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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #19 Marzo/Aprile 2014

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #19 Marzo/Aprile 2014

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Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, PisaLegale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini

Network in ProgressIscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisan° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

ISSN 2281-1176

[email protected]

Copertina a cura di:Alberto GiammarucoIllustratore, Grafico

Editing and graphics:Valerio MassaroVanessa Lastrucci

Con il patrocinio di:

Enrico Falqui_ [email protected]

Direttore Responsabile

Stella [email protected]

Direttore Editoriale

Valerio [email protected]

Direttore Creativo

Francesca Calamita_ [email protected]

Responsabile eventi, attività culturali e tirocini

Paola Pavoni_ [email protected]

Responsabile network culturale

Vanessa Lastrucci_ [email protected]

Responsabile Social Networks

Ludovica Marinaro_ [email protected]

Responsabile Atelier, Tirocini.

Claudia Mezzapesa_ [email protected]

Responsabile Programmazione Pubblicitaria e traduzioni

Hanno collaborato con NIP:Flavia Veronesi, Chiara Palazzi, Nicoletta Cristiani

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Editoriale

Urban Beauty è il titolo che abbiamo scelto

per il nuovo numero della rivista.

Innegabile riferimen-to all’omonimo libro di

Anna Lambertini che ab-biamo recensito su questo numero, ma anche riman-do a recenti italiche vitto-rie nel mondo delle arti cinematografiche, che ci hanno spinto a fare rifles-sioni su quella che è oggi la città e su come potrem-mo ripensarla.

Nell’ormai ultra citato film di Sorrentino si

trova il costante rimando alla bellezza, rappresenta-to in primis dallo scenario

scelto per il film, la città di Roma. La capitale italiana nello sviluppo della trama diventa teatro onirico di feste, vignette, presagi ma soprattutto dell’evoluzio-ne interiore del protago-nista.

La città viene mostra-ta come rappresenta-

zione della vita dissoluta e priva di contenuti che il protagonista conduce. Egli si muove infatti attra-verso una città bellissima in superficie, ricca e opu-lenta, di essa sfiora solo i luoghi più conosciuti, i simboli di Roma, addirit-tura il suo appartamento si affaccia direttamente sul Colosseo, ma in realtà

egli non ha alcun contatto con la vita reale e pulsan-te a volte sporca e rumo-rosa della città, così come non ha alcuna connessio-ne con una vita personale reale, tutto nella sua vita è teatro privo di contenuti concreti.

Egli arriva ad un punto in cui si rende conto

di soffrire per questa dis-solutezza e per cercare di trovare una soluzione si rifugia in un altro luogo, questa volta un isola sel-vaggia, lontana dall’urba-nizzato. Un luogo nella sua vita legato agli unici ricor-di personali ricchi di affet-to e esperienze concrete.

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Ecco che questi spunti offertici da Sorrenti-

no ci fanno ragionare su come la città abbia in sé differenti possibilità di vita e rappresentazione ma so-prattutto di evoluzione.

Può essere contenitore vuoto ma bellissimo

al quale continuare ad aggiungere orpelli rap-presentativi, o può essere esperienza reale in cui ri-cordi e vita vissuta faccia-no in modo che si vada a costituire percezione di una città pulsante e creati-va, fatta di ricordi e avveni-menti.

Questo è il bivo, il punto massimo di tensione

che ha raggiunto anche il

ragionamento sulla città contemporanea oggi.

I progettisti e gli organi pubblici con essi, posso-

no continuare ad applica-re alla città ragionamenti derivanti dal progetto ar-chitettonico, per il quale viene riposta le speranza di un nuovo sviluppo ur-bano in progetti singoli, a volte mastodontici che fungano da volano per una ritrovata vivibilità, ma che appaiono spesso distaccati dal contesto e privi di un effetto sulla vita quitidiana cittadina; oppu-re potrebbe essere possi-bile fare uno sforzo e tro-vare un punto di incontro tra progetto archittonico e progetto urbano che porti

alla realizzazione di ope-re realmente inserite nel contesto e che vengano vissute e sentite dalla cit-tadinanza stessa.

Se progetto architetto-nico e progetto urbano

riuscissero a dialogare in modo da poter dare vita ad una nuova immagine pubblica della città, con-divisa e reale, si verrebbe a creare atomaticamente una diversa relazione tra essa stessa ed i suoi fruito-ri. La città contemporanea quindi senza bisogno di particolari spettacolariz-zazioni o invesimenti mi-liardari, potrebbe rinasce-re più viva, ricca di stimoli e dunque più bella!

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ContentsContents #19RUBRICHE

Frames La miniera di Abbadia San Salvatore:

Paesaggio della memoria a cura di Flavia Veronesi e Stefano Visconti; Itacafreelance

Architettura che non ci piaceLa seconda cattedrale nel deserto

a cura di Nuria Chiara Palazzi

FOCUS ONFIRENZE CAMBIAdi Enrico Falqui, Paola Pavoni, Vanessa Lastrucci, Ludovica Marinaro, Valerio Massaro

INTERVISTALa città che vorreiintervista al prof Mario Guido Cusmano e al suo allievo Mauro Marinellia cura di Enrico Falqui

IL PROGETTOUn ospedale nel giardinodi Enrica Bizzarri

CREATIVITÀ URBANAProgetti contemporanei per il castello di Fosdinovodi Virginia Neri, Greta Parri, Claudia Parisi e Francesca Giurranna

LE RECENSIONI_il libro_

Urban Beauty!Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica

Anna Lambertinia cura di Claudia Mezzapesa

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Copertina originale a cura di Alberto GiammarucoIllustratore, grafico. Vive a Roma ma è legato con un elastico alla Terra d’Otranto. Ogni tanto va a Firenze, si perde per Bologna, poi rimbalza di nuovo a sud-est. La-vora con agenzie di comunicazione, progetti del MIUR, scrittori ed editori in Italia e all’estero, spesso con quelli che si occupano di letteratura per ragazzi.Ha pubblicato illustrazioni e fumetti con Palgrave Macmillan, Kappa edizioni, Ru-bettino, Manni. I suoi lavori sono stati segnalati a BilBolBul - festival internaziona-le di fumetto; Posterheroes; ha esposto, tra l’altro, al Future Film Festival con una mostra dedicata al 3D steroscopico nel fumetto.Dicono che le sue chine ricordino quelle di Ivo Milazzo, ma lui preferisce Hugo Pratt. Come il suo eroe solca i mari del Sud, ma a bordo di navi lunghe tre metri.

Alberto Giammaruco©

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Flavia Veronesi e Stefano ViscontiItacafreelance

Itacafreelance nasce nel 2011 per raccontare attraverso il linguaggio foto-grafico, le relazioni che si istaurano tra le persone, il fascino di differenti luoghi, la bellezza e le contraddizioni intrinseche in ciascuna cultura.http://www.itacafreelance.it/

[…] Percepire il paesaggio come patrimonio territoriale consente alle comunità di curarne la salvaguardia, la conservazione e la

riqualificazione (Paolinelli, 2011)

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La miniera di Abbadia San Salvatore: Paesaggio della memoria a cura di Flavia Veronesi e Stefano Visconti

La miniera di Abbadia San Salvatore sorge ai piedi del monte Amiata, immersa in mezzo a boschi di castagno e nelle immediate vicinanze di un bellissimo borgo medievale e del nucleo dell’antica Abbazia benedettina del San Salva-tore.

In quest’area veniva estratto il cinabro, il mi-nerale dal quale si ricavava il mercurio e che a partire dalla fine dell’800 trovò molteplici im-pieghi nell’industria e nell’agricoltura: il mercu-rio veniva usato per la preparazione della soda caustica e del cloro, per la feltratura della pel-le, negli strumenti di misurazione, nelle vernici, per la fabbricazione di saponi, per la produzio-ne di antiparassitari e diserbanti e, soprattut-to, per produrre il fulminato di mercurio per i sistemi di caricamento e sparo dei fucili e per la fabbricazione di esplosivi.

La miniera di Abbadia San Salvatore, soprav-vissuta solo in parte alla forza dell’uomo e del-la natura, ha subìto un inarrestabile degrado in seguito al cessare dell’attività negli anni ’70 ed il paesaggio post-industriale che si è anda-to configurando a seguito della chiusura, si è sovrapposto a quello antico con un’accentuata tendenza alla rinaturalizzazione.

La vasta area dismessa è stata oggetto negli anni, di un piano urbanistico di recupero av-viato e solo in parte realizzato e che ha visto la nascita del Museo Minerario e di un’area ar-tigianale.

Quando ci si avvicina al confine con l’ex area mineraria per la prima volta se ne rimane ra-piti; forse è la curiosità per qualcosa di antico ma che sembra nuovo agli occhi di chi non è cresciuto in questo posto, forse è l’imponenza e il timore che questo “paesaggio delle rovine” trasmettono, ma in quei momenti, quando l’os-servazione si fa attentissima, nell’accorgersi che il tempo e la natura si stanno lentamente riappropriando di questo luogo, che le struttu-re stanno in parte crollando, che le tracce del passato stanno scomparendo sotto la terra, si prova un profondo senso di dispiacere.

In un luogo come questo, dove il paesaggio è da secoli generato dalle dinamiche antropiche più che da quelle naturali, ci si chiede in effetti, se sia o meno giusto, che la natura segua il suo corso e lentamente metabolizzi i resti di que-sto passato.

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La Triade vitruviana rappresenta anco-ra oggi l’archetipo della buona archi-tettura, ove il concetto di bellezza non

rimane circoscritto al gusto soggettivo dell’osservatore, all’estetica del linguaggio e delle forme, all’impressione, ma valuta-to sulla base dei suoi cardini operativi. La critica mossa all’architettura del Deside-ri non entra, quindi, in merito alla qualità formale del progetto, che può al contempo affascinare o basire il viaggiatore, ma al ruolo che quest’imponente intervento as-solve nel contesto urbano all’interno del quale si inserisce. Architettura che “non ci piace”, inquanto nel suo imporsi in ma-niera coatta nel tessuto urbano già irrigi-dito e degradato, non è in grado di attivare un processo di rivitalizzazione dell’intero quartiere, obiettivo nobile, auspicato, ma ad oggi irrealizzato. La malata sinergia del sistema attuale, sussiste a prescindere dal-la presenza di quest’imponente architettu-ra, che per costi e dimensioni non può ri-dursi ad una sterile autoreferenzialità. Gli elementi di criticità marginale, del quar-tiere Nomentano e Pietralata, sono molte-plici e permangono invariati. Parafrasando Le Corbusier, la condizione odierna de-nuncia la perdita di controllo di una “mac-china complessa”. Il limite più importante del progetto risiede nella volontà di mano-vrare i flussi, continui e immutati, senza intervenire sui poli attrattivi esistenti che li determinano, incuranti della loro porta-ta e velocità. Si comprende come i fruitori ultimi dell’architettura rendano lo spazio in potenza, sia esso valido o meno dal pun-to di vista qualitativo, come la preesistente

metropolitana e la stazione degli autobus, uno spazio reale effettivamente fruito. La nuova stazione, invece, non è in grado di in-cubare i suoi destinatari ultimi che non co-stituendo spazio effettivo lasciano nei fatti la struttura un luogo in potenza. Essa sem-bra, quindi, volersi giustificare con il fatto in sé, rappresentando la quinta visiva di questo teatro itinerante mai skené dell’o-pera, identificabile, invece, nella modesta piazza ipogea tangente al progetto con cui, però, non trova continuità di soluzione.

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Architettura che ci piace/ non ci piace

La seconda “cattedrale del deserto”La Nuova Stazione Tiburtina

di Nuria Chiara Palazzi

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Docenti responsabili del Laboratorio

“ Architettura e Città”

Prof. Antonio Capestro modulo di Progettazione architettonica

Arch. Mauro Marinelli modulo di Progettazione urbanistica

Prof. Enrico Falqui modulo di Progettazione paesaggistica

Tutors Paola Pavoni, Claudia Pinelli, Federica Minieri,

Vanessa Lastrucci, Ludovica Marinaro, Valerio Massaro

Progetti pubblicati di: Alberto Stazio, Lorenzo Borzonasca, Luca Fiorini, Shirin Amini,Giulia Franceschi, Elisa Cortopassi,

Susanna Sacchetti, Giovanni Di Benedetto, Tommaso Secchi, Federica Di Santoro,

Margherita Pacenti, Sara Dei

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FIRENZE CAMBIA

A cura di Enrico Falqui, Paola Pavoni, Vanessa Lastrucci,

Ludovica Marinaro, Valerio Massaro

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IL LUOGO DELLA FORMAZIONE

Pochi sanno, tra i nostri lettori, che il Dipartimento di Architettura di Firen-ze forma i propri allievi all’interno di due complessi carcerari, Santa Verdia-na e Santa Teresa, che sono fortemente radicati nel tessuto del centro storico e costituiscono “da sempre” un fattore identitario e di appartenenza per tutti gli abitanti di Firenze.Il carcere di Santa Teresa, per molti anni luogo di detenzione di ergastolani, si era insediato ai primi dell’800, pren-dendo il posto di un antico convento delle Suore Carmelitane Scalze, fonda-to agli inizi del ‘600 su progetto di un famoso architetto dell’epoca, Giovanni Coccapani, ben appoggiato dall’alta ge-rarchia ecclesiastica fiorentina e roma-na, che lo considerava un vero e proprio monumento “per la contemplazione

religiosa e il servigio di Dio”.In ogni epoca del lontano e recente suo passato, questo Luogo ha inscritto nel suo codice identitario la sua funzione “educativa e rigenerativa”, percepibi-le dai giovani allievi architetti in ogni ambito spaziale, interno ed esterno, del complesso edilizio dove essi svolgono quotidianamente la propria attività for-mativa e di ricerca.Santa Teresa è divenuto, in pochi anni, uno straordinario “campus universita-rio” nel cuore di Firenze, nel quale un vasto reticolo di celle carcerarie, refet-tori, tabernacoli, cisterne, corridoi, ar-chi e porticati, piccole cappelle e Chiese conferisce un’atmosfera di “magica re-minescenza” delle storie e dei racconti di tanti uomini e donne che qui hanno trascorso, in modi e forme diverse, l’in-tera loro esistenza.Vi è sicuramente un “nesso occulto”

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tra la Storia del complesso di Santa Te-resa e la riscoperta vivacità che questo luogo, oggi, ha saputo propagare a tutto il Quartiere e a gran parte della città di Firenze.In altre parole, l’insediamento del-la Facoltà di Architettura ha prodot-to nell’antico e rinascimentale “Rio-ne Rosso” della Mattonaia (nel 500 il Rione era un vivacissimo “margine” di Firenze, popolato da gente umile e laboriosa, da opifici e fornaci che de-limitavano le antiche mura della Por-ta alla Croce e da molti orti e giardini, frequentatissimi dai loro abitanti) una straordinaria “ri-vitalizzazione” di un Quartiere, Santa Croce, che, a partire dall’alluvione del 1966, aveva subito progressivamente un lento ma ineso-rabile declino. Santa Teresa è un “pro-getto” riuscito di quella utopia urbana che molti cittadini, amanti di Firenze, vorrebbero trasferire a tutta la città.Ecco, a noi pare proprio che la Firenze del futuro, passa anche attraverso le idee, i progetti degli studenti della Fa-coltà di Architettura dell’Università di Firenze,che hanno deciso, insieme ai loro docenti e tutors, di mostrare ai cit-tadini di Firenze visioni e progetti per una nuova qualità dello spazio urbano e del suo paesaggio, per la realizzazione di nuove centralità urbane e di nuove connessioni ecologiche e culturali, per la rigenerazione di luoghi assopiti e di-menticati dalla nostra comunità, per la riorganizzazione radicale dell’accessi-bilità dei quartieri e del sistema urbano.Il racconto di un’idea nuova di Città sca-turisce dall’attività di un Laboratorio “Architettura e Città”, al quale hanno partecipato 86 allievi iscritti all’ultimo anno del Corso di laurea specialisti-ca in Architettura del DIDA di Firenze, producendo 27 progetti compresi nel corridoio fluviale, in riva destra e sini-stra dell’Arno, in un territorio urbano che da Rovezzano arriva fino al Ponte all’Indiano.Questo racconto parla all’intera città di

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una “visione” della città che ridefinisce i suoi “confini” (Città metropolitana), riorganizza in modo sostenibile le fun-zioni di accessibilità interna e di mo-bilità extraurbana, riqualifica gli spazi aperti e i vuoti dismessi presenti in tutti quartieri, progetta nuove centralità per lo spazio pubblico, crea nuove “polari-tà” per il sistema della Cultura e nuove opportunità espositive e di produzione per il sistema dell’artigianato e della moda, decentra lo spazio per lo sport e il tempo libero negli antichi Rioni e nei moderni quartieri della Città.

LO STRUMENTO DELLA TRASFOR-MAZIONE

Durante i mesi di preparazione del La-boratorio “Architettura e Città”, si è a lungo discusso, tra i docenti e i tutors responsabili dei tre moduli, (proget-tazione architettonica, progettazione urbana e progettazione paesaggistica) sulla carenza fondamentale della cul-tura urbanistica e architettonica anco-ra oggi presente in Italia: ovvero, quella di “separare” il progetto di architettu-ra dal progetto di città e, conseguente-mente, dal paesaggio urbano.Già alla fine degli anni 60, si era con-testata l’arrogante pretesa di “un’idea architettonica” della pianificazione economica e urbanistica, richiesta a gran voce da una parte del mondo eco-nomico dei costruttori edili, secondo la quale “la dinamicità del territorio richiede la flessibilità dell’organismo-architettonico”.In realtà, l’Architettura è parte inte-grante del paesaggio urbano e deve dialogare con esso per trarre dai suoi caratteri e dai suoi sistemi di relazione le proprie matrici formative, ponendo-si come elemento di sistema anziché come “oggetto”.

Dopo questa discussione preparatoria, si è strutturato un Laboratorio “spe-rimentale” di progettazione integrata della Città, coinvolgendo gli allievi in

un processo di dialogo continuo tra il linguaggio dell’Architettura, della Pia-nificazione Urbanistica e del Paesaggio urbano, che ha caratterizzato la prima fase di lavoro. In essa, si è fornito agli allievi un approccio interpretativo e un metodo di lavoro che consentisse loro di progettare non tanto opere sin-golari o con caratteristiche al di fuori della norma, bensì di trasformare gli

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spazi per un’architettura civile, capa-ce di raggiungere livelli di qualità dif-fusa nella costruzione della città e del suo paesaggio, e di essere condivisa da parte della Comunità, perché capace di soddisfare bisogni sociali e culturali ef-fettivi dei propri abitanti.Il metodo adottato è stato quello dell’immediata “immersione” degli allievi nei luoghi più diversi della città di Firenze, stimolando la loro curiosità nell’apprendimento del significato dei luoghi, delle loro identità presenti o scomparse, nella consapevolezza della dinamica della crescita urbana e delle trasformazioni nel tempo dei diversi si-stemi di relazione sia di tipo insediativo sia di tipo paesaggistico. L’esplorazione della città, a piedi o in bici, ha creato, al tempo stesso, sia un effetto di “spaesa-

mento” sia un effetto di “percezione co-gnitiva” dello Spazio architettonico che del Paesaggio urbano, che ha permesso agli allievi di “uscire” dagli stereotipi e dalla retorica di certe “letture” della città di Firenze,costruendo progressi-vamente nella mente e nell’immagina-rio di ciascuno una visione nuova della città.Poco a poco, si è costruito dentro cia-scun gruppo di allievi, un racconto complesso della città “esplorata” com-posto da luoghi e paesaggi identitari e da luoghi dimenticati (o assopiti) e in forte condizione di degrado, suscitan-do l’istinto di “prendersene cura”, di sperimentare un disegno di ricompo-sizione urbana e di trasformazione ar-chitettonica per cambiare “il destino” di questi luoghi e, quindi, della Città.

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I LUOGHI DELLA TRASFORMAZIONE

Il Laboratorio ha preso in esame l’in-tero “corridoio fluviale” urbano che si sviluppa da est ad ovest per circa 12 chilometri all’interno dei confini am-ministrativi della città di Firenze, po-tenzialmente in grado di “vertebrare” i cinque quartieri della città che attra-versa e lambisce.L’obiettivo strategico prefissato è sta-

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to quello di elaborare un sistema di indirizzi, attraverso un progetto alle diverse scale, prima di carattere urba-no-territoriale e, successivamente, di approfondimento di alcune aree facen-ti parte dei Quartieri, dislocate in pros-simità del fiume Arno.L’Arno, da sempre, costituisce il “ge-nius loci” di Firenze e, nell’immagi-nario collettivo dei suoi abitanti la “struttura connettiva” di valore pae-saggistico, culturale e storico più im-portante della città. Tuttavia, proprio a partire dalla disastrosa alluvione del 1966, l’Arno è stato percepito come un “fattore di rischio e di pericolo” per i suoi abitanti i quali, progressivamente, lo hanno trasformato in un “margine” soggetto a ogni tipo di degrado.L’elaborazione interpretativa e proget-tuale degli allievi ha ripensato il ruolo per il fiume attraverso concept di ri-qualificazione e re-invenzione delle sue risorse e del suo patrimonio stori-co-culturale, trasformando il sistema paesaggistico fluviale in una cerniera di relazioni strategiche per il territorio

della città metropolitana.Gli allievi hanno saputo proporre, nei loro 27 progetti, un’intelligente “ri-contestualizzazione” dell’Arno rispetto ai quartieri e al sistema urbano, ipotiz-zando un sistema spaziale complesso e continuo, nel quale ogni elemento ed ogni ambito si caratterizzano con una propria identità appartenente alla tota-lità del sistema urbano-territoriale.

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RADICI DEL FUTURO progetti di: Alberto Stazio, Lorenzo Borzonasca, Luca Fiorini, Shirin Amini, Giulia Franceschi, Elisa Cortopassi

Il progetto parte dall’analisi e interpretazione delle relazioni tra le parti componenti la città, i loro ruoli le loro identità e sfocia nella scoperta di quella progettualità presente in ogni spazio e in ogni luogo che se portata alla luce si può concretizzare in un nuovo destino dei luoghi, che ha le sue radici nella tradizione del passato e la sua realizzazione nel futuro. Ed è proprio dalle radici che il processo interpretativo del gruppo ha avuto inizio.

Il lavoro ha visto i gruppi di lavoro confrontarsi continuamente tra loro per scegliere le strategie comuni degli interventi di progettazione a scala urbana cui fanno capo tre parole chiave, Produzione, Aggregazione, Relazione, che si sono poi materializzate in funzioni e ruoli contemporanei per il luogo in cui sono intervenuti.

Il gruppo, costituito da due sottogruppi che hanno agito su aree limitrofe, ha scelto come area d’intervento Piazza Vittorio Veneto e gli immediati dintorni: un’area che rappresenta una di quelle “occasioni perse” dove luoghi potenzialmente (e storicamente) interessantissimi non riescono a comunicare se stessi, rimanendo nell’anonimato e nell’incertezza della loro “funzione”. Quello era un luogo dove sorgeva il limite tra città e campagna; un luogo che fu immaginato come il trionfale

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ingresso al parco delle Cascine per ospitare invece un’infrastruttura stradale che rappresenta una mobilità più metropolitana e territoriale che cittadina. All’elenco si aggiungono riferimenti importanti come la nuova Casa della Musica di Firenze, La stazione Leopolda che hanno un peso sostanziale nel sistema urbano ed una serie di edifici dismessi o in dismissione ricchi di potenzialità silenti. La complessità spaziale di questa costellazione di “emergenze” creano un non-luogo che spaventerebbe i progettisti più dotati e con alle spalle molta esperienza.

La scelta del concept “Radici” che i ragazzi hanno sviluppato su tutta l’area urbana fiorentina (in gruppo) è stato elaborato dopo una lunga e dettagliata analisi dei luoghi che costruiscono la città e rappresenta da un punto di vista concettuale la necessità della città di ritrovare un rapporto vitale, positivo e costruttivo, rispetto al fiume (ormai dimenticato) che la attraversa e di come essa debba nutrirsi continuamente dalle diverse parti che la compongono. L’impatto visivo del concept d’altra parte riesce a visualizzare l’intricato e complesso reticolo di relazioni

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che compongono lo spazio urbano e dunque quelle appendici “rinsecchite” che indeboliscono l’intero sistema.

Il concept ha la capacità di affrontare lo spazio del paesaggio urbano con la sensibilità dovuta, essere vivente in perenne cambiamento. Inoltre, essendo sviluppato con la volontà di riscoprire una tradizione ed un passato a cui riallacciarsi saldamente ha portato

ad un progetto tutt’altro che storicista ma saldamente e pragmaticamente legato a dei luoghi che necessitano la riscoperta o il cambiamento.

Gli obiettivi del progetto sono chiari: riscoprire una storia assopita della città di Firenze, quella dei quartieri dell’artigianato e sfruttarla per ricucire lo spazio urbano ricostruendo funzionalmente ed economicamente una piccola filiera artigianale aggiornata alla contemporaneità. Ritrovare l’identità di una città storica e riattivarne i legami con la tradizione attraverso la scoperta di un destino nuovo per il luogo che guarda coerentemente al passato.

Nel progetto i quartieri artigianali “riscoperti” come San Frediano, si ricollegano a diverse parti della città ora assopite per “aggiornarsi”

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alla contemporaneità attraverso la produzione di cultura, aggregazione e relazioni, creando spazi per il co-working, centri per l’informazione e la formazione e laboratori materiali e digitali.

Riuscire ad immaginare una città “altra” pur coerente con la sua natura era lo scopo dell’ intero laboratorio ed era richiesto che i progetti riuscissero ad “uscire” dal proprio sito per riuscire a generare una idea nuova di città. Si sarebbe potuti incappare nell’errore di seguire pedissequamente il concept proponendo una interpretazione formale del tema delle radici che invece è stato sviluppato nella sostanza dei rapporti funzionali e infrastrutturali.Il linguaggio architettonico, elaborato

e ricco di complessità creativa nell’articolazione degli spazi, riesce a creare un paesaggio urbano sobrio ed ibrido che reintegra il costruito della città al parco. Un atteggiamento necessario per creare una identità contemporanea nuova per una vasta area che accoglie come detto una serie di emergenze architettoniche.

Con questo impianto funzionale chiaro non si sono spaventati davanti ad un tema difficile come quello dello scorrimento delle automobili e della tramvia, riuscendo ad enfatizzare queste infrastrutture come elementi vitali della città contemporanea. Hanno agito su un margine incompiuto e sono riusciti ad immaginare un luogo.

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FLORENCE CAMPUS B+G Progetto di: Susanna Sacchetti, Giovanni Di Benedetto, Tommaso Secchi

Gavinana e Bellariva si guardano dalla sponda, nella migliore tradizione fiorentina riproponendoci un moderno e marginale di qua e di là d’Arno. Durante il Dopoguerra, mentre si costruirono le case, si dimenticò

di tirare i ponti tra i due quartieri ora ex-operai. I ponti arrivarono solo negli anni ‘70 e, in sintonia con il resto dell’ambiente urbano, erano -e rimangono- a misura d’automobile.

Eppure una connessione è possibile, dal momento che entrambi i quartieri offrono grandi spazi senza destinazione d’uso, complementari tra una riva e l’altra, come parchi, centri sportivi, luoghi di ritrovo e l’ex ospedale psichiatrico di San Salvi. L’indagine sociale ha però rivelato impietosamente che dalle aeree è totalmente assente la categoria dei “giovani”, fatto che influisce sull’uso dello spazio urbano e sul grado di pubblico, ed inquadra le zone come “quartieri dormitorio”. Queste le considerazioni da cui è partito il progetto di campus universitario e di ricerca di Giovanni Di Benedetto, Susanna Sacchetti e Tommaso Secchi.

Alla scala cittadina l’intervento si configura come un’asta connettiva che si allaccia al tessuto urbano grazie alle funzioni ospitate dai volumi: gli

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appartamenti per studenti, la ferrovia urbana, le aule, i campi gioco, la libreria universitaria e di quartiere, ed infine i laboratori. È corretto parlare di asta quando gli oggetti architettonici sono stati concepiti come dei regoli appoggiati gli uni agli altri, che toccano il suolo solo dove devono permettere la giustapposizione delle attività e lo scambio con l’ambiente cittadino. C’è un’altra direzione da prendere in considerazione quando si parla di asta, senza la quale il concetto è monco, ed

è quella trasversale: la direzione del fiume, il grande assente dalla scena urbana, a cui corrono paralleli ferrovie e viali. Nei loro riguardi i regoli si pongono come ancore ai flussi che ne rallentano la velocità percepita, come la biblioteca ponte che interagisce con la corrente d’acqua adattando la pelle del rivestimento esterno alle condizioni climatiche e alla portata del fiume. Oppure come riferimento visivo e richiamo (stazione, blocco appartamenti, edificio per la ricerca)

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così da assumere il ruolo di nodi.Ma la scelta formale è frutto di

un ragionamento immersivo sulla vivibilità dei quartieri, che ha tenuto in particolare attenzione la permeabilità dello spazio urbano (assolutamente poroso ed attraversabile in entrambe le direzioni principali) e la volontà di non inserire nuovi usi che allontanassero gli attuali abitanti. È così che ad ogni elemento del campus si accompagna sempre un elemento che serve le due zone in un continuo binomio di funzioni e di linguaggi: biblioteca del campus e di quartiere, appartamenti per residenti e case sperimentali per studenti, campi coltivabili per la Facoltà di Agraria e orti per i pensionati, così via. Ciò si riflette anche nella scelta del riuso di luoghi di riferimento, quali San Salvi, o la piscina, o il centro sociale, sempre accostati a nuove espansioni architettonicamente molto

caratterizzanti. Questo bilanciamento permette alle due aree che si fronteggiano, di fondersi in un unico sistema che funziona alla scala locale ed alla scala urbana conferendogli lo status di “parte di città”, vera e viva. Una parte di città che non si isola proprio grazie alla transcalarità del disegno urbano perché il sistema connettivo dell’asta è potenzialmente ancora estendibile verso Nord fino alla zona di Coverciano e fino al centro commerciale di Gavinana verso Sud.

Il progetto riesce ad operare questa sostanziale trasformazione perché ha alle spalle una solida visione della città compresa nell’ottica metropolitana, ed una solida strategia di programmazione e differenziazione degli spazi urbani che ha valore al di là di qualunque linguaggio architettonico si possa adottare.

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AGRICOLTURA URBANA progetto di: Federica Di Santoro, Margherita Pacenti, Sara Dei

Oggi la città si pone come un arcipelago sempre più articolato e fitto di territori instabili. Ci sono quartieri frastagliati i cui sistemi di relazione, come “cime”, si infittiscono solo in pochi nodi, sulle “bitte” dei centri di rappresentanza, scavalcando completamente parti di città che private del loro status di luoghi, vengono lasciate “in bando” e vanno pian piano alla deriva. Cambia il senso canonico di periferia. Da corpo esterno, disordinato, parliamo oggi anche di spazi interclusi nei tessuti consolidati

di cui sbiadiscono i connotati, perché diventano soltanto posti dai quali si rivolge lo sguardo altrove, verso la città che funziona; posti dove non ci si riconosce, di cui ci si dimentica; ripostigli che ben accolgono timide aspettative in sistemazioni provvisorie e lamentele e rassegnazione di chi lo spazio pubblico ormai non lo sa più cambiare. Questa condizione di progressivo sgretolamento attraversa la città europea da decenni e si avverte ovviamente anche a Firenze, motivo per cui il laboratorio Architettura e Città ha posto l'attenzione su tale trasformazione guardando la città da un punto di vista privilegiato, proponendo

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l'incursione attraverso la spaccatura più notevole, l'Arno.

Muovendo da questa visione di città spaccata come i cretti della terra arida, il concept del terzo progetto che vi presentiamo ci arriva con la forza e l'eleganza della semplicità, è l'insieme dei saperi legati alla terra: l'Agricoltura vista come cultural heritage.

Il core system del progetto di Federica Di Santoro, Sara Dei e Margherita Pacenti si sviluppa come un sistema di “irrigazione” capillare che scaturisce dal fiume per ridare linfa ad uno “spazio vacante” sul tracciato dei viali del piano Poggi: l'asse costituito da Arno-Caserma Baldissera- Piazza Beccaria,

un'area attualmente vissuta come grande spartitraffico che segna un margine marcato tra il centro storico ed il Quartiere 2. Qui il recupero delle pratiche agricole dell'orticoltura e della floricoltura, diventa strumento di trasformazione e ricucitura del tessuto urbano, all'insegna di una vera e propria contaminazione vegetale. L'intervento infatti si caratterizza soprattutto per la sua pratica erosiva, laddove di fronte ad un edificio dalla dimensione più prossima a quella di un intero isolato, si opera una riconversione per sottrazione di materia, scardinando il linguaggio architettonico massivo della caserma per ristabilire permeabilità e prospettive tra i due quartieri aldilà

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dell'invisibile tracciato murario antico e il fiume. E' la stessa vegetazione a farsi architettura, delinea il profilo di grandi pergolati per la sosta ed il passeggio, fiorisce nei prospetti delle pareti vegetali, si inserisce sinuosa nei giardini sino all'argine fluviale articolato in terrazzamenti per l'esposizione della Floriade, anima lo spazio pubblico del sistema di piazze che finalmente riattraversa anche il grande volume dell'Archivio di Stato. Le nuove attività che vivificano questo spazio scaturiscono semplicemente da un contatto ritrovato con la terra, di qui l'idea del Museo del Fiore, peraltro simbolo stesso della città, che diventa l'edificio di testa dell'intero complesso. Al contorno spazi dedicati ad accogliere

i flussi delle attività del centro e dei vicini complessi universitari, sia per lo studio, nella nuova biblioteca e nella corte giardino, per la residenza, nei complessi dedicati al cohousing, per la sosta e la ristorazione. Il coraggio di questo modo di rileggere la città sta nel rendere queste zolle fertili con un intervento a volumi zero, declinando il mestiere del “giardiniere planetario” come pratica di “cura” e conservazione attiva del territorio lungo tutto il corso del fiume dalla piccola alla grande scala. C'è insomma un nuovo approccio spiccatamente paesaggistico alla progettazione dello spazio pubblico, come luogo da “coltivare”, in tutti i sensi.

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Prof. Arch. Mario G. CusmanoProfessore Emerito dell’Università degli Studi di Firenze

Nato a Genova nel 1931, si laurea nell’A.A. 1956 /‘57 presso la Facoltà di Architettura di Firenze. Dal 1957 è docente in Urbanistica, ai vari livelli, collaborando nell’insegnamento con Ludovico Quaroni per sette anni. Divenuto Professore Ordinario nel 1976 è stato eletto Preside della Facoltà di Architettura di Firenze per i due trienni 1978/’81 e 1981/’84.Nella seconda metà degli anni ’80 e per un quadriennio è membro fondatore della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari. Nel 1986 viene insignito della Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per i Benemeriti della cultura, dell’arte e della scienza. Nel 2006, ritiratosi dall’insegnamento, è nominato Professore Emerito dell’Università degli Studi di Firenze.Ha rivestito cariche nell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) e nell’Associazione Italia Nostra, membro per numerosi anni del Comitato scientifico dell’IRPET e membro onorario dell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze.Autore di oltre trecento saggi e interventi su riviste e testi italiani e stranieri, ha pubblicato i volumi: Misura misurabile, argomenti intorno alla dimensione urbana, FrancoAngeli Milano 1997; Siena in commissione, brevi ricordi di un'esperienza civica, Edizioni Il Leccio, Siena, 1997; Città e insediamenti, dalle prospettive dell'area vast a alla costruzione dello statuto dei luoghi, Milano 2002; Oggi parliamo di Città, spazio e dimensioni del progetto urbanistico, Franco Angeli, Milano, 2002; La Fonte di Narciso, Libreria Alfani Editrice, Firenze, 2003; Le Parole della Città, viaggio nel lessico urbano, FrancoAngeli, Milano ,2009; La Cultura della Casa, percorsi critici nel territorio dell'abitare, FrancoAngeli, Milano, 2011; Insegnando la Città, un mestiere in via di estinzione, FrancoAngeli, Milano 2012. Ha svolto una selezionata attività progettuale nel campo della Pianificazione urbanistica e territoriale, dell'Architettura e del Disegno Urbano.

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LA CITTA’ CHE VORREI Intervista al Prof. Mario Guido Cusmano e al suo allievo Mauro Marinelli

a cura di Enrico Falqui

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F: Prof. Enrico Falqui

C: Prof. Mario Guido Cusmano

M: Arch. Mauro Marinelli

F: Nei mesi scorsi è uscito nelle librerie il tuo ultimo saggio, “La Città e il suo racconto”, edito da Le Lettere, storica casa editrice fiorentina, che costituisce una sin-tesi raffinata dell’Utopia concreta di città che hai perse-guito nel corso della tua carriera di studioso e di docente universitario. C’è un passaggio della tua introduzione al saggio che rivela l’intenzione di dedicare questo libro alle nuove generazioni, ai giovani, come se tu affidassi in pri-mo luogo a loro il compito di portare avanti questa “visio-ne” culturale e sociale della Città. Il tuo saggio, infatti, è organizzato intorno a tre concetti fondamentali: la città pre-moderna, la città moderna e la città futura. Attraverso questi tre concetti ci offri una narrazione della Storia del-la città, permeata da una forte ispirazione Mumfordiana, che ci spiega in modo chiaro e affascinante quali siano state le regole, le relazioni e l’organizzazione che ha esal-tato il ruolo della “civitas” e quali siano state le ragioni fondamentali del “cortocircuito” prodottosi all’avvento del-la città contemporanea. Ora, proprio perché nell’introdu-zione ti rivolgi alle giovani generazioni, quali indicazioni hai voluto affidare alla loro azione futura, come devono rivolgersi nei confronti della città quando immaginano di trasformarla attraverso il Progetto?

I giovani... sono cresciuti e crescono... con una visione della città fatta appunto da molte ombre; in altre parole, in una visione

“pessimista”.

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C: Devo dire che un po’ tutti i miei libri sono rivolti ai giova-ni, tuttavia questo libro lo è in misura particolare per vari mo-tivi. Io penso,cioè, che i giovani di oggi si trovino a conoscere la città in uno dei momenti forse più drammatici della Storia della città. Quindi in qualche modo sono cresciuti e crescono, forse anche per colpa della scuola, con una visione della città fatta appunto da molte ombre; in altre parole, in una visione “pessimista”. Questo deriva, a sua volta, dalla storia ogget-tiva che stiamo trascorrendo (non sono certo, i nostri, tempi né sereni né pieni di ottimismo), ma forse anche dal fatto che la Cultura della città in questo caso (quindi se vuoi anche la Cultura accademica) ha in questi ultimi tempi molto insistito sulla crisi della città, dando alla parola crisi uno solo dei suoi significati. “Crisi”, dal greco, vuol dire sia un processo che può finire con la morte sia un processo che può finire con la guarigione.

Ecco, questo secondo tipo di aspetto, (che non è ottimismo, ma è anch’esso nelle cose) e che soprattutto si ritrova sempre nella Storia della città, è qualcosa che fa parte della nostra cultura un po’ senza speranza, un po’ disillusa nei confronti del futuro. Viceversa, io credo che sui giovani questa visione possa avere anche un effetto devastante, negativo, e proprio per questo, tra gli altri impegni del libro, ho sentito il bisogno da parte mia di illustrare la faccia bella della città, poiché non vi è dubbio alcuno che le nostre città, nonostante le trasformazioni avute, sono ancora delle città piene di spessore e di significati, quin-di, se si vuole “belle”, appunto.

Dopo tanti anni di insegnamento (più di 50 nella Facoltà di Architettura di Firenze) mi sono accorto sempre di più di come la Città, in fondo, fosse insegnata dietro determinate ottiche, chiamiamole pessimistiche. Un esempio, si è parlato molto

“Crisi”, dal greco, vuol dire sia un processo che può

finire con la morte sia un processo che

può finire con la guarigione.

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spesso di “urbanistica” o della “Città come coincidente con il Piano”: uno degli errori forse, concettuali, nostri e della no-stra cultura, che è stato quello di considerare il piano in qual-che modo come la “contro-faccia” della città, o, parafrasando Kevin Lynch, dell’immagine della città.

E il Piano, se vogliamo essere sinceri, soprattutto il Piano moderno, è quanto di più vincolistico e triste si possa pensa-re; e quindi tutta l’atmosfera stessa della pianificazione, è ri-sultata, anche a torto, come la cifra più evidente della nostra cultura e quindi anche del nostro insegnamento. Tutto ciò non mi è mai parso giusto. E anche questo, naturalmente, serve a spiegare uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere questo breve testo.

Che cosa ne esce fuori? Una struttura del libro, come tu hai gentilmente ricordato, organizzata in tre temi fondamentali. Tuttavia, nel trattarli ho fatto in modo che il vero protagonista fosse la Città, perché spesso si è dimenticato questo concetto: la Città è stata spesso pensata come una specie di supporto di tante cose, ma spesso di tante cose viste al negativo, di tanti difetti e di tante ingiustizie etc.

E se questo è giusto, per certi aspetti, per quella che un tem-po chiamavamo la “Città capitalista”, tutto ciò non è la rap-presentazione giusta, se ad essa vogliamo attribuire il ruolo di “abito della città”, ovvero la sua sola immagine. Sopratutto le città italiane, ma credo un po’ tutte le città europee, (quelle, cioè, che hanno una dimensione ben precisa dove si capisce ancora il loro funzionamento e il loro significato), queste cit-tà, viceversa, hanno bisogno di essere riscoperte attraverso queste loro doti e qualità che le rendono, a mio avviso, mera-vigliose.

La maggior parte delle città italiane sono quasi tutte ab-bastanza piccole, da Firenze in giù per dare una dimensione spaziale e demografica: esse sì sono deformate, ma non com-pletamente. Si sono salvate in qualche modo, e ciò è accaduto perché queste città hanno qualcosa “dentro”, delle “parole chiave”, come quella dimensione ben definita, che Galileo

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Galilei chiamava “misura misurabile”; e ancora delle imma-gini riconoscibili, lo spessore delle qualità urbane, l’unione e la fusione dell’“urbs” con la “civitas”. Dunque, in queste tematiche che ho individuato ritornano delle “parole” che si addicono ad una “realtà bella” e positiva.

F: Adesso, facciamo un passo avanti: tu ti soffermi su una questione che è molto presente nel dibattito culturale attuale che, diversamente dal passato, non avviene più in pubblici consessi (quali INU, riviste nazionali di urbanisti-ca e di architettura della città, etc) bensì in ristretti circoli o clubs accademici e che riguarda la visione attuale del “Progetto urbano” secondo la quale esso ha assunto il si-gnificato e la pretesa di “essere forma definitiva”, di risul-tato raggiunto. A questo proposito nel tuo libro, proprio in conseguenza di questa riflessione, tu parli di proget-tualità razionale, quasi prendendone le distanze per arri-vare a recuperare nella Città Moderna il senso che essa ha, nelle sue origini di forma, di misura, di dimensioni e di rapporti, la sua contemporaneità. Ci puoi spiegare meglio, il “perché” di questa tua riflessione e quali conseguenze essa potrebbe avere su ciò che oggi si intende per “Proget-to urbano”?

C: La parola “Progetto”, salvo appunto ricordare il suo eti-mo, discende forse da un’altra scala della progettazione, che è quella architettonica: se io faccio un edificio o qualcosa che si possa chiamare architettura, allora il termine progetto lo trovo appropriato. Il discorso cambia molto per la città, per-ché intanto la città è una serie di progetti, ed essi non sono affatto legati l’uno all’altro, anche se nelle città belle, qua-

...perché queste città hanno qualcosa “dentro”,

delle “parole chiave”, come quella dimensione ben definita, che Galileo

Galilei chiamava “misura misurabile”

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si per un mistero della creatività, trovi i vari progetti urbani molto legati l’uno fra l’altro. Tuttavia, non vi è dubbio che la parola “Progetto per la città” assume tutt’altri significati. A questo proposito, il ricordo va a un grande maestro che io ho conosciuto in maniera discontinua per ragioni di età, Giovanni Michelucci. Michelucci, grande architetto e grande interpre-te della città,non teneva in gran conto questa differenza tra progetto urbano e progetto dell’edificio, tanto che lui diceva che assimilava la città a una casa: le strade erano i corridoi, le piazze erano i luoghi di scambio che si hanno nelle abitazioni, i luoghi dove vivere erano le camere etc. Questa visione si era diffusa soprattutto negli anni del dopoguerra quando io ero studente, e che poi ho sentito ripetere centomila volte, spesso acriticamente. Il paragone era anche pieno di poetica, perché richiamare per la città l’abitare è in qualche modo sottolineare tutto quello che la città ha in sé di umanità e di vitalità, ma è una strada che non tiene conto di come la città sia estrema-mente più complessa di una abitazione.

Non si può fare un paragone diretto tra due complessità di-verse, quella della casa, che ne ha una sua, e la complessità della città, dove poi le complessità domestiche sono anche l’u-na contro l’altra armate. Questo esempio mi sembra utile per far capire che la ricchezza di valori della città è stata sempre un qualcosa che forse andrebbe rivisto. Per esempio, a mio avviso, uno degli errori del Movimento Moderno (e quindi poi il suo funzionalismo e il cosiddetto razionalismo) erano errori nel senso che tendevano a semplificare la complessità, e sem-plifica che ti semplifica, arrivavano ad annullare la complessi-tà stessa.

...non si era capito che si andava verso dei tempi... in cui... la complessità è una delle nature della società e

della città di oggi.

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Ecco questo a mio avviso è stato un errore, anche storico, perché non si era capito che si andava verso dei tempi comple-tamente diversi in cui si sarebbe scoperto che la complessità è una delle nature della società e della città di oggi.

F: Quindi, se seguo il tuo ragionamento, in queste tue conclusioni , stai pensando forse che i tempi siano maturi per una ripresa del dialogo tra Architettura della città e Progetto urbano?

C: Certo.

F: Ti ho fatto questa domanda perché nell’ultima Biennale di architettura di Venezia, due anni fa, questo tema è entrato con una certa forza nella discussione, grazie anche all’azio-ne del curatore della Biennale, David Chipperfield, mentre a giugno di quest’anno si aprirà la XIV Biennale curata da Rem Koolhaas: tra pochi mesi, quindi, sapremo se quell’em-brione di cambiamento culturale che molti di noi avvertiro-no due anni fa sia stato un “incidente di percorso” o se, in-vece, questo importante mutamento culturale proseguirà. Se le cose stanno così, allora, che cosa può aggiungere alle tue riflessioni sul destino della Città, un giovane allievo della tua scuola Fiorentina , Mauro Marinelli?

M: E’ complicato, ma in realtà posso semplicemente ag-giungere che come Scuola noi ci abbiamo sempre creduto, era l’impostazione culturale: forse la sorpresa è che qualcuno lo scopra ora, ma questo è stato l’atteggiamento fondante della nostra maturazione, del nostro esercizio professionale, come allievi, architetti, ricercatori delle questioni sulla città. Quindi su questo tema della progettualità che riguarda molto la città e forse anticipa la perentorietà del progetto, parte una domanda al mio maestro, perché una delle parole che torna spesso, e con cui ho aperto i miei ultimi laboratori universitari, è Destino. Normalmente “destino” ha questa ricaduta ineludibile: arriva e non puoi farci nulla. Invece qui è interpretato con questa sensibilità del lessico, è una parola che non ha contrari. E ha questo sinonimo un po’ desueto che è recapito.

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Io l’ho sempre immaginato come un punto di cadu-ta, e se lo è ha bisogno di un Progetto, di una progettuali-tà; corrisponde al gesto di gettare- in-avanti, una parabola. Il destino è nelle mani della Città, della Comunità, dei proget-tisti e nelle risorse, e ho sempre immaginato che il destino è la progettualità; la ricerca di quello che abbiamo sempre definito “progetto nascosto” della città, i suoi ruoli, le prospettive di trasformazioni e di crescita, non solo quantitativa ma soprat-tutto qualitativa, che le città hanno nel loro corpo. Alla pro-gettualità razionale levo la parola destino, volevo sapere se era l’interpretazione corretta.

C: No, no, è una bella interpretazione, forse sei andato qualche passo avanti a me, e questo mi farebbe molto piace-re. Io penso che questo far capire la differenza tra progetto e progettualità sia un punto importante soprattutto per l’Ur-banistica, perché essa non ha mai un progetto definitivo. In realtà l’urbanista, a mio avviso, dovrebbe porsi sempre più in questa veste della progettualità, che può sembrare un’idea più vaga di progettazione ma non lo è affatto. La progettualità è anche una dote se vogliamo, che ai nostri studenti abbiamo forse sempre insegnato. La progettualità può essere l’indizio o l’inizio del progetto o un disegno che lo comprende in qualche modo ma non lo specifica, e per la città questi sono fatti estre-mamente importanti.

Marinelli citava quell’altra nostra “invenzione” del pro-getto nascosto, ormai ne parlano un po’ tutti... ma che non è una semplice metafora. Secondo me, l’urbanista, proprio per la sua progettualità, dovrebbe capire che ci sono dei fatti na-turali, ambientali, sociali e culturali che in qualche modo an-ticipano il progetto. E’ come se ce lo avessero dentro, questo

...come se la città avesse un grembo dove ci sono

tanto le vestigia del passato, quanto i possibili

progetti futuri.

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progetto, che io chiamo appunto progetto “nascosto”, come se la città avesse un grembo dove ci sono tanto le vestigia del passato, quanto i possibili progetti futuri. Una delle qualità di un buon urbanista dovrebbe essere proprio quella, di saper capire il linguaggio e la cifra di questo progetto nascosto, a tut-te le scale. Non è un’idea bislacca ma neanche semplice. Ven-gono in mente tante cose ma non c’è dubbio che per esempio la città che sapeva dimensionarsi in modo da accogliere i ven-ti in un certo modo, o usare il territorio, le salite, le discese, le giaciture del territorio, è una cosa che nella città antica si legge subito, mentre nell’urbanistica moderna, spesso, leggi proprio il suo esatto contrario.

F: Senti Mario, nella parte iniziale del tuo libro, svol-gendo la narrazione della città antica, tu parli a più ripre-se di elementi fondamentali che riguardano la città e il suo rapporto con la campagna, di quello che oggi si può chiamare, con termine ampio, patrimonio e paesaggio. Se tu dovessi oggi dare alle nuove generazioni una defini-zione di patrimonio e di paesaggio guardando alla città e al rapporto tra città e campagna, quali definizioni useresti per due parole così dense di significati e contenuti?

C: Beh qui la domanda è difficile, nel senso che diventa va-stissima, ma certamente il patrimonio non si può considerare solo come il precipitato di fatti, progetti e bisogni, è qualcosa di più profondo: esso è soprattutto patrimonio in senso culturale, qualcosa che nasce e che ha le sue radici naturalmente nella Storia, come sappiamo, ma anche nei “vari tipi” di Storia.

Sono dei “sentimenti del paesaggio”...

che non rientrano in categorie misurabili con regole e procedure burocratiche.

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Per esempio Braudel fa quella distinzione bellissima della Storia: la storia degli avvenimenti, che è la storia dei Napole-one, delle battaglie etc., ma c’è la storia profonda, storia quasi sotterranea che si svolge e ha infiniti protagonisti nel tempo e che ci affascina di nuovo. Ecco, credo che il patrimonio vada letto anche attraverso questa lente che ci ha dato Braudel. Anche per il Paesaggio sarebbe a mio avviso sbagliato consi-derarlo solo come apparenza di determinate trasformazioni, soprattutto di carattere economico: è anche quello, ma è an-che qui un fatto di culture, di dialetti, di idiomi e di linguaggi, con le loro tradizioni e tantissimi altri aspetti. Se c’è una storia delle evidenze, c’è anche una storia di un particolarissimo pa-esaggio, quello delle cose nascoste o semi-nascoste ma che si possono ancora estrarre.

Devo confessare che non ho capito e più seguito i diver-si tentativi, fatti anche dalle Regioni per esempio, di rego-lamentare il Paesaggio e in un qualche modo anche l’uso di quel Patrimonio. Mi pare che siano aspetti importanti che non voglio criticare in sé, ma che spesso assumono un sapore di “regola” e lasciano troppo poco spazio a quelli che sono anche i “sentimenti” del paesaggio. Il Paesaggio non solo induce a sentimenti diversi, quando lo guardi, quando ci cammini, ma esprime dei sentimenti che poi li ritrovi quando dici “che bel paesaggio”. Quel bello non è solo perché ci sono delle belle casine e le coltivazioni geometriche, e tutta una serie di altre immagini splendide, quel bello contiene in sé qualche altra cosa, solamente il fatto, ad esempio, di pensare che quel cam-po coltivato in quel modo ti viene da dei contadini nati e cre-sciuti centinaia di anni fa che hanno poi fatto ereditare a altri la loro sapienza. Sono dei “sentimenti del paesaggio”, che sì, ha una sua matericità, ma anche questi altri suoi aspetti che non rientrano in categorie misurabili con regole e procedure burocratiche.

...di bellezza non se ne parlava, perché era dato

per scontato che chi faceva qualcosa secondo

quelle norme avrebbe già fatto una cosa

bella...

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F: Tu fai parte di una generazione definita come la “ge-nerazione del dopoguerra” cresciuta nel ricordo della dit-tatura fascista ma anche piena di speranze, di fiducia nel futuro e di visioni per un Paese totalmente da ricostruire. Quella generazione, cui tu appartieni, è stata anche quel-la che ha dato origine alla “fondazione” dell’urbanistica moderna in Italia insieme a personaggi, come Ludovico Quaroni, di cui sei stato assistente, quando venne a inse-gnare a Firenze dal 1956 al 1963. Le generazioni di oggi vivono, invece, in un Paese che, pur non uscito dalla guer-ra mondiale, si trova da venti anni in una crisi economica e sociale profonda e ha maturato una profonda sfiducia verso il futuro e verso la Politica che dovrebbe fornire loro le opportunità e i mezzi per costruire un futuro per sé stes-si e per il loro Paese. Quale messaggio ti senti di dare a queste nuove generazioni di cittadini e di futuri Architetti per guardare al futuro con più ottimismo e con maggiore fiducia in sé stessi?

C: Nel 1950, quando mi sono iscritto a Architettura, la bi-blioteca era costituita soltanto da una parte delle guide del Touring. Fu Ludovico Quaroni, appena divenuto Direttore del nuovo Istituto di Urbanistica a preoccuparsi di chiamare un corriere per far portare i suoi libri da Roma a Firenze, fon-dando l’attuale Biblioteca di San Clemente perché non poteva vivere senza un libro... Questo per dire che tempi!

Ma qual’era la cultura ufficiale dell’Architettura e quin-di dell’Urbanistica, di cui peraltro si parlava poco? Era quella cosiddetta del Movimento Moderno, quella Razio-nalista con tutte le sue regole, con tutti i suoi vangeli (uno era la Carta di Atene), con tutte le sue imposizioni. Pensa che imposizione era per un giovane che cercava di schiz-zare qualcosa sul suo primo foglio, che paura ci veniva da

ho agito sempre, sia nell’insegnamento come nella professione come un “amante della Città”

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quel rapporto forma-funzione che è stato uno degli ele-menti di credo fondamentali del Movimento Moderno. Un rapporto, se riletto oggi, quasi cattivo e sordo che ti chiu-deva qualsiasi fantasia. Addirittura di bellezza non se ne parlava, perché era dato per scontato che chi faceva qual-cosa secondo quelle norme avrebbe già fatto una cosa bel-la. Questo è un po’ il clima culturale in cui ci siamo trovati a Roma, come a Firenze o Venezia e che è durato parecchi anni. Qualcuno dice che poi arrivò il Sessantotto (in ogni caso una ventina di anni dopo) e che quel nuovo movimen-to culturale spazzò via tutti questi vincoli e artifizi cul-turali dell’Architettura, ma ciò non corrisponde al vero. Certi aspetti del Razionalismo di quegli anni, io li ritrovo an-che in opere recenti di altri Architetti e come incubi dentro di me. Tutto questo è per dire che l’intento del mio insegnamen-to è stato, fin dagli inizi , di mettere sull’avviso i giovani che non passassero più sotto quelle “Forche Caudine”!

Ciò che non è facile, naturalmente, perché il dibattito cul-turale anche apparentemente elevato, ha assunto toni che non mi sono affatto piaciuti; spesso questi Maestri, anche fioren-tini, degli anni 60 e 70, se da un lato, avevano ragione nel-la critica al Movimento Moderno, da un altro lato, volevano suscitare una sorta di nuova Rivoluzione dell’Architettura, all’interno del Movimento stesso. Tentativo che ho conside-rato sciocco, perché si è dimostrato in gran parte soltanto un cambiamento di stile.

Comunque,il mio insegnamento non ha mai dimenticato questa mia gioventù difficile, né io ho mai voluto dimenticar-la; ho agito sempre, sia nell’insegnamento come nella profes-sione come un “amante della Città”: ciò che spesso mi è stato rimproverato e mi ha causato anche delle difficoltà.

F: E questo tuo andare controtendenza ti ha anche reso difficile il rapporto con la Politica e con le Istituzioni pub-bliche?

C: Il mio rapporto con la Politica ufficiale, come quella dei partiti, è stato semplicemente inesistente. Io sono stato a Fi-renze oltre cinquant’anni, credo di aver anche dato il mio con-

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tributo, anche al di là dell’insegnamento ma non ho avuto da fare alcun progetto gratificante o un Piano significativo. Que-sto, forse, a dimostrazione di quanto e di come abbia insegna-to…

F: Oggi qualcuno parla di dissoluzione della politica. Come vedi questo che per te è stato un rapporto così inge-neroso?

C: Una luce di speranza la colgo nel fatto che le genera-zioni presenti e future si rimettano a studiare con passione la città, il territorio e il paesaggio. Ma non devono studiar-li in modo libresco o accademico, ma per sé stessi. L’au-gurio è dunque che la loro possa essere una ricerca anche molto diversa da quella che abbiamo dovuto fare noi, irre-titi da mille trappole razionalistiche, sia sensibile a quel-lo che io con pochi altri, chiamo l’ascolto della società. Ecco questa è una strada che ci può far fare dei significativi passi avanti. Così come bisogna saper accettare di nuovo la verità dei vincoli, invece che tentare tutte le vie per liberar-sene.

Il valore del Progetto sta proprio nel voler e saper mano-vrare fra i vincoli che sono i valori stessi della Città. Questa inversione di ottica, questo saper considerare i vincoli come elemento positivo, è, d’altra parte, anche un insegnamento antico: l’Alberti e il Brunelleschi sapevano come dal vinco-lo, se ben interpretato, potesse generarsi anche la Forma e la Bellezza. Oggi dobbiamo imparare di nuovo anche queste profonde verità.

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Enrica BizzarriLibera professionista, si occupa di progettazione e restauro di giardini e aree verdi, in ambito pubblico e privato. Laureata in Lettere, diplomata presso la Scuola di Architettura del Paesaggio di Villa Montalto a Firenze, perfezionata in Restauro dei giardini presso l’U.I.A. di Firenze e in Progettazione del verde nelle strutture di cura presso l’Università di Milano. Docente a contratto alla Facoltà di Agraria-Università di Perugia dal 2003 al 2008.Socia AIAPP dal 1999, attualmente è Vicepresidente della Sezione Centrale. Vive tra l’Italia e la Nuova Zelanda. www.enricabizzarri.net

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Situato in una zona centrale della città, l’ospedale è quello di Emergency a Kabul, capitale dell’Afghanistan. Si tratta del pri-mo ospedale che Emergency ha fondato nel paese, dopo sono

venuti quelli di Lashkar-gah e del Panshir, ed è il più importante come quantità di feriti trattati, vittime di una guerra infinita che da troppi anni insanguina questa martoriata regione. La tipologia dei pazienti riguarda uomini, donne e bambini, feriti da arma da fuoco e da taglio, da mina, da schegge, insomma da tutta la triste tipologia di lesioni che la guerra provoca tra i civili, la parte meno protetta della popolazione e che ha più difficile accesso a cure adeguate. Questa è la missione di Emergency, fornire gratuitamente cure adeguate e di alto livello a tutti coloro che ne hanno bisogno.

In un ospedale così importante e particolare, si potrebbe restare sorpresi nel vedere come un giardino non sia affatto considerato uno spazio

inutile e marginale, ma anzi costituisca una parte integrante e fondamentale della struttura sanitaria stessa.

Un Ospedale

nel Giardino

di Enrica Bizzarrifoto di Gianfranco Toni

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Fin dal momento della fondazione dell’ospedale infatti, nel 2001, con geniale intuizione si è data la massima importanza e tutela agli spazi esterni, concepiti come “prosecuzione” della corsia

di degenza, a disposizione dei ricoverati e dei loro parenti, con una modernissima interpretazione dello spazio verde “integrato” nel luogo di cura e come parte della cura stessa. È piacevole e consolante notare la naturalezza con cui personale e degenti “abitano” il giardino, per un riposino pomeridiano all’ombra di un albero, o per pranzare insieme in piccoli gruppi all’ombra della bella pergola situata di fronte alla mensa, che offre succosi grappoli d’uva e ombra nelle ore più calde delle giornate estive. Sì perché, nonostante l’altitudine, Kabul si trova a circa 1.800 metri sul livello del mare, le estati sono molto calde e particolarmente asciutte, con bassissima o nulla piovosità, un clima che impegna i giardinieri in un quotidiano e paziente lavoro per dissetare adeguatamente tutte le piante, parte delle quali si trovano in vasi e fioriere disposti lungo marciapiedi e muretti. Ma il lavoro degli addetti non si esaurisce con l’irrigazione, essi provvedono anche alla sostituzione delle piante annuali e alla rotazione delle fioriture, al fine di assicurare una grande varietà di colori e di piante in fiore durante la maggior parte dell’anno, particolare non trascurabile nell’ambito di una cultura, quella afgana, che ha sempre avuto una speciale predilezione per i fiori e i colori vivaci. È da sottolineare che i giardinieri sono quasi tutti ex pazienti dell’ospedale, come molto spesso anche gli addetti alle pulizie e altri servizi ausiliari, e ciò è parte integrante della politica di Emergency, che tende ad assicurare lavoro e dignità ad invalidi che, privi di un supporto familiare, avrebbero come unico destino quello di andare a incrementare le schiere di mendicanti che si aggirano per le strade.

La serra adiacente ai locali della farmacia

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D’altra parte si nota chiaramente come questa politica sia ripagata da una qualità del lavoro che è raro riscontrare in altre situazioni dove il rapporto

lavoratore/datore di lavoro è solo di natura formale: nell’ospedale di Kabul la dedizione dei giardinieri va ben oltre i limiti contrattuali, a riprova del legame che chi ci lavora sente col giardino e a riprova dell’orgoglio e della voglia di dimostrare il buon lavoro fatto con la qualità e la fruibilità degli spazi verdi. Estati molto calde e asciutte quindi a Kabul, ma anche inverni freddi e nevosi, durante i quali interviene un’ampia serra, addossata ai locali della farmacia, al cui interno vengono ricoverate tutte le piante in vaso e dove si producono talee e piantine da mettere a dimora in primavera. Anche questo rientra pienamente nella politica di Emergency, improntata al risparmio derivante dall’efficienza e dalla capacità: buona parte di quello che serve al giardino viene autoprodotto o mantenuto nelle migliori condizioni all’interno della struttura, senza per questo compromettere il risultato finale, che è sempre molto piacevole e fruibile. Il verde accoglie anche chi proviene dall’esterno per accedere al pronto soccorso, con un breve vialetto contornato da siepi e un’ampia aiuola colorata protetta dall’ombra di un gruppo di pini, su cui vigorose ipomee formano un fitto drappeggio fiorito, arrampicandosi fra un tronco e l’altro.

Capita spesso che gli accompagnatori dei feriti si mettano ad aspettare notizie sui loro congiunti proprio lì, mentre a pochi metri, sotto una fitta ombra, è situata una panchina molto vici-

na alla porta di ingresso del personale di sala operatoria: qui sostano per un breve momento di relax medici ed infermieri ad ogni cambio turno, talvolta osservando per qualche minuto la partita di pallavolo

sotto: Variopinta bordura di

verbene e zinnie lungo un percorso

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in corso nel campo di gioco situato a breve distanza. La pallavolo è molto popolare tra il personale dell’ospedale e in pratica, dall’alba al tramonto, il campo è sempre occupato, per mini tornei, allenamenti e partite estemporanee a cui assistono molto spesso gruppetti di pa-zienti, soprattutto bambini, seduti ad osservare il gioco.

Ma i bambini popolano soprattutto l’area dei gio-chi, posta nello spazio più ampio del giardino. Si tratta di poche attrezzature modeste, ma con

grande capacità di attrazione, colorate e ben tenute e non è raro vedere piccoli convalescenti in via di gua-rigione, arrampicati su una struttura tubulare, magari con un arto di meno, gamba o braccio che sia, o adulti che usano la stessa struttura per fare ginnastica. Le al-talene, come sempre, sono i giochi più frequentati e capita di vedervi a volte due bambini che si dondolano insieme, con il più grande che tiene in braccio il più piccolo.

Il successo più grande il giardino lo ottiene nei giorni di apertura ai parenti dei ricoverati, in cui famiglie intere affollano il giardino in compagnia dei degenti, alcuni in grado di camminare altri in car-

rozzina, con i quali passeggiano lungo i vialetti o siedono in circolo sull’erba all’ombra degli alberi e fanno conversazione mentre i bam-

Il piccolo monumento tra gli alberi

ricorda un tragico

episodio

L’area giochi

contornata di fiori

Fornitura periodica di stampelle accatastate su una panchina

Una famiglia riunita all’ombra della pergola tra le onnipresenti fioriture vivaci

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bini, sempre numerosissimi, si affollano per il loro turno di altalena o di girello, in un brusio di voci e un balenare di colori e di abiti diversi, caratteristici delle numerose etnie che popolano l’Afghanistan. Un esemplare di gelso che si trova di fronte al reparto pediatrico, con le fronde pendenti fino a terra sull’erba, è stato trasformato dai bambi-ni in una tenda sotto la quale giocare. Durante l’estate poi tutti pos-sono cogliere i frutti dai numerosi alberi che popolano il giardino, albicocchi, susini, peschi, meli, gelsi, giuggioli, condividendoli con i numerosi uccelli, di varie specie, che saltellano indisturbati intorno alla fontana.

Le rose costituiscono la specie più rappresentata e fioriscono senza interruzione tutta l’estate. La mattina presto, poco dopo l’alba, quando una luce particolare inonda il giardino, si apprez-

za il loro profumo che riesce a rendere poetica anche la vista di una carrozzina abbandonata su un vialetto o di un mucchio di grucce, di varia misura, affastellate su una panchina, in attesa di distribuzione.

Perché non si deve dimenticare che questo è comunque un luogo di sofferenza e di morte, ancora più ingiuste e crudeli perché gratuite e praticate su civili innocenti, anche nelle forme più vili

come le mine antiuomo, che continuano a mietere vittime senza so-sta soprattutto tra i bambini, a cui viene negato il futuro, già così diffi-cile in una realtà in cui dopo decenni di guerre più o meno umanita-rie si ha uno dei più bassi indici di qualità della vita e in cui si richiede una buona dose di ottimismo per vedere qualche via di uscita dalla

sopra: Foto ArchivoEMERGENCY

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situazione attuale. L’Afghanistan è oggi un paese pieno di contraddi-zioni e povero di speranza, dove la vita ha poco o nessun valore, che ancora rifiuta anche la minima apertura sul fronte della laicità dello stato, un paese dove è normale essere poveri, di risorse, affetti, libertà e istruzione, dove la corruzione è stile di vita, un paese dove nascere donna è una tragedia.

Da solo, un giardino non può essere una promessa di futuro, ma qui non è soltanto uno strumento tera-peutico: può essere il segno di un impegno concilia-

tore e di una volontà positiva, può essere un messaggio che parla al nostro inconscio e alla nostra sensibilità.

Giardinieri al lavoro, sotto: Un momento di gioco all’ombra degli alberi da frutto

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Da Gennaio 2012 frequentano il Master di II° livello in Paesaggistica presso l’Università degli Studi di Firenze e Pistoia, collaborando insieme alla Tesi che si classifica al 2° posto al Premio Nazionale Biennale “Ville Lucchesi-Marino Salom”. Attualmente lavorano tutte come libere professioniste tra La Spezia, Pistoia e Firenze.

Virginia NeriArch. Paesaggista

Greta ParriArch. Paesaggista

Claudia ParisiArch. Paesaggista

Francesca GiurrannaArch. Paesaggista

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Progetti contemporanei

per il castello di Fosdinovo

di Virginia Neri, Greta Parri, Claudia Parisi e Francesca Giurranna

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I manufatti storici si trovano nella maggior parte dei casi in stretto rapporto col paesaggio: la cura, la gestione e la valorizzazione dell’uno va a ripercuotersi sull’altro, creando una sinergia di cui il caso di studio del castello di Fosdinovo e dei suoi giardini è un esempio. Ubicato sulla sommità dell’omonimo borgo di crinale, il castello Malaspina di Fosdinovo, in provincia di Massa-Carrara, è appartenuto per secoli alla famiglia Malaspina, i cui discendenti vi risiedono ancora oggi e ne gestiscono il museo, il Centro culturale e il Bed & Breakfast.

Attualmente il castello è circondato da ampie mura difensive ed ha un impianto di forma quadrangolare con quattro torri alle estremità; si compone inoltre di numerosi “spazi aperti”, tra i quali il grande cortile centrale dal quale si raggiungono quattro giardini, di cui tre pensili.

Oggetto di questa tesi sono stati i giardini e le mura perimetrali, ricchi di specie botaniche -ne sono state censite più di 60 che attualmente rivestono un ruolo purtroppo marginale all’interno del “sistema castello”.

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L’alto grado di vulnerabilità tipico di questo manufatto,unito alla difficile gestione sotto il profilo economico, ha portato a studiare un progetto di “valorizzazione sostenibile” diretto a migliorare le condizioni di conservazione e ad incrementare la fruizione, in questo caso degli spazi aperti, senza tralasciare gli aspetti della manutenzione.

L’approccio al rilievo e al progetto.

Per la fase di rilievo delle specie vegetali, è stato inizialmente condotto un censimento delle specie presenti in maniera “critica” (considerando alcuni fattori come l’esposizione, la tipologia e la morfologia del supporto, la presenza di zone d’ombra) a cui ha fatto seguito il calcolo di un indice di pericolosità relativo a ciascuna specie censita (valore che indica la pericolosità della specie in relazione ai manufatti architettonici e che varia in base a forma biologica, invasività, vigore ed apparato radicale). L’idea progettuale, tenendo conto delle analisi svolte, si è confrontata con il carattere storicizzato sia del manufatto che del paesaggio in cui è inserito e gli interventi proposti hanno preso forma all’insegna della compatibilità, della reversibilità e dell’attualità espressiva. Particolare attenzione è stata posta al rapporto fra antico e nuovo e quindi al tema dell’integrazione sia funzionale che architettonico-strutturale.

Le mura e i giardini.

Gli interventi progettuali previsti sono suddivisi fra la messa in valore delle mura e la riconfigurazione dei giardini. Per quanto riguarda le mura, su cui sono visibili molte specie vegetali spontanee che fanno da indicatori di biodiversità oltre che di paesaggio, sono stati previsti interventi che permettano di avere una gestione ed una manutenzione più razionale del paramento murario, oltre che un elevato valore estetico. Un adeguato monitoraggio delle erbacee presenti sulle mura permette di poter intervenire, con l’eliminazione “puntuale e meccanica” delle specie che potrebbero diventare infestanti o pericolose per la struttura delle mura stesse.

Per quanto riguarda i giardini, dopo averne individuato le criticità, che si possono riassumere nella marginalità che essi rivestono sia per chi visita il castello che per chi lo vive, sono stati individuati gli obiettivi progettuali che si possono tradurre nella connessione dei giardini al percorso di visita del castello, utilizzando il quattrocentesco cortile interno come il fulcro del sistema e nodo di distribuzione dei flussi. Da qui, si possono intraprendere percorsi che conducono ad ogni giardino in cui l’idea di progetto vuole

nella pagina precedente, in alto:

vista panoramica del borgoin basso:

il castello di Fosdinovo

a destra:panorama verso il mare

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interpretare in chiave contemporanea il loro carattere identitario. Sia l’approccio analitico che quello progettuale, possono costituire linee guida e piani di gestione da poter seguire per altre dimore storiche, comparabili per caratteristiche e criticità.

Il giardino dell’evasione.

Attualmente questo giardino non è altro che un passaggio tra un parcheggio e un ingresso secondario al castello, che non coinvolge il visitatore, che si ritrova in uno spazio fortemente caratterizzato da alte mura. Da qui il tema della fuga

e dell’evasione, rafforzato dalla storia di un manoscritto, ritrovato da uno studioso del castello nella prima metà del Novecento, che narrava della fuga di un prigioniero, che una notte scappò dalle carceri che si trovavano proprio in un volume che si ergeva all’interno del giardino, demolito alla fine del 1800.

Il giardino dell’attesa.

La presenza del grande orologio al centro di questo giardino ha scaturito l’idea del tempo che scorre inesorabile. Le lancette non ci sono, ma il tempo è comunque scandito dallo scorrere

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delle stagioni, dal prato in graminacee che cambia colore e dalle erbacee che si trovano sul parapetto del muretto. Anche in questo giardino, il movimento è facilitato da un percorso che crea una continuità di segno con quello del giardino dell’evasione posto ad una quota di circa 5 metri più in basso e ne rappresenta la sua naturale continuazione. Da una vista dall’alto, ad esempio dalla torretta detta “di Dante” o dal camminamento di ronda, la sequenzialità dei due giardini è chiara e sembra che l’uno entri in contatto con l’altro senza soluzione di continuità.

Il giardino dell’esplorazione.

Il percorso che conduce alla scoperta di questo giardino intimo e raccolto richiama la memoria del Marchese Alessandro Malaspina che nel 1789 partì dal porto di Cadice per un’impresa che terminò cinque anni dopo e che fu la prima spedizione scientifica interdisciplinare dell’epoca

contemporanea. In ognuna delle terre toccate, dal Rio della Plata alle Filippine, dalle Malvine all’Alaska, furono raccolte collezioni botaniche, zoologiche e mineralogiche e furono inoltre studiati gli aspetti etnografici, linguistici e sociologici delle popolazioni conosciute. Alcune delle specie importate da questi luoghi lontani saranno riproposte nelle fioriere presenti lungo il percorso. Un ulteriore richiamo al mare si può trovare nei lacerti di malta della voluta posta sul parapetto a grottesco. Dopo un’attenta osservazione si può notare che la figura presente nella specchiatura ha le forme di un delfino o comunque di un mostro marino.

Il giardino dell’insidia.

La presenza di due botole all’interno del locale adibito a cannoniera sottostante al giardino, ma invisibili dalla parte superiore, ha ispirato il tema dell’insidia. L’idea è stata però quella di denunciarne la presenza mediante l’inserimento di alcune sedute che scendono in profondità nel giardino.

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Sfruttando lo spessore di terra di circa 50 cm rispetto all’estradosso del solaio, si sono create delle sedute a forma quadrata, che richiamassero il segno di una botola, in cui il visitatore può accomodarsi, ritrovandosi praticamente seduto alla quota dell’erba.

Entrando in giardino, si dovrà prestare attenzione ai nostri piedi, dove si potranno trovare insidiose sedute, nonostante lo sguardo si volga verso il panorama, che in questo giardino inquadra a 180° la costa ligure-tirrenica che va da Livorno fino a Portovenere e il borgo di Fosdinovo con i suoi due campanili.

Relatori: Arch. Tessa Matteini, Prof. Bruno Foggi (Master II livello Paesaggistica)

Tesi di: Virginia Neri-architetto e paesaggistaClaudia Parisi-architetto e paesaggistaGreta Parri-architetto e paesaggistaFrancesca Giurranna-agronomo e paesaggista

in alto:Esemplari di Centranthus Ruber (sx) e Centaurea Paniculata (dx)in basso:giardino del grottesco

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Urban beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica.Anna LambertiniEditrice Compositori, Bologna, 2013

Claudia MezzapesaArchitetto, responsabile programmazione pubblicitaria, traduzioni per NIP magazine

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Le recensioni di

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Le nostre città sono piene di spazi muti. Ridar loro voce per parlare di bellezza è un atto ri-

voluzionario.Anna Lambertini, dopo aver cura-to la pubblicazione “Atlante delle Nature Urba-ne”, nel suo nuovo libro “Urban Beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica” pas-sa in rassegna i più significativi episodi in cui la

bellezza ha opposto resistenza al degrado urbano. Il libro è un «breviario di progetti dei paesaggi urba-ni del quotidiano», una raccolta critica, frutto di cam-pagne di esplorazione nelle principali città europee che l’autrice ha condotto a volte in prima persona e, altre, in compagnia degli stessi progettisti. L’invito è a passeggiare, viaggiare e osservare la città alla scoper-ta del «giardino democratico contemporaneo» che si manifesta nelle «storie di riconquista di luoghi pub-blici, di riconfigurazione di vuoti marginali, di crea-

Urban beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica.

di Claudia Mezzapesa

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zione di spazi condivisi, di invenzione di nuove nature urbane».

Nonostante l’eterogeneità delle esperienze de-scritte, emerge un sogno comune, uno scopo uni-

tario: interpretare il tema del bello negli spazi urbani per rendere la vita quotidiana più ricca e piacevole. Gli strumenti a disposizione sono molteplici; l’autri-ce ne suggerisce alcuni e immagina una «cassetta di attrezzi per fare paesaggio» nella quale sono raccol-ti il concetto di prossimità, l’immaginazione, il gioco, la possibilità di reinventare i luoghi minori, di inco-raggiare nature urbane e far emergere costellazioni di spazi aperti. Per ognuna delle sei chiavi di lettura sono stati selezionati progetti, esperienze e strategie di rigenerazione urbana che meglio ne illustrano l’applicazione.

Il primo suggerimento è di «lavorare in prossimità», un’esortazione a non perdere di vista l’idea del con-

tatto affettivo tra le persone e i luoghi, sperimentando processi di trasformazione graduali e partecipativi. Un esempio? Il Prinzessinnengarten di Berlino è un orto su ruote nato in un terreno concesso dal Comu-ne per un tempo limitato. Il lavoro e la condivisione hanno generato relazioni affettive che grazie alla con-dizione nomade dell’orto potranno continuare a vive-re assecondando le trasformazioni urbane.

«Coltivare immaginari» nei vuoti urbani può produr-re cambiamenti inaspettati di percezione della re-

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Le recensioni di

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altà e allenare lo sguardo estetico. Una notte di prima-vera a Madrid son spuntati prati fluorescenti davanti alle farmacie, dopo la decisione dell’amministrazione di consentire la sostituzione delle insegne lumino-se con luci verdi ancora più potenti. L’inquinamen-to luminoso ha suggerito l’installazione e ha lasciato immaginare e riflettere su futuri scenari urbani nei quali, sotto i nostri occhi distratti, una nuova specie di pianta fotosensibile colonizzerà gli asfalti, alimentata dalla fotosintesi di una nuova e potentissima sorgente luminosa.

Anche «mettere in gioco» le funzioni codificate può cambiare il modo di vedere le cose e attivare

nuove dinamiche urbane impreviste. Un cestino della spazzatura può così diventare il cesto del campo di ba-sket disegnato sull’asfalto di una strada a Strasburgo. «Reinventare luoghi minori» è invece la ricetta sug-gerita per riconvertire spazi aridi in risorsa urbana. Come fare? Basta un martello pneumatico per rita-gliare pezzi di asfalto nelle aree di sosta dismesse e far crescere giardini.

E poi in ogni operazione chirurgica sulla città non bi-sogna mai dimenticare di «incoraggiare nature ur-

bane» per favorire lo sviluppo del capitale vegetale e stabilire relazioni tra entità diverse a distanze diverse, per «far emergere costellazioni di spazi aperti». Sono solo alcuni degli strumenti che aiutano a non perdere mai di vista la visione sistemica della città.

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Ogni progetto raccontato è sintetizzato in una sche-da riassuntiva. Il libro si chiude con una collezione

di 12 cartoline spedite da più città e da autori di diver-sa formazione: piccole riflessioni sulla «bellezza dei luoghi dell’abitare come desiderio vitale primario» e sulla «necessità di coltivare uno sguardo estetico del contemporaneo per leggere i paesaggi urbani». Urban beauty! che suona come il messaggio di un manifesto politico, è un invito a cambiare rotta, ad abbandonare i canoni estetici convenzionali del bello e osservare cri-ticamente le sue differenti espressioni, che già convi-vono nella nostra città, per tradurle in nuovi preziosi attrezzi da conservare nella “cassetta per fare paesag-gio”. Il messaggio è rivolto a tutti, progettisti, ammi-nistratori e cittadini, perché se è vero che “la bellezza salverà il mondo” sarà necessario iniziare a coltivarla insieme.

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