopenhauer- mi ha detto con tono sprezzante.

- Mi dispiace, non conosco i nomi dei gioca tori della nazionale di calcio tedesca degli anni cinquanta. – ho

tagliato corto.

- Il fatto è che dovresti smetterla con tutte queste stupida te dell'Arcobaleno - ha detto la gatta - e dedicarti a

cose più intelligenti. Qualche libro, ad esempio.

La mia è una micia che legge molto, al contrario di me. Io, datemi un libro in mano e mi viene subito uno shock anafilattico. “Colpa degli acari” mi ha detto una volta l' allergologo. Io credo invece che dipenda dal fatto che leggere le

millequattrocentosessantotto pagine di Guerra e Pace senza nea nche uno spot pubblicitario che le interrompa è cosa che

neanche sotto tortura.

- Se uno scrive non può leggere. O l'uno o l'altro – ho sentenz iato assumendo contemporaneamente la posa da scrittore tormenta to – Sappi che il mio ultimo racconto “Le primule muoiono all'alba”, recentemente premiato in importanti concors i naziona li, è stato come un sasso lanciato nello stagnante panorama letterario italiano,

isole comprese. Il noto critico S. Bosco ne ha parla to con toni commossi in una sua ispirata recensione sulle

colonne de “La Tromba del Popolo“, l'autorevole quotidiano indipendente diretto dall'On.le Salvo Fara-Butti.

- Lascia perdere, bello - ha fatto la primula. - Ti ho già detto cosa penso delle ultime cose che scrivi. Piuttosto, vedi di darti da fare: prova a tirare fuori qualcosa di tosto, se ci riesci. Quelli vogliono un articolo su mus ica e

muri. Se ne fregano della Tromba del Popolo, quelli

La verità è che io non sapevo proprio cosa scrivere. Poi, all'improvviso, senza motivo, mi è venuto in mente che, invece di un

articolo, avrei potuto spedire una lettera, a quelli del g iornale. Ad esempio, questa:

Egregia Signora Redazione dell’Arcobaleno,

Le scrivo questa lette ra per farle sapere che io non avrei proprio intenzione di preparare un articolo sui muri, né tanto meno

su muri e mus ica. Ne ho fin troppo dei suoi numeri monograf ici che, oltre ad ave r aumentato il nostro debito estero con i

paesi produttori di cellulosa, da qualche mese a questa parte, a casa mia, ha provocato uno scompiglio. La gatta ha iniziato

a parlare e sentenzia che è un piace re: pensi che a proposito di questa storia dei muri, ha avuto il coraggio di tirarmi fuori la

stracotta storia dei “muri che se si ribaltano diventano ponti”: uno slogan che nel settantasette fece furore, tra gli

adolescenti illus i di quegli anni. La mania della parola ha contagiato anche la primula che mi ritrovavo sulla mensola della

cucina. Ho scoperto che, nonostante l’aspetto delicato, la pianticella ha gusti musicali profondamente tamarri: oltre a

citarmi Jovanotti, tira fuori abitualmente anche i Tokio Hotel. Ora, io avrei cose più serie da fare: completare il mio saggio

sull’uso della punteggiatura nel Settecento inglese, ad esempio; oppure dedicarmi allo s tudio dei fossili nel romanzo realista

russo dell'Ottocento.

Nutro, altresì, forti sospetti sul tipo di sostanze che lei assume, considerato le idee strampalate che le vengono in mente pe r i

suoi numeri. Questa s toria dei muri, poi, le ha superate tutte. Meglio se avesse deciso di parlare di ponti, come dice la mia

gatta, che almeno ci sarebbe stato da divertirsi: vuole mettere con quella storia del ponte sullo Stretto che sembra una

barzelletta e invece è una tragedia seria? E che nessuno ne parla? E che sembra una cosa come la grandine e gli

smottamenti, che ci cadono dal cie lo e nessuno può farci niente? Di questo mi sarebbe piaciuto parlare. Ma sembra che non

importi a nessuno: l’Isola dei Famosi, quella invece s ì. Poi, mi sarebbe piaciuto anche parlare di musica ma, a parte la

prevedibile citazione dei Pink Floyd e del loro The Wall, credo proprio che la musica, con il muro non c’entri tanto. A meno di

non inventars i i collegamenti più strampalati: cosa di cui voi sie te, ahimè, capacissimi. Mi pregio altresì di informarvi che ho già trasmesso alla Lega per la Protezione del Minore, alla Associazione Genitori Alunni

Scuole Medie Superiori, all'Ordine dei Giornalisti e, per conoscenza, alla Procura de lla Repubblica una circostanziata

denuncia sui tanti illeciti, per non dire misfatti, che perpetrate ormai da tempo. Non ultimo, quello alla onorabilità della

lingua italiana, sulla quale vi accanite con tanta cieca ferocia. E come non ricordare, levando in loro memoria un commosso

pensiero, i poveri ed innocenti alberi abbattuti a mille e mille, immolati per saziare le vostre vergognose voglie, ehm,

editoriali? Dis tinti saluti, ecc.

- Sì, credo proprio che scriverò una lettera – ho concluso.

“Sei proprio bollito, be llo” ha fatto la primula andandosene con una smorfia; la gatta, nel frattempo, era già sparita di suo.

Tutt'e due evidentemente insofferenti alla mia prosa epistolare. Nella stanza ero rimasto solo io.

Mi sono avvicinato alla finestra e, non sapendo cosa fare, ho dato un'occhiata al muro. Quello di fronte casa, dove c'era ancora quella scritta che non capivo: TV1KDB. Chissà per quanto tempo ci sarebbe rimasta ancora, ho pensato. Sotto, guardando bene, se ne intravedeva un'altra, vecchia di qualche anno,che avevo dimenticato: 3MSC. Funziona cos ì anche

con le persone. Appena ti spariscono da sotto il naso è come se non fossero mai esistite. Sbiadiscono.

Aldo Migliorisi (http://aldomig lioris i.blogspot.com)

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M i sono accostata a Sartre di stri-scio, in modo casuale. Mi avevano rega-lato un libro per il mio compleanno che ha, poi, segnato un turning point nella mia allora breve vita (avevo 14 anni ) Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir. Che, in pratica, ha rivoluzionato tutta la mia (allora) visio-ne del mondo. Lei, che è rimasta la mia dea, parlava delle proprie esperienze e dei propri incontri e così sentii parlare di Jean Paul Sartre. Ma Sartre, allora, era un maître à penser, un filosofo, uno scrittore di testi sacri come L’Être e l e néant, e quindi mi intimidiva molto. Temevo di non essere all’altezza, teme-vo che non l’avrei capito. E preferivo non mettermi alla prova. Leggevo spes-so di questa straordinaria coppia di in-tellettuali, ero affascinat a dalla loro vita, dalle loro scelte, così lontane dal mio probabile futuro: matrimonio, figli, fa-miglia. Ogni tanto mi chiedevo se non fosse possibile anche per me, se non

fosse preferibile la LORO vita. Viveva-no in albergo, mangiavano sempre al ristorante, lavoravano al Café de Flore, luogo d’incontro dei Mandarini, gli intellettuali di sinistra. E viaggiavano tanto, sempre assieme. Avevano una strana vita, insieme ed anche separati. Insieme ma autonomi sotto tutti i punti di vista.

Insomma, ai miei occhi di piccolo-borghese provincial e, erano la metafora della VITA, la VERA VITA. Mi affa-scinavano. Leggevo delle caves e

dell’esistenzialismo, appellativo mai da loro scelto ma, ad un certo punto, cui si erano rassegnati. Poi lessi Camus, che fu un’altra mia passione letteraria. Ed ero cresciuta, avevo più fiducia in me stessa. Non so come, mi trovai tra le mani La morte nell’anima, che mi con-vinse che Sartre non era poi così inavvi-cinabile. E così lessi, in rapida succes-sione La nausea e Il Muro. Ero ormai troppo grande per le pietre miliari, ave-vo avuto troppi amori letterari, ero di-ventata più incostante ed infedele. Ma come non restare impressionati da que-sti due libri? Come non sentirsi stupidi per le prece-denti esitazioni, per il ridicolo freno che mi veniva dal sapere che tutto Sartre era all’Indice? Che leggere Sartre ti faceva, un tempo, rischiare la scomunica? Allo-ra non ero ancora approdata ad un sano ateismo e l’Indice dei libri proibiti mi turbava ancora. Anche se era stato for-malmente abolito ma….i preti, durante le prediche, lo citavano ancora. Anche

QUANTI MURI…

TROPPI!

Jean Paul Sartre con Simone de Beauvoir e Che Guevara nel 1960 (foto da Wikipedia)

Vivevano in albergo, mangiavano

sempre al ristorante, lavoravano

al Café de Flore

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se, a dire il vero, anche la S.d.B. era all’Indice e la cosa non mi aveva ferma-to. Ma Sartre, non so perché, sembrava più…. demoniaco. Il muro: è diffi cile parl are di un libro che ti ha toccato profondamente, che ti ha dato una sorta di scombussolamen-to, che ti ha fatto vedere, ancora una volta, il mondo e la realtà (ma quale?) in un modo diverso rispetto a prima (e inconciliabile). Può un libro avere tan-to potere? Eccome! Un libro che ti ha fatto, soprattutto, riflettere sugli infiniti muri di cui la nostra vita è piena. Reali e metafori ci. Reale è il muro del primo racconto, il realissimo muro davanti al quale si effettuano le esecuzioni. Si svolge in una notte d’attesa, attesa dell’esecuzione che sarà eseguita esat -tamente all’alba dell’indomani. Cosa prova nella sua pelle, nel suo corpo, nei suoi organi sensoriali un uomo che sente gocciolare via il tempo, il suo ultimo tempo? Che sente finire la sab-bia nella clessidra? Com’è possibile aspettare una cosa simile? (MAI ho capito i fautori della pena di morte, ma probabilmente si tratta di scarsa imma-ginazione. Se solo provassero ad im-medesimarsi per un momento….) Il racconto si conclude, dopo un’ in-sopportabile tensione, con un beffardo finale. Che non ti aspetti, che ti spiaz-za. Una storia come questa , che ti fa vi vere momento per momento all’interno delle sensazioni di un uo-mo, ti fa pensare, solo per un attimo, che la comunicazione profonda sia possibile. E che gli scrittori ne cono-scano il segreto, siano la nostra miglio-re possibilità di conoscenza. Altre vol-te ho letto dei pensieri di un uomo che va verso la morte, ma poche volte con

tanta profondità d’indagine. Ancora più angoscioso, perché più probabile in tempo di pace, più vicino a noi è il muro del secondo racconto: c’è il muro fisico che racchiude la vita e la follia di un uomo che scivola lentamente verso la cancellazione del sé; e c’è il muro metaforico che la moglie Eva vorrebbe varcare per trovarsi con lui, per vedere e soffrire, vivere, insomma, nello stesso perduto mondo del marito. E la sua impossibilità. Perché i cosid-detti sani sono del tutto incapaci, per quanto possano desiderarlo, di varcare questo impenetrabile muro. Eva vor-rebbe provare quello che prova il ma-rito ma le è impossibile. La sua sanità mentale glielo impedisce. È una rap-presentazione diversa della follia, più spesso vista come un sottile crinale, spesso arbitrari amente fissato, che NON divide realmente. Eva, invece, è profondamente divisa dal marito e tenta, disperatamente quanto inutil-mente, di raggiungerlo. Direi che lo invidia. Ci prova con impegno ma rac-

coglie solo frustrazione. È lei quella che sta peggio, quella tagliata fuori da un mondo magico e misterioso, molto più interessante dello squallido mondo in cui lei è costretta a vivere. Lei pensa che, nella generale mancanza di senso della vita, il marito abbia trovato un magico significato che a lei sfugge. Ma

un muro è qualcosa che racchiude o qualcosa che separa? E chi mai riuscirà a definire l’essere? Beh, neanche Sar-tre è riuscito a dare una risposta defini -tiva al problema, che oggi sembra tra-scurato, lontano dal nostro campo d’interesse. In realtà, in questo come in tutti gli altri bellissimi racconti, quello che mi sembra il vero muro è l’ineliminabile muro che circonda tutti noi, il muro della nostra unica ed inco-municabile essenza, quella fiammella che chiamiamo IO, che È la nostra individualità, assieme dono prezioso e prigione. Quello da cui nessuno di noi può veramente uscire (ma lo vogliamo, poi?), nonostante ci illudiamo di farlo attraverso le relazioni profonde. È l’incomunicabilità profonda che ci avvolge, l’impossibilità di abbattere questo muro per quanto ci proviamo o per quanto c’illudiamo di poterci riu-scire. Ognuno di noi vive racchiuso entro il muro della propria irreparabile solitudine. A.L.D.

GLOSSARIO Jean Paul Sartre: scrittore, filosofo, drammaturgo francese che ha dominato per anni la scena lettera ria in Francia, ma era conosciuto ed ammirato in tutto il mondo occidentale. Autore di saggi, romanzi, drammi, gli fu assegnato il premio Nobel nel 1964 che lui rifiutò, come peraltro la Legion d’Onore. Simone de Beauvoir: scrittrice e saggista, si occupò in pa rticolare della condizione femminile con un saggio-pietra miliare, Il secondo sesso. Figura tra le più rappresentative nel panorama europeo del secondo dopoguerra.

Albert Camus: scrittore, filosofo, drammaturgo, premio Nobel nel 1957, come Sartre si riconosce nell’esistenzialismo ateo ma, al contra rio di Sartre, lascia ben presto il partito comunista. Esistenz ialismo: complesso movimento filosofico-letterario-artistico che si dirama in vari filoni e che pone al centro il pro-blema dell’essere e dell’esistere, cioè, in pra tica, il senso che ogni individuo cerca in sé e fuori di sé. È quindi l’impossibilità di trovare una risposta quello che tormenta ogni coscienza.

Indice dei libri proibiti: elenco di pubblicazioni di cui la Chiesa cattolica proibiva la lettura. Creato nel 1558 fu soppresso SOLO nel 1966, aveva l’obiettivo di preservare dalla corruzione morale e dalla contaminazione della fede le pure menti dei fedeli. È divertente leggere oggi l’elenco degli scrittori italiani posti all’indice. In pratica tutti, da Cesare Beccarla a Leopardi. Ma Ada Negri? Oggi possiamo sorriderne ma, per secoli, il possesso di libri

posti a ll’indice era uno dei principali capi d’accusa nei processi per eresia. Quelli in cui era abituale la tortura per convincere

gli accusati a confessare.

Ma un muro è qualcosa

che racchiude o qualcosa che separa?

Albert Camus

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L a legge 15 luglio 2009, n. 94, che reca "Disposizioni in materia di sicurez-za pubblica", ha inasprito notevolmente le pene riguardanti l'art. 639 del codice penale, relativo al Deturpamento e im-brattamento di cose altrui. Prevede in-fatti che, “Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro”. Per i recidivi la pena della reclusione va da tre mesi a due anni e la multa arriva fino ai 10.000 euro. L'obiettivo dichiarato di questo intervento legislativo è rintuzzare il fenomeno delle scritte sui muri, sui treni, sugli autobus e su tutte le superfici che ispirano gli interventi dei writers. Nulla da dire, invece, sui messaggi pub-blicitari che circolano sotto forma di autobus. O su quei magnifici fondali colorati di decine di metri quadrati, do-ve campeggiano notissime marche che, purtroppo, devono sopportare l'invasiva presenza di una cupola, di un monumen-to, di una fontana. Con il rischio che l'occhio cada sopra un dettaglio architet-

tonico e non sull'ultima, specialissima offert a. La situazione, in sintesi, è que-sta: chi ha i soldi acquista gli spazi e costringe tutti a guardarli; chi non li ha chiude gli occhi o fa lo spettatore. Non sarà democratico, non rispetterà i princi-pi costituzionali di uguaglianza e di libertà di espressione, ma è così. Non tutti i paesi seguono questa strada e, soprattutto, pare che non tutti si rasse-gnino a queste alternative. Per fortuna, considerando che molti di questi graffiti sono opere d'arte. Il caso qui in esame è quello di Banksy, un graffitaro di Bri-stol, che non vuole rendere pubblica la sua identità e rifiuta di commercializza-re le sue opere, nonostante siano quotate centinaia di migliaia di euro. Ma Banksy ha le sue buone ragioni per stare fuori dal sistema, egli pensa che "I più grandi crimini al mondo non sono com-messi da persone che infrangono le regole, bensì da quelle che le seguono. È la gente che segue gli ordini che sgancia le bombe e massacra i villag-gi”. Pacifista, schierato contro stato e capitalismo, Banksy ha fatto una scelta politica che si confonde con quella este-tica: “Alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune di-

ventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere”. E allora Banksy esercita il suo vandalismo sul muro che Israele ha eret-to per separare i territori occupati della Cisgiordania. Ci dipinge degli squarci che illudono l’occhio mostrando, al di là del muro, paesaggi esotici, spiagge, bambini che giocano. Oppure riempie Londra con gli stencil di topi, rat, o-diati e perseguitati, ma vitali, prolifici ed in grado di mettere in crisi individui ed intere società. Rat che è anagramma di Art, come per restituire dignità e va-lore a ciò che viene considerato margi-nale o dannoso. Banksy ci mette di fron-te ad una realtà deformata, costringen-doci a guardarla da una prospettiva tanto reale da assumere forme surreali. Le sue immagini non sono oggetti da consumare, ma piccoli e salutari shock per pensare. Come i suoi libri, che de-bordano nel doppio e nel non senso: Existencilism, esistenzialismo e stencil; Wall and Piece, un “Muro e Frammen-to” che ha una stretta assonanza con il più famoso Guerra e Pace. O un secco Banging your head against a brick wall, un salutare invito a sbattere la testa contro un muro di mattoni. Anteo Quisono

PERCHÉ SONO SENZA VALORE

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L a globalizzazione dei mercati eco-nomico finanziari e il flusso sempre crescente di popolazioni che essa gene-ra, fanno dell'interculturale un argomen-to alla moda. Queste problematiche sono analizzate, ormai da diverso tem-po, da coloro che tentano di capire i meccanismi culturali che condizionano gli scambi, anche in situazione di inse-gnamento-apprendimento. Ciò per evi-denziare che non si ha la pretesa né di essere originali, né di essere esaustivi. È proprio sull'aspetto metodologico didat-tico che si articolerà l'argomentazione, per vedere come la Scuola possa opera-re al fine di dare alle nuove generazioni una Cultura adeguata affinché il diver-so non sia accettato, espressione infeli-ce e peggiorativa, bensì diventi fonte di arricchimento personale ed allo stesso tempo reciproco. L'affi evolimento delle barriere linguistico-culturali favori rà evidentemente una graduale diminuzio-ne del fenomeno sempre più dilagante del RAZZISMO. L'allargamento dell'U-nione europea, che induce una crescita della diversità culturale, pone anche l'interculturale nel cuore delle proble-matiche europee: non ci sarà un’Europa unita senza una migliore conoscenza e comprensione reciproca fra i suoi citta-dini. Una preoccupazione ed un impe-gno maggiore richiede sicuramente l'im-migrazione dei popoli extracomunitari. Nell'educare i nostri giovani alla cono-scenza e al piacere della diversità, la Scuola svolge un ruolo di primo piano, meglio ancora gli insegnanti tutti e in particolare coloro che operano nell'area linguistica. Pare dunque indispensabile che i docenti debbano raffinare la loro professionalità, acquisendo sempre di più elementi utili alla loro formazione interculturale.

Elementi per la formazione dei docenti all'interculturale

La s fida interculturale che deve accetta-re il docente di lingua straniera non è più soltanto l'insegnare la lingua e la

cultura, ma anche mostrare come la nostra cultura interagisce con la cultura di un inglese o un francese ... cioè di un locutore straniero. Ciò presuppone per l'insegnante l’accettare di formarsi alla conoscenza e alla pratica della propria cultura e della cultura dell'altro. A tale scopo il Consiglio d'Europa, nel Quadro europeo comune di riferimento per le lingue, fornisce ai docenti alcune piste pedagogiche per definire la dimensione int ercultural e nel l' i nsegnamento/apprendimento delle lingue vive. Inol-tre, il Centro europeo per le lingue vive (CELV) ha pubblicato un manuale il cui obiettivo è proprio quello di sviluppare una competenza comunicativa intercul-turale. Il titolo è: Miroir et fenetres – Manuel de communication intercultu-relle (scaricabile gratuitamente in for-mato PDF dal sito del CELF). Per fare una citazione dal libro consigliato: “ voi dovreste in primo luogo guardare la vostra cultura in uno specchio prima di osservare dalla finestra le altre culture che vi interessano o con le quali deside-rate intraprendere degli scambi”.

Formare gli allievi all'interculturale: piste pedagogiche

Gli impliciti culturali In classe l'insegnamento/apprendimento delle lingue straniere potrà aiutare gli alunni a riflettere su ciò che intendiamo per cultura, ma esso sarà soprattutto il rivelatore degli impliciti culturali che ci condizionano. Per facilitare questa presa di coscienza dell'alunno, si ritiene ne-

cessari a una demarche assolutamente progressiva. L'insegnante potrà pratica-re questa attività iniziando con elementi culturali osservabili e riconoscibili da tutti come tali: (famiglia, cucina, abbi-gliamento, stagioni, simboli …) Egli introdurrà in seguito gli impliciti cultu-rali che condizionano il nostro compor-tamento, dal più visibile al meno visibi-le: la gestualità, la gestione dello spazio e del tempo , le relazioni e i sentimenti, le basi dello status sociale, il lavoro… Dopo aver sensibilizzato gli allievi all'interculturale, i docenti potranno pian piano condurre la classe a stabilire dei legami (differenze e similitudini) fra la propria cultura e quella della lin-gua appresa. A tal fine è utile l'analisi di documenti autentici e reali come pubbli-cità, media, film, ecc..., accattivanti per i giovani. La TV satellitare ed Int ernet si rivelano un ausilio efficacissimo ed allo stesso tempo indispensabile.

Progetti di scambi culturali

Infine la maniera più adeguata e diretta di iniziare gli studenti alla comunicazio-ne interculturale è di farli entrare diret-tamente in contatto con gli stranieri. È proprio quello che gli scambi e progetti cooperativi tentano di fare. Il progetto interattivo e collaborativo CULTURA propone così un approccio comparativo interculturale che permette ad allievi di due o più culture differenti d'osservare, analizzare, comparare dei materiali similari provenienti dalle loro rispettive culture e d'esplorarne il senso e la porta-ta attraverso i punti di vista dell'altro. Dunque conoscersi meglio per com-prendersi meglio: ecco l'obiettivo prin-cipale di un insegnamento / apprendi-mento interattivo della competenza in-tercultural e. L'interculturale è un effetto indotto dall’incontro di due o più cultu-re, effetto che conviene osservare e ana-lizzare per preparare i nostri allievi ad essere cittadini del mondo, multicultura-li e tolleranti.

Pietro Paolo Spucches

Lingua e Cultura per abbattere le barriere

...conoscersi meglio per comprendersi meglio:

ecco l'obiettivo principale di un insegnamento / apprendimento

interattivo della competenza interculturale .

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