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Terzo numero del giornale scolastico del liceo classico statale G. Carducci, Milano

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III2

sommarioPag

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scientology

scientologyricorrenze

ricorrenze

bullismo

bullismocinema

bibliobussola

pride & prejudice & zombies

audiophiles

audiophiles

quattro stracci

quattro stracci

l’ultima thule

l’anonimo del racconto

l’uomo... ... che guardava ...

... le stelle il gallo che salvo’ roma #3racconti bonsai

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biciclette

rappus romanus

rappus romanus

superfluo

world’s inside

l’isola non trovata: poesie

Mettetevi comodi, nascondete bene la vostra copia sotto il banco, chiedete al prof. di abbassare la voce per fa-vorirvi la concentrazione e fate un bel respiro: vi scriverò tutto quello che posso. Gli ultimi due mesi sono stati, per l’Oblò, un duro travaglio. Il giorn-alino ha avuto seriamente paura di non esistere più.

Martedì 11 dicembre, veniamo convo-cati d’urgenza in presidenza. La stam-pa è bloccata. L’articolo su Formigoni non si può pubblicare: “rischiamo denunce”, dice il DS, preoccupato, riferendo le lamentele di un gruppo di professori. “Ricorsi legali”? Non erano opinioni, ma fatti, fonda-ti e accertati minuziosamente. L’articolo si pubblica, dopo lunghe trattative, con piccole correzioni. Esce il numero: anche se, come sempre, aperto a tut-ti, quel gruppo di profes-sori dice al DS che non merita di definirsi “gior-nale scolastico”, perché riflette solo l’ideologia di una parte. E la vignetta con la rana, nell’articolo sul CdI, è “offensiva, scorretta”. Una vi-gnetta. Con una rana. Una vignetta con una rana. Non un ottimo esempio di politically correct, d’accordo, ma una vignetta! E’ satira, per Zeus.

Lunedì 14 gennaio. Il DS ci conseg-na, stanco e sfibrato quanto noi, un “decalogo” da lui redatto per tutelar-

ci: dieci principi da seguire per essere giornale d’istituto e poter essere pub-blicati sul sito. Li stiamo integrando al nostro statuto, insieme. Abbiamo te-muto ogni giorno che ci venissero tolti i fondi e la libertà di distribuzione del giornale - già approvati, con lo statu-to, a inizio anno. Il piacere di scrivere e riunirsi in redazione si è trasformato quasi in un’auto-censura per paura di ricevere accuse, in un’ansia collet-tiva che sfocia in tattiche al limite del militare per difendere la libertà dell’Oblò. Siamo stanchi di stare al gi-oco dei gruppi di potere. Il giornalino

deve essere un’attività stimo-lante, piacevole ed educativa: l’accanirsi senza tregua su dei ragazzi, da parte di adulti, non è educativo. Ad oggi siamo salvi,

e continueremo a lavorare su un giornale che vuole sem-pre donare uno spunto di riflessione, uno stimolo cul-turale, un momento lieto a tutti. Un giornale che per ogni studente è un patrimo-nio e una tradizione da sos-

tenere e difendere.

C’è chi ha il coraggio, nonostante gli ostacoli, di continuare a scrivere

quello che pensa. Noi non parliamo: scriviamo. Per tutti, pubblicamente, senza paura. Scrivete quello che dite, lo pubblicheremo: ma finiamola con questa guerra fredda.

Buona lettura a tutti

di Eleonora SaccoL’editoriale

La redazione dell’oblòredattori | Cleo Bissong 1B, Francesco Bonzanino 4E, Martina Brandi 4E, Gaia Cantone 1D, Alessandra Ceraudo 4B, Chiara Conselvan 4E, Francesca Grassi 1D, Edo Mazzi 4E, Carlo Polvara 4B, Federico Regonesi 5A, Beatrice Sacco 2D, Clau-dia Sangalli 4D, Carlo Simone 5D, Alessandra Venezia 3B, Dario Zaramella 5A.vignettisti | Silena Bertoncelli 4C, Francesca Bonini 5A, Federico Regonesi 5A.DIRETTRICE | Eleonora Sacco 5FCapo redattore e impaginatore| Jacopo Malatesta 4CDocente referente | Giorgio GiovannettiCollaboratori esterni | Riccardo Galbiati 5H, Lorenzo Giudici 5A, Morgana Gran-cia 5E, Pietro Klausner 4E, Paolo Wetzl (LSS A. Volta).

N.B. La Redazione si scusa per non aver pubblicato, nell’articolo “Non as-pettatevi un miracolo” dello scorso numero, pagina 8, la frase “Non abbiate la spina dorsale piegata dallo statalismo!” nella terza colonna, tra “anni a venire” e “ascoltando le storie di mio nonno”.

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Le missioni internazionali, gli interventi militari all’estero e le ingerenze straniere in molti paesi del “terzo mondo” costituiscono uno degli argomenti più discussi

del dibattito politico. La stessa obi-ettività che rivolgiamo alle azioni degli Stati Uniti è doverosa anche nell’analizzare gli atti dell’attuale presidente “gauchista” della Fran-cia, il socialista François Hollande. La Francia è infatti intervenuta in Mali, una sua ex-colonia nell’Africa Occidentale. Questa regione è sempre stata divisa tra la parte meridionale, etnicamente e religiosamente mista, e la desertica parte settentrionale, popolata da tribù Tuareg in cui hanno attecchito vari gruppi fondamentalis-ti. Il conflitto, già latente dal 1988, é esploso nel corso del 2012: la stabilità dell’intera regione è stata sconvolta dalle “primavere arabe”. In partico-lare è venuta a mancare la presenza stabilizzatrice di Gheddafi che, utiliz-zando brutali metodi ditta-toriali, repri-meva nel sangue l ’ in tervento e la predica-zione degli imam più fa-natici. La sua caduta ha aumentato la disponibilità di armi nella regione, ha ridato forza ai gruppi sino ad allora semiclandes-tini e ha fatto tornare in patria quei Tuareg che militavano come merce-nari al soldo del regime. Tutti processi che il debolissimo governo libico attu-ale non riesce a contrastare efficace-mente. Il 6 aprile 2012 l’Azawad, cioè la regione settentrionale del Mali, ha dichiarato la propria indipendenza. E’ doveroso ricordare che i Tuareg non si sono ribellati a un governo demo-cratico: nel marzo 2012 infatti, poco prima delle elezioni, il Presidente

legittimo Amadou Toumani Toure è stato destituito da un colpo di stato militare che lo ha sostituito con Di-oncounda Traoré. I ribelli non costi-tuiscono uno schieramento compatto: sono composti da vari gruppi eteroge-

nei e spesso in conflitto tra loro. Innegabi l-mente tra essi è forte la com-p o n e n t e f o n d a -

mentalista: le distruzioni e i sac-cheggi a Timbuktu motivati da fi-nalità iconoclaste possono darcene una prova. Proprio riguardo a questo conflitto era già stato previsto un intervento militare dell’ECOWAS, l’organizzazione economica sovrana-zionale dell’Africa Occidentale: un’azione estremamente cauta che mirava a contenere l’avanzata dei ri-belli per cercare spazi di mediazione. I successi militari dei secessionisti, giunti quasi alla capitale Bamako, ac-celerarono le reazioni a livello inter-nazionale sino all’intervento diretto

della Francia. Come in tutti i grandi conflitti è difficile e semplicistico dare la ragione o il torto a una delle due fazioni: l’intervento militare francese è tuttavia oggettivamente illegittimo. Non supportato da alcuna risoluzione ONU, non motivato da alcun trattato o vincolo internazionale, esso si configu-ra come un’azione di stampo neocolo-niale, motivata dal timore di perdere un governo “amico” e le conseguenti risorse naturali. Il sottosuolo del paese è infatti ricco di oro, bauxite e uranio. Attualmente l’intervento è soste-nuto logisticamente dagli Stati Uniti e da vari paesi dell’Unione Euro-pea tra cui l’Italia. Spiace consta-tare che l’“Occidente”, pur avendo nominalmente adottato come prin-cipio cardine della politica estera l’autodeterminazione dei popoli e la loro sovranità continui a creare delle condizioni per cui tali processi siano sempre più difficoltosi. Si dovrebbe auspicare che l’azione delle democra-zie in Mali come in Siria sia quella di proteggere i civili e di cercare in tutti i modi il negoziato, senza tutelare con virtuosi pretesti la difesa del proprio cortile di casa, grande o piccolo che esso sia.

di Carlo Polvara

Guerra in mali. Neocolonialismo?

Non supportato da alcuna risoluzione ONU, non motivato da alcun trattato o vincolo in-

ternazionale, l’intervento mili-tare francese si configura come

un’azione di stampo neocoloniale

Attualità/Esteri

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III4

ATTENZIONE: l’articolo che state per leggere cos-tituisce un serio rischio per la vostra vita. Alcune delle verità qui esposte potrebbero – a detta

della stessa chiesa di Scientology – causare traumi psichici permanenti, danni mentali e, nei casi più estremi, la morte. L’autore si ritiene perciò sollevato da qualunque responsabilità riguardante la vostra salute. L’origine della specieI problemi dell’umanità risalgono a 75 milioni di anni fa, quando la Terra – allora chiamata Teegeeack – faceva parte di una confederazione galattica di 76 pianeti agli ordini del malvagio despota Xenu. Per risolvere il proble-ma della sovrappopolazione Xenu, con l’aiuto di alcuni psichiatri, ingannò i suoi sudditi e li trasportò nei vulcani della Terra, dove li distrusse con delle bombe termonucleari.I loro corpi furono frantumati, ma le anime immortali (o thetan) sopravvis-sero all’esplosione e continuarono a vivere trasmigrando di corpo in corpo.Ogni uomo è dunque un thetan, desti-nato a reincarnarsi per milioni di anni prima di raggi-ungere la purifi-cazione.

Questo – che all’apparenza potrebbe essere bollato come fantascienza di serie B – è solo uno dei dogmi gelosamente custoditi da Scientology, e fino a pochi anni fa era noto a un ristrettissimo nu-mero di adepti. Per accedere a questi segreti è tuttora necessario affrontare anni di apprendistato, ma soprattutto versare contribuiti economici che pos-sono agevolmente superare i 100.000 dollari.Una domanda sorge spontanea nella mente di tutti i profani: perché?

Una chiesa esclusivaScientology – il nome significa “studio

della verità” – si definisce “la reli-gione a crescita più rapida” del mon-do. Nato nel 1954, il movimento af-ferma di contare oggi più di 10 milioni di fedeli in quasi 160 paesi (le stime non ufficiali ritengono però che le ci-fre siano molto gonfiate); il suo pat-rimonio, sparso in tutti i continenti, sembra valere miliardi di dollari.Ma Scientology è anche la religione più controversa d’America: essa è nota soprattutto per l’adesione di al-cune star quali Tom Cruise e John Tra-

volta, ma la dottri-na ufficiale è poco conosciuta ai più. Il sociologo francese Regis Dericque-bourg, esperto in religioni compar-

ate, definisce il sistema di credenze una “utopia regressiva” in cui l’uomo tenta, attraverso una rigida serie di pratiche (spesso costosissime), di pu-rificarsi e tornare allo stato di origi-naria perfezione.La peculiarità del culto consiste però nell’alone di mistero che lo circonda: solo accedendo alle più alte gerarchie è possibile essere informati delle dot-trine di maggiore importanza. A ques-to proposito dice la giornalista statu-nitense Janet Reitman che «sarebbe come se la Chiesa Cattolica rifiutasse

di dire a tutti, salvo che a un selezion-ato numero di fedeli, che Gesù Cristo è morto per i loro peccati».

Un percorso difficileI fedeli, una volta avvicinati, vengono indottrinati e avviati sulla strada che porta alla “libertà e verità totale”. I primi passi sono i più semplici: sono però sufficienti alcune sedute gratu-ite con i ministri del culto per finire intrappolati nella ragnatela. Spesso i proseliti sono raccolti tra gli individui psichicamente più deboli, in particolare eroinomani o carcerati: questi sono avvicinati da fittizie as-sociazioni di recupero (ad esempio il gruppo Narconon) e agevolmente in-dirizzati – in quanto disperati – tra le sicure braccia di Scientology.

Fondamentale per progredire nel pro-prio percorso spirituale è il servizio di auditing, sedute di dialogo con un “confessore” che aiuta a liberarsi delle influenze negative (o engram) delle vite precedenti. Un pacchetto di 12 ore e mezzo di auditing costa circa 1000 dollari: un buon fedele ne può acquistare a centinaia nel corso della propria vita. Dopo alcune sedute si raggiunge lo stato di purificazione (clear) e si può iniziare quindi la pro-pria scalata nelle gerarchie di Scien-

INSIDE SCIENTOLOGYdi Riccardo Galbiati « La verità è ciò che è vero per te » Ron L. Hubbard

“Scientology opera una metodica opera di indottrina-

mento, pretendendo in cambio una dedizione assoluta”

Attualità

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tology. Liberatosi delle influenze negative, il fedele inizia a controllare il proprio spirito: scalando 8 livelli – definiti Thetan Operanti (OT) – egli può rag-giungere il totale controllo di sé. Con-temporaneamente crescono i suoi po-teri: il livello più alto, OT VIII (quello raggiunto da Tom Cruise), permette di spostare oggetti inanimati con la forza del pensiero, comunicare tele-paticamente, controllare la volontà altrui, uscire dal proprio corpo con lo spirito nonché avere pieni poteri sulla materia, sullo spazio e sul tempo.

Bisogna necessariamente sottolineare come questo percorso gradualmente assorba tutte le energie e i pensieri dell’individuo, fino ad alienarlo com-pletamente: la chiesa opera una me-

todica opera di indottrinamento, pre-tendendo in cambio una dedizione assoluta. Ben presto il fedele è invi-tato a disconnettere (cioè a tagliare ogni contatto) gli amici e i famigliari ostili a Scientology: in breve la sua cerchia di conoscenti è ridotta alle sole persone del movimento. Molti si ritrovano a lavorare per la chiesa stessa: i loro stipendi, a fronte di giornate lavorative di 12 ore, sono erogati sotto forma di preziose sedute di auditing (altrimenti impossibili da acquistare). È d’altra parte buona norma ver-sare abbondanti somme nelle casse dell’organizzazione (che negli USA gode dal 1993 dell’esenzione fiscale in quanto riconosciuta come chiesa): le richieste di denaro, fatte con insist-enza a tutti i membri, possono essere

sviate solo portando altre persone nell’organizzazione, vendendo i pro-dotti del gruppo o convincendo terzi a fare ricche donazioni.

Aspettando LRHL’ideatore - nonché messia spiritu-ale - dell’enorme sistema Scientol-ogy è Lafayette Ron Hubbard (spesso abbreviato in LRH), nato nel 1911 in Nebraska. LRH, che in gioventù scriveva racco-nti di fantascienza per riviste di basso profilo, sarebbe approdato alla verità durante la Seconda Guerra Mondiale. Gravemente ferito nelle Filippine (anche se il fatto è stato più volte smentito da tutte le autorità compe-tenti), egli sarebbe riuscito a curarsi solo grazie a una nuova pratica spir-ituale intuita in quel momento. Tor-nato in patria scrisse quindi Dianet-ics: la scienza moderna della salute mentale, pubblicato nel 1950 e presto diventato il testo sacro di Scientology. Il movimento si scagliò violentemente contro tutti i detrattori e in partico-lare contro l’associazione degli psi-chiatri statunitensi, colpevole di aver bollato l’opera come assolutamente priva di un qualunque valore scienti-fico: gli stessi psichiatri divennero i nemici giurati di LRH, che li avrebbe in seguito accusati di aver causato l’olocausto e di aver aiutato Xenu nel suo diabolico proposito.Non è improprio dire che LRH sia stato divinizzato dalla sua stessa chiesa. Una delle più importanti massime del movimento recita infatti: “se non l’ha detto LRH non è così”.

Quelle esposte nell’articolo sono solo alcune delle verità custodite da Sci-entology: a ciascuno di noi spetta poi decidere se crederci o no. Probabil-mente sarà sufficiente aspettare, così che ogni dubbio sia fugato da LRH stesso: stando alle parole ufficiali del movimento, egli non è morto nel 1986 come sostengono i necrologi terrestri, ma si sarebbe recato (sotto forma di puro thetan) sul pianeta Elron Elray per completare le proprie ricerche. Il suo ritorno è tuttora atteso: aspet-tiamo fiduciosi.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III6

Ogni anno nuovo porta novità. Nuovi amici, nuovi amori, nuovi libri, nuovi posti da vedere e questo in particolare porta una nuova rubrica.

Per chi di voi avesse letto “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi, il titolo della rubrica, che sta nascendo pro-prio ora mentre voi leggete, sarà ap-parso familiare. Una rubrica uguale scriveva proprio Pereira, nel suo caldo studio della Lisbona del 1938. Ma, mentre la rubrica di Pereira poteva essere un tentativo di sfug-gire al presente, che lo terrorizzava, la mia rubrica ha un’altra finalità. Io non voglio evitare di parlare della storia di oggi, anzi lo voglio fare, at-tingendo però alla storia, agli uomini e alle donne di ieri. Perché ricordarli è l’unico modo per mantenerli in vita e anche perché conoscere le loro vite può migliorare le nostre. E dunque, « sostiene, si asciugò il sudore, e poi gli

venne una magnifica idea, di fare una breve rubrica intitolata “Ricorrenze”, e pensò di pubblicarla subito per il prossimo sabato, e così, quasi mac-chinalmente, forse perché pensava all’Italia, scrisse il titolo: “Quaranta-sei anni fa scompariva Luigi Tenco”. »

Luigi Tenco è stato un cantautore, un compositore, un attore italiano. Una strana coincidenza vuole che Luigi Tenco nascesse a Cassine, in Piemon-te, proprio nello stesso anno in cui Pereira iniziò la sua rubrica, nel 1938. Figlio ille-gittimo di un no-bile di Torino e ri-conosciuto poi dal marito della madre, trascorse la sua infanzia in Piemonte, finché nel 1948 si trasferì in Liguria, prima a Nervi e poi a Genova. Negli anni Cinquanta fre-quentò la facoltà di scienze politiche, avvicinandosi intanto alla musica,

ma ancora ad un livello amatoriale. La svolta per Luigi arrivò infatti all’inizio degli anni Sessanta, con l’uscita dei primi dischi e le prime apparizioni cinematografiche. I primi successi furono accompagnati però anche dalla censura: i testi di Tenco, seppur all’inizio non trattassero es-clusivamente temi politici ma anche amorosi, erano troppo rivoluzionari per una televisione ancora attaccata alle vecchie tradizioni e abituata alla

musica leggera. “Cara maestra”, canzone con-tro l’ipocrisia delle istituzi-oni - scolastica, religiosa e po-

litica - che predicano l’uguaglianza sociale e poi praticano la discrimina-zione, non fu approvata dalla Com-missione per la censura e quindi non venne trasmessa. Altre sue canzoni furono bloccate dalla censura, “Io sì”

All’Italia sono sempre piaciute le storie facili, che rispettassero

la tradizione e non suscitassero troppe domande.

di Alessandra Venezia RICORRENZE: LUIGI TENCO

Attualità/La rubrica

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 7

e “Una brava ragazza”. Ma nel frat-tempo il suo nome acquistò sempre più popolarità e le sue idee iniziarono a radicarsi nei cuori di alcuni italiani. La grande occa-sione arrivò nel 1967 con la parte-cipazione alla dic iassettesima edizione del fes-tival di Sanremo. Qui Tenco si pre-sentò con “Ciao amore ciao”, can-tata con la sua compagna Dalida; l’eliminazione del brano, cui erano state preferite canzoni che Tenco riteneva di minor livello, provocò in Luigi una grande frustrazione, tan-to da spingerlo a porre fine alla sua vita la notte del ventisette gennaio 1967, nella sua stanza d’albergo a Sanremo, dopo aver lasciato un bigli-etto agli Italiani: « Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi. ». Vi sono tuttavia delle ipotesi secondo le quali quello di Tenco non sarebbe stato un suicidio ma un omicidio. Ma, a parer mio, quando si parla di Luigi Tenco non è sulla sua morte che bi-sogna concentrarsi , come invece fanno in molti, bensì sulla sua vita. Tenco rappresenta il padre dei can-tautori italiani: è il contadino che semina ma non fa in tempo a vedere il raccolto (è soprattutto dopo la sua morte infatti che le sue canzoni e le sue idee raggiungono gli italiani). La vita di Tenco è segnata da una visione individualista del mondo. Non com-poneva le sue canzoni sulla base di quello che accadeva nel mondo es-teriore, ma su quello che accadeva nel suo mondo interiore. E allo stesso

modo la sua sofferenza nasceva dal suo sentirsi diverso e inadeguato. È difficile stendere una chiara bio-grafia dei pensieri di Luigi, perché,

come lui stesso si definiva, era “Uno che parla troppo poco”. L’unico modo per tentare di capirlo è ascol-tare le sue can-zoni. Luigi era le sue canzoni. Era un ragazzo intro-verso, timido, che però riusciva a esprimersi attra-verso la musica e per questo desid-erava il successo. Non era tanto una questione di soldi, anche se lui stesso diceva che non gli dispiacevano affatto, ma piut-

tosto un bisogno di essere conosciu-to, riconosciuto, accettato, capito. Il problema è che, nonostante i suoi testi malinconici e negativi, Luigi era fin troppo ottimista. Cre-deva di poter servirsi del mercato della musica come veicolo per trasmettersi e comunicarsi. Ma l’Italia di quegli anni e in particolare la televisione non era alla ricerca di un artista im-pegnato che avesse il coraggio di esporsi e raccontarsi sin-ceramente. All’Italia sono sempre piaciute le sto-rie facili, che rispet-tassero la tradizione e non suscitassero troppe domande. Perché nel mo-mento in cui una cosa inizia ad essere più com-plicata, i pensanti i n c o m -inciano a prendere decisioni, a spaccare l ’ u n i t à

e diventano persone scomode. Uno come Tenco, fedele ai suoi prin-cipi e contrario ad ogni tipo di com-promesso, che non poteva sopportare di non essere notato e addirittura scelto e preferito a causa della sua eccessiva bravura, si ritrovò schiac-ciato dallo stesso mondo che aveva scelto. Il mondo dello spettacolo che - come gli altri mondi - aveva im-boccato la strada dell’omologazione. Morì così Tenco, a ventinove anni, op-presso da una società che ancora non poteva comprenderlo ed apprezzarlo. Non sono sicura che la nostra società abbia imparato a comprendere e ap-prezzare figure come la sua, ma voglio credere che un giorno impareremo. Vi lascio quindi con le parole di Luigi, con la speranza che dopo oggi anche voi vi sentirete un po’ più vicini a lui e alla sua musica. “Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà. Forse non sarà domani ma un bel giorno cambierà. Vedrai, vedrai, no, non son finito sai, non so dirti come e quando ma un bel giorno cambierà.”

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III8

Da anni assistiamo ad un bullismo femminile silente e invisibile, fatto di atti calunniosi, insidiosi, volto a distruggere l’immagine esteriore ed interiore del-

la vittima senza torcerle un capello. Tale fenomeno, a differenza di quello maschile, prevalentemente fisico per-tanto tangibile, viene meno in consid-erazione. Insegnanti e genitori hanno difficoltà ad individuarlo, a combat-terlo: le ragazzine che recitano la parte delle tormentatrici sono viste semplicemente come “cattivelle”, e non come vere e proprie bulle, quali sono in realtà.

Nel caso che tratteremo, lo stupore è determinato dal fatto che la ragazza oltre a subire gli atti predetti è stata anche ferocemente aggredita.

In una fredda giornata di dicembre,

una ragazza di 14 anni, F., è stata pic-chiata da due bulle del secondo anno. F., più piccola di corporatura, è riusci-ta a difendersi solo per poco ed infine è caduta a terra sanguinante.

Quel martedì F. stava camminando verso il bagno. Entrata in quest’ultimo incontra due ragazze, a lei scon-osciute, che le iniziano a fare doman-de sulla relazione che ha con il suo ra-gazzo (S.). Quando i quesiti iniziano a farsi invadenti, F. si mostra riservata. Le due secondine (M. ed E.) devono però ritornare in classe e le intimano di aspettarle fuori dalla scuola alle 14.00 in punto, per continuare la con-versazione lasciata in sospeso.

Lo stesso giorno, però, F. non si pre-senta all’incontro, sia perché impau-rita, sia perché di martedì esce un’ora dopo E. ed M.

Arriviamo al mercoledì. Le due raga-zze la avvistano in cortile, con passo svelto la raggiungono e iniziano a discutere animatamente davanti agli occhi di tutti. E. lancia una sigaretta accesa addosso ad F.: incautamente ella risponde ribellandosi e gridando di smetterla. Livida di rabbia, E. la afferra per i capelli ed M. la colpisce con pugni molto forti in pancia. F. cerca di restare in piedi, ma non re-siste per molto, infatti dopo pochi minuti cade a terra sfinita. Si ritrova sdraiata per terra in cortile, dove le due ragazze cercano ancora di mas-sacrarla tempestandola di calci. Mentre F. è ancora per terra giunge il suo ragazzo, S., causa del conflitto, che cerca di difendere la sua fidanza-ta, ma incredibilmente le due ragazze riescono ad “annientarlo”. Vittoriose e soddisfatte se ne vanno, senza un minimo di rimpianto, spingendo via i gomiti degli “spettatori” lì intorno, per cercare di passare. F. si rialza aiu-tata dal suo ragazzo. Le lacrime scen-dono dai suoi occhi e il sangue sul suo viso.

Tornata in classe, F. racconta al pro-fessore di quell’ora l’accaduto: ven-gono chiamati i genitori, che imme-diatamente la vengono a prendere e la portano a casa. In conclusione dell’episodio la famiglia chiamerà i carabinieri per denunciare l’azione commessa dalle due delinquenti.

Questi atti violenti sono ormai all’ordine del giorno nella nostra società, soprattutto nelle scuole, e vengono commessi nella maggior parte dei casi per questioni futili. Dov’è finita l’umanità? Sembra stia raggiungendo un livello bassissimo.

il dramma del bullismo femminileLiceo artistico di Sesto San Giovanni:

sconcertante caso di bullismo femminile.

di Gaia Cantonee Francesca Grassi

Attualità

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F. è stata picchiata senza nemmeno conoscere il vero motivo. L’hanno massacrata fino a farla sanguinare, le hanno provocato dei danni fisici evidenti, per i quali è dovuta ricor-rere a medicazioni ospedaliere, e ancora non sa perché in quel mo-mento l’abbiano derubata della sua dignità, strappandogliela dal corpo come bestie, che in preda alla fame arraffano il cibo con atti famelici. Come si fa a pestare una ragazza di quattordici anni, solo perché fidan-zata con la persona “sbagliata”? Dovremmo chiedercelo tutti, anche se noi non siamo ancora riuscite a dare una risposta adatta. La frequenza di questi episodi, ormai anche tra raga-zze, ci spinge a considerarli sempre più “ordinari”, quando invece si fanno invece sempre più pericolosi.

Le persone che assistevano come “pub-

blico” all’atto osceno, alunni, profes-sori, non hanno fatto niente, non si sono intromessi per fermarle, non hanno voluto rischiare. Nessuno si è mosso. Alcuni guardavano anche compiaciuti. È vergognoso che, per timore o per crudeltà, non abbiano aiutato la povera ragazza, ma forse M. ed E., hanno commesso l’atto di de-linquenza senza preoccuparsi della reazione dei ragazzi, proprio per-ché consapevoli che non sarebbero intervenuti a favore della ragazza, che probabilmente nella società sco-lastica era vittima di ostracismo. È vergognoso è che i professori, cons-apevoli della rissa (perché svoltasi du-rante l’intervallo) e totalmente indif-ferenti alla scena, non abbiano sospeso le due ragazze. Il preside si è lavato le mani di fronte a questo sopruso. È ancora oscura la questione sul per-

ché non siano state punite adeguata-mente. Una ricerca CISEM, datata 2006, ha preso per campione 3800 studenti scelti tra licei, istituti tecnici e pro-fessionali: nei licei l’8% ha dichiarato di essersi sentito minacciato da situ-azioni di potenziale o effettivo bul-lismo; nei professionali la percentuali raggiungevano anche il 13%: valori comunque molto inferiori rispetto a quelli riportati dalle indagini sulle scuole medie. Abbiamo voluto raccontare questo ep-isodio per rendere più visibile ciò che è invisibile, ossia per dare maggior peso a questo fenomeno in costante evoluzione.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III10

Vincitore del premio Oscar come miglior film straniero nel 2009, “Departures” è un film toccante

e riflessivo che analizza il tema della morte in relazione alla vita. Narra la storia di Daigo, un giovane giapponese, violoncellista in un’orchestra di Tokio, la cui chiusura lo rende cosciente che il violoncello non è il suo sogno. Ritenendo tutto il suo percorso un fallimento, Daigo attende che il suo destino lo raggiunga, e così accade. Nella ricerca di un lavoro egli si im-batte nel più insolito di tutti: il tana-toesteta. Quella di pulire, vestire e truccare i corpi dei defunti è un’antica cerimonia tradizionale giapponese, ma dato che include un rapporto quo-tidiano con la morte è un lavoro dis-degnato dai più. Egli, quindi, vi si av-vicina per caso e con diffidenza, ma in poco tempo viene conquistato da quest’arte che ha lo scopo di ridare dignità ai defunti prima dell’“ultimo viaggio”.

Le numerose scene in cui viene mostrata questa inusuale e raffinata professione mostrano la riconoscenza

dei parenti nei confronti di colui che ha reso ancora bello il corpo del de-funto, portando anche chi aveva delle divergenze con il caro estinto a riap-pacificarsi con esso.

Daigo affronta il lavoro fin da subito con dedizione, ma quando la moglie Mika ne viene a conoscenza gli chiede, invano, di abbandonarlo. Ma al gio-vane appare ormai impossibile rinun-ciare a un ruolo che sente finalmente suo. Tuttavia per Mika si presenterà l’occasione di assistere alla cerimo-nia tenuta dal marito, inducendola a rimettere in discussione la propria posizione e a considerare Daigo un artista. Grazie al ritrovamento del violoncello che gli era appartenuto da bambino, Daigo si riavvicina alla musica, e non solo: nascosto nello strumento musicale egli ritrova in-fatti anche un sasso, che gli era stato donato dal padre prima che questi lo abbandonasse alle sole cure materne, e si sente per la prima volta attratto alla figura paterna, nonostante il ran-core dell’abbandono.

Il sasso simboleggia, attraverso forma e consistenza, i sentimenti che chi l’ha scelto prova nei confronti di colui al quale lo dona, e per il giovane com-incia ad acquisire molto valore.

Grazie alla musica, alla dignità ac-quisita con la nuova professione e al confronto con la propria infanzia e con la figura paterna, Daigo ritrova se stesso e ciò in cui più crede, portando a compimento il proprio passaggio all’età adulta. Il clima di emozione che domina tutto il film, circondando-lo di un’aura quasi sacra, culmina in un ultimo momento di commozione in cui Daigo celebra la più toccante delle sue cerimonie di pulizia e di “accom-pagnamento verso l’ultimo viaggio”.

Sentendosi finalmente in armonia con la propria identità di uomo, marito e figlio, Daigo fa dell’ultimo stadio della vita altrui un nuovo inizio per sé, con-quistando l’ammirazione di chi lo cir-conda, a cui egli trasmette la capacità di guardare alla morte con rispetto e devozione, accogliendola come natu-rale compimento della vita.

DEPARTURESdi Chiara Conselvan

INGLORIOUS REVIEWERS

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 11

Il film esce in Giappone nel 2001 col titolo originale di “Sen to Chihiro no kamikakushi”, ricevendo da subito innumerevoli premi, tra cui l’Orso d’Oro nel 2002 e l’Oscar nel 2003, e un successo di pubblico straordi-nario. Si tratta di un lungometrag-gio animato di altissima qualità, in cui il minuzioso lavoro grafico, cu-rato sin nei più piccoli dettagli, ha permesso la realizzazione di scene straordinarie: sullo schermo si al-ternano, così, a paesaggi mozzafiato dai brillantissimi colori, accoglienti palazzi dall’armoniosa architettura orientaleggiante, abitati dai person-aggi più bizzarri, e pur molto real-istici, scaturiti dalla fantasia del regista. Così Miyazaki ci presenta il mondo incantato all’interno del quale si trova catapultata la piccola Chihiro, un mondo parallelo a quello degli uomini dove regnano, secondo la tradizione giapponese dello Shin-toismo, spiriti dai caratteri e dalle prerogative umane nei quali è incar-nata l’essenza di ogni elemento del mondo naturale. Abbandonata dai genitori trasformati in maiali a causa della loro ingordigia, Chihiro sarà costretta a lavorare duramente al servizio della potente maga Yubaba per riuscire a liberarli e a spezzare l’incantesimo che li tiene prigion-ieri (forte è qui il riferimento auto-biografico dell’autore, che a soli 6 anni vede la madre ammalarsi grave-mente e per nove anni farà di tutto per contribuire in qualche modo alla guarigione). Yubaba priverà Chihiro del suo nome; dimenticarlo avrebbe significato perdere per sempre la propria identità e così la libertà. Ma in questo viaggio la ragazza non sarà sola: incontrerà moltissimi amici, che spesso dimostreranno di aver bisogno di lei, più di quanto essi stessi avreb-bero potuto immaginare. Haku, il più importante di tutti, accompagnerà Chihiro lungo tutto il cammino, un cammino che sarà per la protagonista anche di profonda crescita e muta-mento interiore. Ma egli stesso rice-verà dalla ragazza un dono immenso: la riconquista della propria libertà e un profondo e sincero amore. Di for-tissimo impatto emotivo è l’ultima scena. Chihiro imbocca il tunnel che all’andata l’aveva condotta alla Cit-tà Incantata, ma questa volta deve fare molta attenzione a non voltarsi mai indietro fino a quando non sarà sbucata dall’altra parte, altrimenti mai più avrebbe potuto fare ritorno al mondo dei vivi. Assai ardua è la prova: Haku, poco più indietro, la guarda allontanarsi per sempre dal mondo degli spiriti.

“Omnia vincit Amor”, scrisse il poeta Virgilio; e in effetti, da Omero in poi, la love story classicamente intesa ha

sempre suscitato un grande interesse di pubblico, tanto da attirare orde di scrit-torucoli e cantanti in cerca di fortuna sicura. Vi sono poi i registi, gli sceneggia-tori, che spesso credono — ahimè, a ra-gione — di aumentare esponenzialmente gli incassi inserendo in trame mediocri altrettanto mediocri storie d’amore. Come rivalutare, quindi, una tematica tanto ampia quanto banalizzata? Ebbene, il regista texano Wes Anderson ci dà la sua risposta e lo fa proprio ribadendo con forza quella massima virgiliana or-mai abusata: l’amore vince ogni cosa. Gli “eroi” indiscussi della vicenda, in-fatti, sono due dodicenni, Sam e Suzy, che, dopo essersi conosciuti durante una recita scolastica, iniziano una fitta cor-rispondenza epistolare che li porterà, un anno dopo, a progettare una vera e pro-pria fuga d’amore. Il fatto stesso che i personaggi principali siano due bambini, a malapena adolescenti, è indice di una vo-lontà, da parte del regista, di rappresen-tare un sentimento puro, disinteressato, totalmente privo di quei condizionamen-ti sociali che caratterizzano gli adulti. Accanto a questa stravagante cop-pia — lei sognatrice, amante di libri d’avventura e di fantasia, eppure a tratti violenta, “problematica”; lui improbabile boy scout con tanto di zaino, occhialoni e cappello di pelliccia — gravitano una serie di personaggi adulti decisi a riportare a casa i due fuggitivi. Abbiamo, ad esempio, i Bishop, genitori

di Suzy, apparentemente preoccupati più per il proprio lavoro che per i figli; poi c’è il capitano Sharp (Bruce Wil-lis), capo della spedizione di ricer-ca nonché amante della signora Bishop; e ancora il negligente capo scout Ward, interpretato da Edward Norton. Posto che il film mantiene quell’alone di sarcasmo tipica dei film di Anderson, è interessante notare come, paradossal-mente, siano proprio le parti dedicate agli adulti quelle più ironiche, mentre i ragazzi — non solo i due fuggitivi, ma anche il gruppo degli scout compagni di Sam — dimostrano una maturità, una consapevolezza e una determinazi-one che fanno quasi sorridere. Questo ribaltamento di ruoli viene accentuato da un’atmosfera surreale, satura di col-ori, quasi fosse un mondo idilliaco; e protagonisti indiscussi di questo mondo non sono gli adulti, quasi comici nel loro vano tentativo di razionalizzare la realtà, ma i ragazzi stessi, romanticamente dispo-sti a scavalcare ogni barriera — la famiglia, il dovere, l’emarginazione, persino la morte! — in nome di un ideale: l’amore. Si può essere d’accordo o meno con il messaggio (forse fin troppo ottimistico) di Anderson, ma non si può non rico-noscere al film, oltre a un grande pregio tecnico e musicale, quella rara capacità di coinvolgere lo spettatore anche con personaggi appena abbozzati, di riproporre vecchie tematiche in una veste nuova; ma soprattutto di coniugare alla perfezione ironia e dramma, innocenza ed erotismo.

di Martina Brandila citta’ incantata

di Dario Zaramella

moonrise kingdom

“…Cos’è un nome? Non è una mano, non un piede, non un braccio, né un volto, non è un uomo…” W. Shakespeare

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III12

Ormai un anno e mezzo fa, co- stretta a casa in convalescenza, ebbi l’occasione di iniziare la serie televi-siva inglese “Sherlock”, prodotta dal-la BBC. Già da mesi avevo potuto as-similare, dai social network e da varie conversazioni con chi se ne dichiarava entusiasta, una notevole quantità di in-formazioni sul cast e sulla trama degli episodi. All’epoca, era stata trasmes- sa solamente la prima stagione, di tre episodi di un’ora e mezza ciascuno (composizione a mio parere ottima, che avevo già apprezzato per “Wal-lander” nel 2008, una serie ancora in corso trasmessa sempre sul primo canale della BBC). Ciò che mi aveva fino a quel momento frenato dal guardare “Sherlock” era il fatto che la considerassi a priori un surrogato del film “Sherlock Holmes”, uscito il giorno di Natale del 2009, diretto da Guy Ritchie.

Lo “Sherlock Holmes” del 2009, che richiese quasi dieci anni di prepro-duzione, con il suo sequel del 2011, è

stato senza dubbio un azzardato ten-tativo, più o meno riuscito, di traspor-tare l’immortale personaggio, ideato dalla penna di Arthur Conan Doyle, in una versione moderna bohémienne. Lo scopo era chiaro: individuare, nella scienza della deduzione e nella logica tipica di Holmes, gli elementi che per-mettessero la realizzazione di un film d’azione che si incastrasse all’interno dei canoni hollywoodiani. Partico-larmente interessante fu la scelta dei due attori protagonisti. Primo: Robert Downey Junior, un americano, per interpretare uno Sherlock Holmes fisicamente ben diverso da come Co-nan Doyle ce l’aveva descritto: non più particolarmente alto, non più con un profilo aguzzo e non più eccessi-vamente magro. Più fedele al canone, ma del tutto opposta all’immagine di John Watson che ci hanno lasciato produzioni televisive precedenti, fu la scelta di Jude Law per interpretare il fedele companion, non più un per-sonaggio caricaturale e sovrappeso.

Prima di vedere la serie televisiva “Sherlock”, avevo visto entrambi i film di Guy Ritchie, che avevano riscosso molto successo di pubblico e di critica, e per i quali anche io avevo nutrito un certo entusiamo, anche se passeggero. Scoprii solo successi-vamente che gli sceneggiatori della serie in questione, Steven Moffat e Mark Gatiss (già autori della serie fan-tascientifica “Doctor Who”), avevano annunciato una produzione televisiva basata sui racconti e sui romanzi di Ar-thur Conan Doyle, con protagonista il personaggio Sherlock Holmes, già nel 2008, ben prima, dunque, dell’uscita del primo film. Iniziai allora il primo episodio, rimanendo comunque com-prensibilmente scettica. In questo caso, le avventure del detective più famoso di tutti i tempi sfruttano un’ambientazione contemporanea (scelta adottata già in alcuni film de-gli anni ‘40, con Basil Rathbone). Come nel canone, Sherlock Holmes utilizza qualsiasi risorsa a lui disponibile, allo stesso modo lo Sherlock Holmes della

di Morgana Grancia

A STUDY IN SHERLOCK

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INGLORIOUS REVIEWERS

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 13

BBC, interpretato da Benedict Cum-berbatch, si serve anche di sms, com-puter e cellulari per risolvere i pro-pri casi, senza che venga sacrificata l’eccellente capacità di deduzione, l’arma più preziosa del personaggio. Ho guardato avidamente i tre episodi che compongono la prima serie in un paio di giorni, e quindi aspettato con impazienza circa tre mesi, perché la BBC mandasse in onda gli altri tre epi-sodi della seconda serie. Tra la prima e la seconda stagione, erano ormai trascorsi quasi due anni, e così, anco-ra, i fan (che si auto definiscono come the fandom who waited) aspettano la terza serie per il 2014, a distanza di altri due anni.

Da appassionata non solo di cinema, ma anche di serie televisive, spe-cialmente inglesi, posso affermare che “Sherlock” è il miglior prodotto televisivo che io abbia mai avuto modo di vedere. Di Benedict Cum-berbatch avevo un vago ricordo da “Starter for ten”, commedia inglese del 2006, e da film come “Espiazio-ne” e “L’altra donna del re”, dove mi era stato difficile, se non impos-sibile, provare una qualunque sorta di simpatia nei suoi confronti, per i ruoli da lui interpretati più che per la sua recitazione: rimaneva, prima di “Sherlock”, un attore semi scono-sciuto con un nome impronunciabile. Ma, contro qualunque aspettativa, mi ha regalato un ritratto di Sherlock Holmes ben diverso da quello da cui eravamo abituati, e tuttavia funzio- nale e, incomprensibilmente, non così lontano da come lo descrisse Arthur Conan Doyle. Moffat e Gatiss da una parte hanno cura di rispettare il ca-none, dall’altra si permettono di gio-carci: per esempio, se nel racconto di Doyle, “Uno studio in rosso”, Sherlock intuisce che la chiave del caso sia la parola “Rache”, da interpretare come il tedesco di “vendetta”, e non come il tentativo della vittima di scrivere “Rachel”, nella serie, accade esatta-mente il contrario.

Per il ruolo di John Watson fu scelto Martin Freeman (recentemente, Bilbo Baggins ne “Lo Hobbit”). Come nel caso di Benedict Cumberbatch, non è raro che, per le produzioni della

BBC si preferiscano attori con una solida preparazione e, possibilmente un’esperienza teatrale alle spalle. Non è però il caso di Martin Freeman che, nonostante abbia interpretato anche ruoli drammatici, come quello del pittore Rembrandt (nel film di Pe-ter Greenaway, “Nightwatching”), era meglio conosciuto per la sit com “The Office” e per il ruolo di Arthur Dent in “Guida galattica per autostoppisti”.

“Sherlock”: due stagioni, sei episodi in tutto, e quasi si fatica a chiamarla serie tv, specie se abituati ai lunghi ed infiniti serial americani. E proprio gli americani, a tal proposito, hanno allungato lo sguardo. Visto il suc-cesso della serie inglese, la CBS ha contattato Steven Moffat, chieden-dogli di scrivere il pilot di una nuova serie, americana e ambientata in America, e di seguirne, poi, la realizzazione, sempre sul personaggio di Sherlock Holmes. Al ri-fiuto di Moffat, la CBS ha comunque deciso di realizzare la serie, dove Sherlock Holmes è interpretato, questa volta, dall’attore Jon-ny Lee Miller, mentre John Watson non c’è, o meglio, c’è una certa Joan Watson nel ruolo di Lucy Liu.

Per spirito di po-lemica, e per sana curio-sità riguardo ai due attori, che ritengo c o m u n q u e validi, sto seguendo la programmazio-ne della se-rie, senza n e g a r e un certo sforzo. Sher-lock Holmes è un ex tossico in riabilitazio-ne, un inglese a

New York, mentre Joan Watson è un ex chirurgo, ora sober companion. Pochi elementi che bastano a far ca-pire quanto poco ci sia del raffinato Sherlock della BBC (e di quello di Co-nan Doyle) nel remake americano.

“Elementary”, questo il nome della serie, per essere obiettivi, non è un prodotto riuscito male, anzi, in tutti gli episodi - della lunghezza classica di quaranta minuti l’uno - la narrazione procede con ritmo e il personaggio di Holmes avrebbe potuto esercitare un

discreto interesse, grazie anche al carisma di Miller. Se solo

i nomi, in questo serial, fossero stati diversi, avremmo assistito all’ennesimo insi- gnificante, ma non per questo inguarda- bile, poliziesco

americano, non così diverso da “Castle” o

da “The Mentalist”: quello che manca è la pretesa di es-

sere un show originale.

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III14

Duemilatredici anni fa - o giù di lì - è nato un bam-bino, nella cittadina più sperduta di una terra brulla e desolata. Alla per-iferia del potente impero

romano, in mezzo a un popolo strano, da sempre in attesa di vedere in fac-cia il suo Dio, è venuto al mondo. Suo padre era falegname, la madre invece era una ragazza bella e silenziosa, e quando osservava il piccolo che cresceva aveva nello sguardo quella luce comune ad ogni mamma: quella di chi ha davanti un miracolo.Diventato adulto, aveva ogni carta in regola per avere una vita normale, da bravo israeliano: assiduo frequenta-tore della sinagoga, il lavoro ereditato dal padre, un sacco di amici e, chissà, qualche timida spasimante in paese.Un giorno però è successo qualcosa di strano. Un uomo sporco e coperto di stracci - c’è chi dice che fosse un paz-zo - lo fermò lungo la strada, lo im-merse nel grande fiume Giordano, lo guardò e lo chiamò Signore. La gente indietreggiò. L’eremita aveva bestem-miato. Sicuramente quel falegname di Nazareth lo avrebbe smentito e se ne sarebbe andato via per la sua strada.

Invece no. Si mise a viaggiare per tutta la sua terra, seguito da molta gente. Diceva di essere Dio. Le voci sul suo conto si moltiplicavano a dis-misura: aveva guarito un cieco, aveva resuscitato un morto. C’era chi lo amava e chi lo voleva morto. Questi ultimi alla fine prevalsero. Lo uccisero e lo fecero sparire dal mondo, in una grotta scavata nella roccia. Ma tre giorni dopo scoprirono che il cadavere non c’era più. Da quel giorno non è mai stato ritrovato, anche se dei pes-catori che lo avevano conosciuto in vita sostengono di averlo rivisto, sulle rive di un lago, e poi salire in cielo.

Probabilmente era pazzo, o forse era un genio, e si è preso gioco di tutti noi. L’unica cosa di cui possiamo essere certi è che a duemila anni dall’accaduto la provocazione lancia-ta al mondo da quell’uomo ancora ci tormenta la coscienza: lui, Dio. Nes-sun altro prima e dopo di quel Gesù l’ha mai sparata così grossa. Nessuno se l’è mai sentita. Lui sì. E’ necessario capire perché, prima di potergli ri-dere in faccia. O di dirgli: io ti seguo.Eric Emmanuel Schmitt si immagina che il primo ad averlo dovuto fare sia

stato quel P o n z i o Pilato al quale fu a f f i d a t o il destino di quel f a l e g -n a m e , che i suoi compatri-oti voleva-no morto. Attraverso un carteg-gio fra il p re fe t to r o m a n o e il suo amico Tito si snoda l’indagine

poliziesca ed esistenziale dell’uomo che vuole capire chi era veramente quel Gesù. Per poter essere certi che fosse un impostore serve cancel-lare ogni dubbio. Ma più il mistero della scomparsa del cadavere si in-fittisce più i dubbi nascono in seno al prefetto romano, vessato dai rim-proveri che giungono dalla capitale e dalle sommosse dei giudei a Geru-salemme. Le ipotizza tutte, lo cerca dappertutto, ma più è convinto di avvicinarsi alla soluzione dell’enigma più il suo cuore e sua moglie Claudia premono con una domanda dolorosa: e se fosse davvero stato chi diceva di essere? Se veramente avessimo uc-ciso Dio? E se davvero, come dicono quei pescatori, sia tornato in vita?

Per raggiungere la verità Pilato è costretto ad abbandonare strada facendo ogni pregiudizio, partendo dai più ipocriti per arrivare a quelli meramente razionali, finendo con l’essere disposto a tutto pur di far luce sulla vicenda: non più solt-anto per salvare il proprio lavoro, ma per poter continuare a vivere con quella serenità ormai perduta.

Pilato è solo il primo di una lunga se-rie che arriva fino ai giorni nostri. An-cora ci sono dei pescatori che vanno annunciando al mondo che quel Gesù è risorto, ancora c’è chi li ignora pen-sando che siano pazzi, ancora c’è chi vuole il loro male perchè non può ac-cettare che alcun dubbio, nemmeno il più assurdo e inverosimile, si in-sinui dentro di lui; e ancora c’è chi li segue, cercando quell’uomo risorto. Non importa dove porterà la strada dell’uomo in ricerca, purchè lo fac-cia arrivare ad una soluzione sul “caso Jeshua”, quello che diceva di essere Dio.Magari la soluzione matematica e lim-pida non ci sarà mai. Ma come soppor-tare di non cercare? Dopotutto, come dice Claudia al suo amato: « Dubitare e credere sono la stessa cosa, Pilato. Solo l’indifferenza è atea. »

La BibliobussolaIdi Carlo Simone Il Vangelo secondo Pilato

Cultura / letteratura

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 15

pride and prejudice and zombiesdi Federico Regonesi

Pride and Prejudice. And Zombies. Lo ripeterò: Pride and Prejudice. And zom-bies. Aggiungerò: Fuck Yes. Questa è la definizione precisa di buona idea;

sul dizionario, alla voce genia- lità, c’è la copertina di questo libro. Non ci vuole un premio nobel per la letteratura per capire di cosa par-la questo libro: la trama è quella sputata di orgoglio e pregiudizio, il grande classico di Jane Austen. La giovane Elizabeth e le sue quat-tro sorelle avanzano nella ritualiz-zata e borghesissima società vit-toriana, con i suoi dogmi e le sue contraddizioni, incontrando vari per-sonaggi iconici dell’epoca e le loro anime gemelle. Tutto questo men-tre è in corso un’apocalisse zombie.

Vediamo quindi la scala di valori di una società mutare per adeguarsi allo sta-to di pericolo. Viene finalmente persa l’ipocrisia per abbracciare la volontà di potenza. Ed ecco che non si vale se non si è un “Maestro nelle mortali Arti”, nella scherma, nel tiro con il moschetto o, ancora meglio, nelle arti dei “Maestri Orientali”, i monaci Shao-lin presso i quali le sorelle si sono al-lenate nei duri anni della loro infanzia. Ma non si perde l’attenzione per i ri-tuali e le formalità tipica dell’epoca, anzi. Le cinque sorelle sono spietate e molto selettive con i loro spasimanti, l’abilità retorica e la buona creanza sono virtù ugual-mente neces-sarie per entrare nelle loro gra-zie quanto lo è la perizia nelle Arti Mortali. Questa è una provocazione che dob-biamo saper cogliere: noi, in un mondo devastato dalle guerre con-tro gli “immenzionabili”, dalla pe-stilenza, un mondo grigio e solitario, spietato e che non perdona, non sal-

teremmo forse addosso al primo es-sere di sesso opposto, desiderosi di un contatto con un’altra persona, prostrati dalla durezza della vita? Invece le sorelle no: loro rimangono vere Donne, nel senso più alto e puro del termine, anche in una situazione che avrebbe fatto venire i brividi a Bruce Lee. Oltre al lato etico e mo-rale dell’opera vorrei anche sotto l ineare la capacità e s p r e s s i v a dell’autore - tale Seth Gra-hame-Smith -, un vero mae-stro nell’arte della lotta agli zombie.B i s o gne reb -be citare ogni scena di combatti-mento - contro gli zombie o con-tro i ninja di lady Catherine -, tutte fini e ben costruite, ma ce n’è una che mi sento di ri-narrare. Ci troviamo in un’ampia sala da ballo,

la musica e la luce sono s m o r z a t e dalla polvere giallastra che entra dalle fessure nelle grandi fine-

stre alle pareti. Si sta tenendo il pri-mo grande ballo da mesi, e tutti gli invitati danzano felicemente al ritmo di un allegro minuetto.Quand’ecco che tutte le finestre si rompono, e una valanga di Zombie si

riversa nella sala, trucidando e dila-niando ospiti e servitù.Allora il padre delle giovani si ele-va dalla massa urlante e grida: “ FIGLIE, PENTACOLO DELLA MORTE!”

E le cinque sorelle si di-spongono, con p r e c i s i o n e mortale, in formazione a stella a cinque punte, tirano fuori i machete dalle loro giar- rettiere e cominciano a girare vorti-c o s a m e n t e , mutilando e ri-uccidendo ogni non morto sul-la loro strada. Quanta bellez-za. Devo riportare un’unica pec-ca in questo altrimenti me-raviglioso ro-manzo: pochi zombie.

Le scene con zombie sono mera-vigliose, ma troppo rare! Ci sono infinite sequenze di pagine e pagine dedicate all’amore e ad al-tre amenità decisamente trop-po poco mortali per i miei gusti. Se fosse stato eseguito un lavoro di anlisi filologica migliore, più accurato sull’originale della Austen, e fosse sta-ta sfruttata OGNI possibilità di avere zombie, allora ci troveremmo di fron-te a un capolavoro eterno. Così pur-troppo l’opera rimane confinata allo stato di “bella, ma dimenticabile”.

In poche parole, leggete il libro solo se siete cultori del genere, l’amore per il trash non basta a salvare quest’ottima idea.

« It is a truth universally acknowledged that a zombie in possession of brains must be in want of more brains. »

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III16

Il White Album è sicuramente il capolavoro dei Beatles, nel peri-odo della loro piena attività mu-sicale. Un doppio in cui i Fab Four hanno spaziato in stili e generi molto diversi tra loro, e soprat-

tutto innovativi per l’epoca in cui sono stati pubblicati; il disco, inoltre ricco di forti tematiche, è il primo al-bum in cui appaia netta la divisione e l’indipendenza dei quattro compo-nenti del gruppo. Lato A: si apre con “Back in the U.S.S.R.”, canzone beffa e allo stesso tempo omaggio allo stile e alle tematiche dei brani dei Beach Boys; brano che con la sua frenesia ci porta alla malinconica “Dear Pru-dence”, aperta e chiusa da un indi-menticabile arpeggio di chitarra. Le sue dolci parole sono rivolte da Len-non a Prudence, ragazza che li ac-compagnò nel loro viaggio spirituale in India, in modo tanto intenso da ar-rivare lei stessa a squilibri mentali. “Glass Onion” è un acuto attacco, sotto un’ipnotica base rock, alla spec-ulazione artistica, in particolare in chiave ironica verso le critiche che erano state rivolte alle loro canzoni. Segue la celebre “Ob-la-di, Ob-la-da”, apparente canzonetta per bam-bini, che rappresenta, però, un primo tentativo di reggae bianco. Dopo la strimpellata cantilena di “Wild Honey Pie”, prende parte “the Continuing Story of Bungalow Bill”, ispirata ad un episodio durante il soggiorno in India,

con momenti alterni che rendono la canzone ancora più preziosa. “While My Guitar Gently Weeps” è un vero classico e capolavoro di George Har-rison, dove il testo e la musica, cul-minante in un assolo di Eric Clapton, sono rivolti all’espressione di un sag-gio struggimento. Chiude questa pri-ma parte “Happiness is a Warm Gun”, splendida canzone caratterizzata da diverse anime musicali (malinconica; psichedelica; tribale; innocente…) e frasi dalla solenne ambiguità, come lo stesso titolo o il verso: «Mother supe-rior jump the gun». Giriamo il disco sul lato B che è aperto da “Martha My Dear”; canzone dall’andamento calmo e rilas-sante, che pro-cede sorretta dal pianoforte e dalla splendida voce di McCartney, il quale l’ha dedicata al suo vecchio cane pas-tore. “I’m so Tired” è un inno di Len-non rivolto alla stanchezza derivata dalle sue faticose, anche se interes-santi, esperienze meditative. Giun-giamo poi a “Blackbird”, una forte critica di McCartney al razzismo, considerata da molti uno dei capola-vori del Quartetto; essa è inoltre una variazione della Bourèe in mi minore di Bach. Il clavicembalo regna nella satira sociale di “Piggies”, duro attac-co alle convenzioni borghesi, che pur-

troppo ispirò negativamente le azioni di Charles Manson. Molto singolare è “Rocky Racoon”, racconto western, accompagnato dalla chitarra acustica e dall’armonica, chiaramente influen-zata da Bob Dylan. Compare di seguito l’originale, quanto insolito, contributo di Ringo nella canzone d’amore “Don’t Pass Me By”. Dopo l’esplicito blues di “Why Don’t We Do it in the Road”, troviamo l’orecchiabile canzone amo-rosa “I Will”, che, per avere una ver-sione definitiva, necessitò di più di sessanta registrazioni.Chiude il primo disco “Julia”, la malinconica canzone

di Lennon dedi-cata a Yoko Ono, dove la melodia, caratterizzata dal fingerpicking, e il ritmo accompag-nano dolci pensieri. Il rock ‘n’ roll di

“Birthday” dà inizio al secondo disco e al lato C; brano composto intera-mente in studio da Paul, che è rimasto sempre orgoglioso di questa canzone, invece molto disprezzata dall’amico Lennon. John si strugge nella frus-trazione di “Yer Blues”, dovuta alla necessità di dover scegliere tra Cyn-thia e Yoko. Una lezione di Maharsihi ha ispirato “Mother Nature’s Son”, canzone dall’andamento orecchiabile e letnto; lo stesso episodio ispirò in seguito John Lennon solista nella com-posizione di “Jealous Guy”, contenuta

di Edo Mazzi Francesco Bonzanino

AUDIO PHILEs

“La cover è stata pensata come originale ma semplice alterna-tiva alla variegata complessità del precedente Sgt. Pepper’s

Lonely Hearts Club Band”

The Beatles. White Album (Apple records, 1968)

Cultura / musica

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 17

nell’album Immagine del 1971. In “Eve-rybody’s Got Something to Hide Except Me and my Monkey” John e Yoko riven-dicano di essere gli unici a non essere ossessionati da paranoie. La delusione nei confronti di alcuni atteggiamenti negativi e scorretti di Maharishi tras-pare dalla malinconica “Sexy Sadie”, tragicomica ballata al piano. In “Hel-ter Skelter”, canzone molto voluta da Paul, emerge più che in ogni altra del repertorio Beatles lo stile heavy rock, che ispirò molte generazioni di musicis-ti. Ricompare da compositore protago-nista Harrison nella soffusa “Long Long Long”, che chiude questo terza parte dell’album. Il lato D, utimo di questo disco, inzia con una diversa versione del singolo “Revolution 1”; canzone con cui John intende distaccarsi dalle richieste di attivisti rivoluzionari che lo volevano proprio portavoce attraverso la musica. Spiccano pianoforte e basso nello splendido sipario jazz di “Honey Pie”, che riporta Paul ad un’atmosfera paterna dell’infanzia. La vivace melo-dia di “Savoy Truffle”, in contrasto con l’apparente nonsense del testo, mette in luce la futilità dei discorsi e dei problemi che si affrontano nella vita; il testo è la descrizione di un certo tipo di cioccolatini. Stupenda è “Cry Baby Cry”, canzone molto coinvolgente in cui la melodica voce di McCartney è contornata dal pianoforte; termina con l’inserimento di un jingle. “Revolution 9” è un ardito esperimento di John, in cui sono incluse una serie di regis-trazioni combinate tra loro, tra cui la ripetizione della frase «number nine» da un test, sussurri, e schiamazzi di sé e Yoko, oltre che a diversi frammenti di “A Day in the Life” (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967). Essa in realtà rappresenta una creazione psichedelica, che tentasse di esprimere le utopiche ambizioni sociali di John e il benessere derivante dall’amore con Yoko. Il White Album termina con “Good Night”, né più né meno che una sincera e dolce ninna-nanna, accompa-gnata da una melodia orchestrale, che John Lennon dedica al figlio Julian; una delle canzone preferite da Ringo. Un album che, oltre a costituire un pilastro della storia del rock, si lascia ascoltare tranquillamente, con passione e amore nelle sue trenta canzoni e mille sfac-cettature.

“Why don’t we do it in the road? / No one will be watching us / Why don’t we do it in the road?”

“It’s been a long long long time, /how could I ever have lost you /

when I loved you”

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III18

Sulle orme di Guido Gozzano, poeta torinese del primis-simo ‘900, Guccini rinchiude L’isola non Trovata (1970) nell’alone misterioso di un isolotto atlantico. Avvistata

in lontananza da pescatori africani, la sua profumata foschia infiamma i loro desideri e spinge le loro menti affollate di sogni ad inseguirlo all’orizzonte. Il disco parla del tempo: perso, passato, senza misura, del sogno, del pensi-ero, del cercare senza sosta. Tempo da assaporare secondo per secondo intensamente, nel carpe diem, per giungere alla felicità. Il tempo della vita, speso nell’inseguire la speranza del migliore, ricerca un’evanescente impressione: la meta beata, l’isola fortunata e sfuggevole che possiamo percepire, come scrive Pessoa, solo quando non ci accorgiamo di starlo facendo.

“La più bella”. Da Gozzano a Guccini

Il giovane tubercolotico Gozzano, dopo il viaggio in India del 1912, fres-co dei nuovi interessi esotici fantasti-ca di geografia, evocando terre e mari

da sempre guardati come il Limite dell’indefinito: dal mar dei Sargassi a Gorgo, Hera, Iunonia. Il vero Eden, la vera isola beata, e senza dubbio la più bella, è quella che esiste, - o forse no? - oltre i sensi dell’uomo, che “ap-pare talora di lontano / tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero”. Nessuno ci è mai stato. Appare solo agli umili, ai pescatori, e non certo al potente Re di Spagna, che credeva di poter ac-quistare la felicità con il denaro. Né il cugino Re di Portogallo, né la bulla del Pontefice riusciranno ad ottenerla.

L’isola di Guccini, fedele ripresa di quella di Gozzano (vedi i testi in ul-tima pagina), compare nella prima traccia, inafferrabile e sinuosa come il fumo, ma torna nell’ultima, a chiu-dere l’album, tinta d’azzurro “color di lontananza” (che rima molto bene con speranza): la domanda si fa sempre più insistente, necessaria; l’Isola non risponde, torna nel vago dell’orizzonte, lasciandoci con un dol-cissimo dubbio dal gusto metafisico. “Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. / [...] Itaca ti ha dato il bel viaggio,

senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti? / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole sig-nificare.” (K. Kavafis, Itaca)

Forse l’isola è peggio di quello che ci si aspetta. Forse nemmeno esiste: che importa? Ciò che conta è il viaggio della vita.

L’isola degli antichi: ai confini del mondo

“L’Oceano, che tutto abbraccia, ci at-tende; e in cerca andremo / di isole felici e di campi, campi beati, / dove il suolo dà i suoi frutti senza essere arato” (Orazio, Epodo XVI) Nessun luo-go migliore per fuggire il dolore della vita – L’Ineluttabile Pesantezza del Vi-vere. Da Esiodo a Pindaro, da Omero a Plutarco, da Plinio il Vecchio a Orazio si è tentato di collocare su una mappa l’eterno mito dell’età dell’oro, rinchi-udendolo in un’isoletta. Oltre i con-fini del mondo, nel Mare Tenebroso - l’Oceano, distesa ignota traboccante

di Eleonora Sacco

“Quale voce viene sul suono delle onde / che non e’ la voce del mare? E’ la voce di qualcuno che ci parla, / ma che, se ascoltiamo, tace,

proprio per esserci messi ad ascoltare.”

As ilhas afortunadas, Fernando Pessoa (Lisbona, 1888-1935)

Cultura / musica

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 19

d’infinito - le isole Fortunate venivano spesso identificate con le Canarie: es-otiche, lussureggianti, misteriose...

L’isola dei moderni: un luogo inte-riore

A volte ibridato con il mito di Atlan-tide, a volte con stregonerie di gusto ancora medievale, Ariosto, Tasso ma anche Shakespeare, More, Bacon, Russeau ci parlano, a loro modo, delle isole Felici. Il mito si è perpetuato fino al celeberrimo personaggio di Pe-ter Pan, creato nel 1902 da Barrie, o nelle musiche di Debussy, poi ancora in Gozzano e Pessoa. Sede della città ideale, non-luogo, l’isola si è sempre più smaterializzata, fino a diventare una proiezione dei propri sogni di per-fezione, collocabile solamente dentro se stessi. Non era nelle Americhe, non in Africa né in Australia... Legittima diventò allora la ricerca nella pro-pria psiche, nelle proprie emozioni, nell’inesplorato dentro di noi, alie-nandosi.

Come una splendida utopia: l’Isola ferdinandea

Luglio 1831. Morie di pesci, acqua che bolle, colonne di fumo, terremoti. Nel canale di Sicilia emerge un’isola, che solo nel 2006 verrà identificata come un cono accessorio dell’enorme vulca-no sottomarino Empedocle. Inghilter-ra, Francia e i Borboni si contendono i 4 km² di isola piantando la propria bandiera e ribattezzandola nella pro-pria lingua. Île Julia, Graham island, o isola Ferdinandea? L’isola-Non-Tro-vata! Il problema della proprietà si risolse con la sua improvvisa scom-parsa: risucchiata dalle onde in meno di 6 mesi. Oggi, segnalata - non si sa mai - dai siciliani con una targa che ne rivendica la legittima proprietà, si trova sempre lì, ma 7 metri sotto il mare. Quasi fantascienza.

Appare a volte, avvolta di foschia...

Nel cuore delle proteste studentesche Francesco Guccini lancia un messag-gio cifrato. La nostra isola può essere un’ideologia, un sogno, una speranza religiosa o semplicemente un miglio-

re: “nessuno sa se c’è davvero”, se sia realizzabile, ma siamo liberi di crederlo e di renderla la nostra Ita-ca. Probabilmente non la toccher-emo mai, ma l’importante è quello che vivremo cercandola, il senso che daremo al nostro errare.

La bella più di tutte non è solo il rifu-gio della mente dal male del mondo: è spesso un miraggio, un’impressione luccicante e misteriosa che, come una sirena, ci attira e spinge a seguirla. E noi, stregati, continuiamo ad in-namorarci col pensiero, spieghiamo le vele al vento, aggrappati al sottile ma dolce filo della speranza.

Non provate a raggiungerla, vi sfug-girà via. Sempre, però, desider-atela in segreto, inseguitela col pensiero, coloratela, cantatela, sognatela! L’isola è dentro di voi.

Testi delle poesie: vedi in ultima pagina!

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III20

Spengo il rumore, accendo la radio. La stanza si riempie di parole per 43 minuti, senza interruzioni. Parole malin-coniche, parole che hanno un sapore dolciastro, quasi

di morte. E’ la voce di Guccini, che guidandomi in questo suo ultimo viag-gio musicale mi lascia incantata, sosp-esa su un filo tra le sue rime e la sua musica. Questo suo album, l’Ultima Thule, non è avvelenato, non aggre-disce il mondo e la sua attuale - dis-astrata - situazione, ma mi accoglie a braccia aperte e con una carezza sulla punta delle dita; mi fa accomodare in un’atmosfera familiare, e mi rilassa.Tutto ha inizio di notte. Le voci insist-enti di due genitori, desiderose di dor-mire, esortano il figlio a fare lo stes-so. La luce viene spenta, ma invece del riposo, comincia un monologo con la notte stessa, che è per antonoma-sia portatrice di grandi, filosofici pen-sieri. Guccini celebra ciò che resta di antiche speranze. Sfoglia le emozioni,

i sogni, le delusioni della sua infanzia e della sua adolescenza, tempi così lontani per un uomo di 72 anni, ma allo stesso tempo così vivi, così forti. Le canzoni si intrecciano tra loro e offrono immagini nitide del suo pas-sato. I suoi ricordi diventano i nostri. Sono come segreti, piccole confessio-ni fatte sotto voce all’orecchio. Così, presi di sorpresa, senza accorgercene ci immedesimiamo e ci sentiamo pro-tagonisti. Un solo sguardo dettagliato sulla sua esistenza sembra scovare quindi anche la nostra; forse per aiu-tarci a migliorare, a prendere la vita sul serio.Canzone indimenticabile è L’Ultima Volta. Guccini mi prende per mano e mi porta a spasso per i valichi dell’Appennino, tra il fiume Limen-tra e il mulino dei nonni, luogo dove è stata registrata la stessa canzone. Ciò che folgora è il significato, la vera essenza del testo: c’è sempre la volta che determina la fine di un qualcosa, ma in quel momento non ci accor-

giamo che è proprio l’ultima. Qui sale un sottile brivido, un’anticipazione di morte che però si prospetta serena, indolore, proprio perché non sapremo quale sarà il suo momento. Infatti questo è il tema che sembra ripresen-tarsi fiero ad ogni occasione, mascher-ato prima da partigiano ucciso su in collina, poi da pagliaccio, “intossicato da sogni vani di democrazia”. Un tabù che intimorisce tutti, me per prima. Non vi è risposta, ma forse, se ascolt-iamo con attenzione, si può trovare un sollievo personale anche per un in-terrogativo così complesso.Però Guccini, con raffinatezza e dis-crezione, preferisce definire come filo conduttore la ‘scomparsa’. L’Ultima Thule infatti è l’ultima isola, dove tutto finisce e si perde; è la terra leggendaria del ghiaccio e del fuoco, raggiunta da un viaggiatore greco di Marsiglia intorno al 300 a.C. Si tro-vava oltre le colonne d’Ercole, ed era definita dal poeta Virgilio come es-trema, come ultima terra conoscibile. Dunque dopo di lei tutto svanisce, di-viene nebbia. È la metafora della vita stessa, che con tutte le sue passioni e i suoi tormenti troverà riposo alla fine del viaggio. Così è stato per Guc-cini. Dopo anni dedicati alla musica, ha deciso di chiudere la sua carriera in silenzio, senza concerti. Ci lascia con l’amaro in bocca e con in mano questo suo disco, in cui esorta ad essere fi-eri delle proprie battaglie quotidiane, vinte o perse, perché sono quelle che permettono di andare avanti.L’ultima Thule si spegne così, con uno sguardo rivolto all’orizzonte. Nella nebbia temporalesca sfuma l’immagine di un veliero che vuole navigare fino all’infinito; è agguerrito e determinato a raggiungere il suo scopo, anche se è consapevole che sarà il suo ultimo viaggio. Ormai non può più tornare indietro, può soltanto andare incontro al suo destino. “Si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo”No, caro il mio Francesco, questo non è ciò che ti aspetta. Spereremo tutti in un tuo ritorno, ma se non sarà così, non sarai dimenticato facilmente.

L’ultima thule attende al nord estremodi Claudia Sangalli

Cultura / musica

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 21

Due occhi rossi, brillanti di luce propria, sfocati in lontananza, immersi nel nero con la sola compagnia di qualche ombra più nera del nero. Due occhi che

non avevano niente da dire, ma erano tutto per il giovane vagabondo, perso e sconsolato, coi brividi che non sa-peva se attribuire al freddo pungente di una notte inoltrata, o a quella sorta di sapiente e centellinata mistura di speranza, paura ed eccitazione che lo permeava dal tramonto infuocato, vissuto qualche ora prima, e che lo aveva lasciato, a tratti, sul punto di soffocare. Egli sentiva che quell’ansia di vivere era il fine stesso della vita e si sentiva libero, come se nell’ascesa a cieli sempre più alti avesse urtato col piede Dio durante l’arrampicata, in modo tanto involontario quanto im-pertinente. Questa idea, anzi, ques-to stato psico-fisico si interrompeva proprio quando, constatò il giovane

uomo- ne diventava pienamente co-sciente. Frustrante, certo, ma non per questo deludente. Non si riduceva semplicemente ad un cane che tenta di mordersi la coda. No, era –è-, più come un cane che azzanna la sua coda proprio perché è il suo fine più alto e più giusto poter decidere sulla sua auto-distruzione. Voleva essere il fau-tore della sua propria vita, come re-citava quell’antico detto d’una lingua straniera; era stanco di insopportabili catene che lo tenessero avvinghiato a una terra che non sentiva sua e di as-perrime medicine che alleviassero in modo finto e plastico e impuro questa sensazione e del peso sulla sua lin-gua e nel suo corpo e di quel rumore in testa che aveva reso l’emicrania un’abitudine familiare, senza per questo darle colore, lasciandola anzi di quel particolare sfondo asettico e mortale. Si muoveva verso le luci della notte, faro reale ideale di qual-cosa che forse esisteva solo nella sua

mente stanca. Due occhi rossi, e non erano gli unici. Ce n’erano di gialli, di verdi, alcuni più luminosi, definiti, fluorescenti, altri più fiochi, più spen-ti, come brace morente. Alcuni erano immobili creando una sfida allo spet-tatore, impertinenti e testardi, vole-vano averla vinta, non si spegnevano mai, potevi voltarti un istante o più e ,quando tornavi ad essi, li ritrovavi come li avevi lasciati; altri si muove-vano dando vita a scie confuse e infer-nali che sparivano dietro l’orizzonte, subito rimpiazzati da altri che ne seguivano il cammino come viaggia-tori che inseguono una stella cometa e non capiscono che loro stessi sono stelle per altri. I due occhi rossi si chi-usero, si aprirono due gemelli verdi; era tempo per il ragazzo di avanzare, di andare incontro a ciò che gli altri solevano chiamare destino e che per lui era solo l’inestimabile bellezza dell’ignoto. Mise il primo piede sulle strisce pedonali.

di Godog

M.C. Escher: Eye (1946)

CRONACA DI UN’ILLUSIONE

Cultura / racconti

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III22

La bambina non era mai stata fuori dalla città, specialmente dopo il ca-lar del sole. Ora lì, sull’uscio della casa del vecchio, la notte le sembrava nera e profonda; la stradina che si srotolava ai suoi piedi, illuminata dal riverbero che filtrava oltre la soglia, veniva inghiottita più avanti dalle tenebre. L’oscurità sembrava av-volgere ogni cosa, come fosse inchi-ostro diluito in un’ampolla d’acqua.

Le notti, in città, erano molto di-verse: la fiamma delle fiaccole illumi-nava la densa cappa di fumo che si ac-cumulava stagnante sopra i tetti delle abitazioni e intorbidiva l’aria, e tutto pareva sempre rischiarata a giorno; alzando gli occhi al cielo si poteva in-travedere solo un violaceo e nebbioso chiarore. Ma ora un’unica spirale di fumo si sno-dava placida dal comignolo della casa e la bambina non vedeva a più di tre passi davanti a lei, poi solo una buia e impenetrabile parete, infine solo la notte che tutto avvolge. Il vecchio le

stava accanto, imponente e bonario. Si riempiva i polmoni della fresca aria notturna e di quella liquida os-curità, e scrutava il buio davanti alla casa; ma i suoi occhi, d’un tratto non più stanchi, sembravano fendere l’oscurità e vedere al di là della nera coltre. Un sorriso pareva appena ac-cennato sotto la peluria del suo viso. Il vecchio guardò in giù, verso la bam-bina, e disse con voce profonda e un po’ burbera: “Andiamo”. Lei, alzando lo sguardo curioso verso il vecchio, gli porse la piccola mano e lui la strinse nella sua, ruvida e callosa. Aspettò che la bambina muovesse il primo passo, poi i due si addentrarono nella notte. Gli occhi della bambina non vedevano nulla in mezzo all’oscurità, ma i passi lenti e sicuri del vecchio la guidavano in quel mare di tenebra. Ad un tratto la strada sterrata svanì sotto i loro piedi per lasciare il posto ad un’erba tenera e fresca che lambiva le cav-iglie. La vista della bambina iniziava pian paino a distinguere i contorni

delle cose, abituandosi, dopo tanto tempo, a vedere nella notte. Salirono su quello che sembrava il dolce fianco di una collina fino a raggiungerne la cima. Lì, accolti da un caldo vento primaverile carico di profumi, si fer-marono e la bambina alzò per la prima volta gli occhi al cielo. Sopra di lei si stagliava la volta ce-leste, costellata dal candido argento di migliaia di stelle luminose. La bam-bina spalancò la bocca, ma non ne uscì nulla, nemmeno un lieve sussurro; la voce le era morta in gola e il silenzio raccontava meglio di qualsiasi altro suono lo stupore per quel grandioso e magnifico spettacolo. Il vecchio si accovacciò al suolo supi-no, felice come fosse finalmente tor-nato a casa; il suo sguardo si spostava placido dalla bambina al cielo e i suoi occhi risplendevano del bagliore delle stelle. Ogni volta che si sdraiava lì, sotto quel cielo, i suoi occhi si riem-pivano di lacrime di gioia e mai egli si stancava di contemplare quel mira-colo divino.

di Martina Brandi

L’UOMO che guardava le stelle

Cultura / racconti

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 23

La bambina si distese nell’erba al suo fianco e il vecchio iniziò a parlare: “Qui, bambina mia, è scritta tutta la storia del mondo, qui fra le stelle, dove gli dei hanno reso eterni i ricor-di. Le vedi quelle tre stelline lassù?” e indicò in alto con il dito. “Sì!”. “Quelle sono niente meno che le cor-na dell’ariete dal vello d’oro. Conosci la sua storia?”. La bambina scosse il capo dispiaciuta. Il vecchio sorrise e iniziò: “Tempo fa, nella vicina Beozia, viveva un re di nome Atamante. Sua sposa era Nefele, dea delle nuvole, dalla quale il sovrano aveva avuto due figli, Frisso ed Elle. Un giorno, però, il re ripudiò la moglie per spo-sare Ino, una donna mortale. Ma Ino detestava i figli nati dal primo matri-monio e persuase dunque il re a sac-rificarli agli dei, come unica salvezza dalla carestia che allora incombeva micidiale sul paese. A malincuore al-lora, il re ordinò che i due giovani venissero immolati presso un altare. Ma quando per loro sembrava ormai persa ogni speranza, ecco scendere dal cielo un montone dal manto d’oro, inviato da Zeus per salvarli: tanto lo aveva supplicato la disperata Nefele. Montati in groppa all’animale, i due giovani sorvolarono molte terre e mol-ti mari: la Colchide era la loro meta. E vi erano ormai giunti quando Elle, stanca del lungo volo, scivolò precipi-tosamente verso il basso e cadde nelle acque del mare che oggi chiamiamo Ellesponto. Il fratello, invece, giunse salvo nella nuova terra, dove venne accolto dal re Eeta, ma questa è un’altra storia. Zeus, però, decise di premiare il magnifico animale che ave-va salvato i due giovani da un inutile sacrificio e così lo mise in cielo, fra le stelle, affinché tutti gli uomini, veden-dolo, ricordassero la sua impresa.”. La bambina ammirava incantata il possente ariete che regnava alto nel cielo e ne distingueva la figura così nitidamente che al suono delle pa-role del vecchio le era quasi parso di vederlo muoversi e cavalcare nel-la volta celeste, con in groppa due giovani diretti verso terre remote.

Ma poi i suoi occhi incrociarono una stella particolare, diversa dalle altre, una stella rossa. “E quello cos’è?”, domandò curiosa al vecchio.“Quello, bambina, è l’occhio infuocato del toro. La sua storia risale a molto tempo fa, quando a Tiro regnava Agenore, gen-erato da Libia e Poseidone. Sua figlia, Europa, era una bellissima fanciulla, talmente bella che anche Zeus, il più potente di tutti gli dei, si innamorò di lei. Questi, dunque, per riuscire

ad avvicinarsi alla fanci-ulla, escog-itò un astuto travestimen-to: si tra-

mutò in un bellissimo e maestoso toro, dal candido pelo e dalle corna d’avorio, e sotto tali sembianze scese sulla spiaggia dove la principessa gi-ocava ignara con le sue ancelle. Non appena vide l’animale, tanto bello e mansueto, la giovane ne rimase af-fascinata e avvicinatasi iniziò ad ac-carezzarlo e ad adornarlo di fiori; il dio, astuto, si accovacciò per per-metterle di salirgli in groppa, ma non appena quella fu salita, l’animale la condusse in mare, sempre più a largo. Quando Europa si accorse dell’inganno era ormai troppo tardi,

e Zeus la portò via con sé; dalla loro unione nacque Minosse, re di Creta.”. La bambina vedeva, in alto, la bellis-sima Europa e nelle orecchie sentiva il rimbombo delle onde del mare; ma subito il vecchio ricominciò a parlare, mentre i suoi occhi seguivano i diseg-ni delle stelle: “Ma Zeus s’innamorò di molte donne, dee e mortali, ed il cielo racchiude molte di queste sto-rie. Guarda più in là, bambina, guarda i due gemelli, Castore e Polluce, nati da Leda, sposa di Tindaro, sovrano di Sparta. Anche di lei si innamorò il re degli dei e la sedusse questa volta sot-to le sembianze di un magnifico cigno. Alla donna nacquero dunque quattro figli, racchiusi, cosa insolita, in due uova: da uno, figli del dio, vennero alla luce Polluce ed Elena, dall’altro, figli di Tindaro, Castore e Clitemnestra. Ma i due fratelli furono in vita lega-ti da un affetto fraterno assai pro-fondo e così, quando Castore morì nel tentativo di rapire le promesse spose dei cugini Ida e Linceo, ge-melli anch’essi, Polluce volle seguire il destino del fratello. Zeus, allora, concesse loro di vivere in eterno in cielo, sotto forma di costellazione.”. “E laggiù? – indicò lei – quello è un

“Qui, bambina mia, è scritta tutta la storia del mondo, qui fra

le stelle, dove gli dei hanno reso eterni i ricordi.”

Francois Boucher - Il ratto di Europa (1734)

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III24

leone!”. Il vecchi sorrise: la bambina aveva imparato a leggere il cielo. “Sì, – disse – quello è il leone. Ma prima guarda lì in mezzo, la piccola cos-tellazione del granchio, che gli uomini sempre dimenticano.”. La bambina la vide, più piccola e meno luminosa delle altre figure, e in silenzio at-tese che il vecchio raccontasse la sua storia. E quello iniziò: “Ci sono stati giorni assai gloriosi, in cui Eracle, il più grande eroe di tutti i tempi, sos-tenne con le sue forze dodici immani fatiche. La storia del granchio risale ai giorni in cui il grande eroe, figlio anch’egli di Zeus e Alcmena, dovette affrontare la terribile Idra dalle molte teste: ad un certo punto, nel mezzo del combattimento, dalle acque del lago fuoriuscì il piccolo granchio, che vedendo l’eroe in difficoltà si avvicinò al mostro per pizzicarlo. Ma il colpo sbagliò bersaglio e ferì il piede di Era-cle, che d’istinto schiacciò la bestiola.

Era, tuttavia, avendo visto ogni cosa dall’alto, volle glorificare l’animale per aver ostacolato, anche se in min-ima parte, l’eroe da lei tanto odiato. Eracle, infatti, era nato da un amore illegittimo di Zeus, il quale, con l’inganno, aveva poi donato il pic-colo alla dea perché lo svezzasse. Lei, accortasi dell’imbroglio, lo ave-va strappato via dal petto, ma così facendo uno schizzo del suo latte aveva lasciato una macchia indelebile nel cielo. Ed è quella, bambina, la Via Lattea, una striscia bianca e lu-minosa che puoi vedere nelle notti serene. La dea dunque pose in cie-lo il piccolo animale e a lui dedicò la flebile costellazione del cancro. Quello che vedi poco più in là, in-vece, è il terribile leone di Nemea: la sua pelle era come una corazza, nessun’arma poteva trafiggerla. Ma Eracle riuscì a sconfiggere anche quella bestia e a privarla della folta

e lucente pelliccia, incidendola con gli artigli stessi dell’animale mor-to. Da allora il suo corpo fu sempre ricoperto da quel manto e così lo rappresentiamo ancora noi oggi.”.

Alla bambina batteva forte il cuore: non aveva mai immaginato che in cie-lo fosse scritta la storia di dei, eroi, mostri e altre stranissime creature. Ma ormai la notte volgeva al termine e un lieve chiarore stava sorgendo dal giaciglio delle dolci colline a orienta-li. Come la notte, il vecchio sembrava sbiadire alla luce del sole e il suo volto tornava ad essere muto e illeggibile. Ma la bambina sapeva che quello era l’uomo delle stelle, di tutte le mag-nifiche stelle che aveva visto quella notte, di tutte le magnifiche stelle che ogni notte trapuntavano il cielo della Grecia.

Correggio - Leda e il cigno (1530)

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 25

Inverno del 222 a.C: parte dell’esercito romano ritorna a Roma.Il ragazzo giaceva a terra, con una profonda ferita sul petto; il sangue scorreva copioso. Il pa-

dre, che lo teneva tra le braccia, vide nei suoi occhi la luce spegnersi. Poi, come una foglia al vento, la salma si sollevò da terra e dalla ferita uscì un piccolo essere, minuto e imbrattato di sangue. L’uomo fissò quella strana creatura dritto negli occhi: erano come quelli del morto, solo dotati di passione, ambizione e di una luce che continuava a crescere sino a diven-tare accecante… Infastidito dal sorgere dell’alba, il ro-mano si destò dal sonno, turbato più che mai dal sogno che aveva appena fatto. Subito i ricordi degli ultimi mesi di guerra lo aggredirono: Roma aveva trionfato sui Galli cisalpini; Milano, la loro città più importante, era capi-tolata e ora parte dell’esercito stava tornando all’Urbe. Il bottino era im-menso, certo… ma lui, Lucio Emilio Paolo, aveva subito la perdita più grave che un padre potesse soppor-tare: quella del figlio maggiore, del suo erede, perito durante una sortita. Non riuscì a trattenere le lacrime, che scesero silenziose; doveva però essere orgoglioso perché suo figlio era caduto salvandolo da un gruppo di barbari, abbattendoli uno dopo l’altro e morendo per una ferita in pieno pet-to. Aveva combattuto fino all’ultimo da vero eroe: ma era questa per lui una vera consolazione? L’uomo si alzò dal suo giaciglio e si asciugò le lac-rime: non poteva mostrarsi debole di fronte ai soldati.Rifletté a fondo su come avrebbe potuto annunciare alla famiglia l’accaduto; con ogni probabilità sua moglie avrebbe capito subito non ap-pena l’avesse visto tornare da solo. Ma i suoi figli? Come comunicare loro che il loro fratellone, la loro guida, era scomparsa per sempre? Riprese a piangere. In quel momento si ricordò del pri-gioniero gallico: quel giovane era

così simile al figlio defunto, soprat-tutto negli intensi occhi scuri, che non era riuscito a ucciderlo: un istinto primordiale lo aveva costretto a ris-parmiargli la vita e a portarlo con sé. Per quanto ne sapeva, poteva essere anche il ragazzo il più stupido della città o covare nel cuore intenti prodi-tori; ma, inspiegabilmente, il suo viso gli ispirava fiducia e una serenità lib-eratoria. Mosso ancora dall’istinto, decise di andare a parlargli.Lo trovò nel retro della tenda che dormiva per terra, incatenato a un palo; gli si sedette di fianco e aspettò con pazienza che si svegliasse. Quan-do, poco dopo, il ragazzo si destò, si guardò attorno, smarrito, ma, non ap-pena vide il romano, gli rivolse uno sguardo pieno d’astio. Per un tempo che sembrò interminabile, i due rima-sero in silenzio osservandosi attenta-mente. Fu il romano a parlare per primo, in lingua gallica: “Ti ho salvato la vita. Dovresti perlomeno mostrarmi un minimo di riconoscenza. Avresti po-tuto incorrere in un destino assai più crudele.” Il ragazzo trasse un gran respiro, ponderando bene la risposta: “E dovrei esserti riconoscente? Senza il tuo aiuto sarei morto, adesso. Sarei libero da ogni sofferenza, sarei senza pensieri; invece finirò a essere lo schi-avo di un romano. Non mi sembra una grande fortuna”. “Calmati! Ho dei piani per il tuo fu-

turo,” rispose Emilio, “sono un uomo potente e diverrai il mio segretario. Per questa ragione imparerai il latino quando verrai a Roma, e ti converrà, per il tuo bene”. Il ragazzo rimase im-passibile: pur riluttante ad accettare questo suo fato, sapeva che cercare di opporvisi sarebbe stato distruttivo e, per il momento, decise lasciarsi tras-portare dal flusso degli eventi. Così disse: “Non mi hai ancora detto, ro-mano, cosa è accaduto al panettiere cui ho salvato la vita”.“Ho onorato il tuo valore e l’ho las-ciato andare: cosa ne sia stato di lui lo ignoro.” “Morto dunque, o peggio, schiavo.” concluse cinico il ragazzo. In silenzio, il romano continuò a scru-tare il ragazzo, poi, solenne, disse: “È ora che tu sappia chi sono. Mi chiamo Lucio Emilio Paolo e appartengo alla gens patrizia degli Emilii. Il tuo nome, invece, mi è ancora oscuro.” Il ragazzo, con fare quasi insoffer-ente, rispose: “Pensavo di avertelo già detto. Io sono nessuno”. Il romano gli rivolse uno sguardo di-vertito. “Questa tua arroganza mi pi-ace; bada bene, però, che da adesso non tollererò più tali comportamenti. Nessuno, eh? Vediamo un po’… d’ora in poi da oggi sarai chiamato col nome di Oligodisseo. Ma ora basta parole, dobbiamo prepararci per la marcia, un lungo cammino ci attende”.

di Pietro Klausner

Il gallo che salvò roma #3Evariste-Vital Luminais, Gaulois en vue de Rome, 1890

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III26

La guardavo: era la donna perfetta.Stava lì, davanti a me nella stanza tutta piena di porpora, sorrideva appena, come la prima fiam-mella che guizza da un falò: non è ancora calda e vivifica, ma è piena di promesse. Il rosa di un capezzolo spuntava a malapena, scherzosamente

timido, dalle lenzuola color pesca.Ricordo distintamente la bellezza d’un dentino che le spun-tava da dietro il labbro - così bianco, i margini si smorzava-no in bell’azzurrino, trasparenti che si vedeva attraverso.Ero timido. Lo sguardo mi cadeva inevitabilmente verso il basso, la testa incassata nelle spalle. Cercavo di darmi un contegno- battute divertenti, occhiate d’intesa e conver-sazione brillante. Però non l’ho mai toccata.Come mi avvicinavo sentivo un tal timore, una paura dell’incognito che mi limitavo, mi bloccavo.Una carezza casuale, puro scherzo, una pacchetta in testa giusto per ridere - ma il vero sentimento, dietro al con-tatto, non ce lo mettevo mai.A un certo punto decido di avvicinarmi. Le sorrido, sincero. Non cambia nulla. Non mi risponde, non mi guarda con altri occhi. Ingoio un groppo di saliva, il gozzo sale e scende; una goccia di sudore si perde tra i peli della mia barba.La fisso negli occhi. Le dico:”Ti ho sempre amata.”Tendo una mano verso il suo volto.Sul polpasterello sento del sangue.Il suo volto, meraviglioso, si è aperto, come il fiore del ba-obab. Brandelli di pelle stanno tesi attorno al suo teschio sanguinante. Gli occhi senza palpebre mi fissano senza emozioni. Che belle pupille che avevi.Le sue ossa cominciano a ribollire e petali blu scuro com-inciano a scavarsi una strada tra carne e sangue. Lei com-incia a sfaldarsi in una nube, ormai informe, di petali blu, che svolazzano via e vanno a sbattere sulla parete subito dietro. Stanno lì, in un mucchio. In mano, appiccicato con un po’ di sangue, mi rimane un solo petalo blu.E così, di nuovo, sono solo.

C’era una volta un Re, solo nel castello.Era Re, ma non perché voleva lui.C’era nato, patatino, anni fa solo in un castello più grande di lui, senza mamma, nè papà- solo una brutta balia coi baffi e un gatto: Pollicino.Se non aveste capito: si sentiva solo.

Mille scartoffie da compilare anche solo per dar da mangi-are a UNO dei suoi sudditi! E non poteva certo lasciarli soli, poverini. E’ tipico dell’umanità il necessitare di un uomo che le imbocchi lo spirito.Ogni giorno otto ore nel suo ufficio, un cubicolino nel mez-zo della sala del trono. Computer e caffè, uno smoking grigio.Affianco allo schermo, la foto della tata. Girata, perché è brutta.Poi si alzava, alle quattro del pomeriggio, e si toglieva lo smoking grigio. Si rimetteva il mantello d’ermellino e la corona col diamante, e si affacciava al grande balcone del castello. Una terra brulla e marroncina lo fissava. Alberi morti e corvi gli unici suoi sudditi. Lui sfoggiava un sorriso soddisfatto e gridava: TEMPI MIGLIORI ARRIVERANNO! ABBIATE FEDE! ABBIATE FEDE! e continuava a gridare ABBIATE FEDE! ABBIATE FEDE! finché non aveva più fiato per respirare e tossiva sangue.Allora si trascinava di nuovo dentro al castello, si toglieva il mantello e la corona col diamante e si metteva il pia-giama.C’era disegnato un orsacchiotto che regala un fiore a un’orsacchiotta.Si acciambellava a letto come un bimbo, al fianco di Pol-licino il Gatto.Qualche volte piangeva, più spesso si addormentava subito per la stanchezza.Allora Pollicino gli leccava un po’ la faccia finchè non ve-deva che lui sorrideva, poi gli si metteva in braccio e si lasciava stringere, anche se gli dava fastidio.Un giorno il Re si sveglia stanco.La sua vita l’ha provato: è magro, quasi pelato.Gli rimane solo un dente e la pelle della schiena è piena di melanomi.Sorride amaro. Ciao pollicino. Meow. Purrr.Pollicino gli si struscia su un polpaccio flaccido.Il Re si mette il suo smoking grigio e si mette a lavorare.Arriva mezzodì, il Re è stanco. Si guarda riflesso nello sch-ermo- spento.Si alza, la fronte corrugata.Non si cambia il vestito, anzi, si spoglia completamente.Esce fuori sul balcone deserto.Guarda il suo mondo morto.Si butta.Il suo ultimo pensiero?E la loro poesia? Chi gliela darà, adesso?

Gustav Klimt - Danae (1908)

racconti bonsaidi Federico Regonesi

erendira il re

Cultura / racconti

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 27

Milan l’è proprio una gi-ungla, sarebbe da dire per la quantità di dif-ficoltà e ostacoli che incontra chi vuole bef-fare il traffico in sella

ad una bici. Poche piste ciclabili, pavè, buche, furti e l’arroganza dell’automobilista medio possono scoraggiare chi volesse tagliare la dipendenza dalla broda (o benzina n.d.r.) o dai sovraffollati mezzi pubblici. Ecco qualche indicazione per affron-tare tali questioni, meditata a fronte di una lunga esperienza in giro per le strade di Milano.

Programma il tuo percorso in città: scegli vie secondarie per stare alla larga dal traffico ed evita pavé e ro-taie, acerrimi nemici delle gomme e della tua stabilità. Sei troppo pigro per farlo mental-mente? Bene, il sito bikedistrict.org può trovare il percorso più sicuro per farti muovere dal punto A al punto B. Semplice.

Lega la bici dove è visibile a te o a persone che in quel luogo rimangono a lungo, come davanti ad un bar o un negozio, in un luogo insomma dove dia nell’occhio l’azione di un ladro. Per rubare una bici gli ci vogliono pochi minuti, non lasciare che agisca nell’intimità e sicurezza di una strada poco frequentata.

Non risparmiare in catene, non las-ciarti scoraggiare da prezzi un po’ sa-lati. Se possibile lega anche le ruote a telaio o pali.Vuoi mettere quaranta talleri in con-fronto al valore insostituibile dalla bici con cui hai scorrazzato per anni?Non comprare bici sospette, “super

offerte” che sanno di ricettazione. San Donato, la fiera di Senigallia sono bei mercatini, ma non per le bici.Ci tieni così tanto a finanziare quelle stesse persone che ti hanno rubato l’ultima bici?

Got no money, like a Missisipi blues-man? Riscopri il valore di fare le cose con le tue mani in una ciclofficina. In questi luoghi, improvvisati meccan-ici condivideranno i saperi del mes-tiere aiutandoti a compiere piccole o grandi riparazioni sulla tua bici.Hai una gomma bucata e poca voglia di farti spennare da un ciclista? Porta il tuo mezzo in ciclofficina e qui ti ver-ranno offerti strumenti e consigli con i quali intervenire da solo sulla tua biga. Con molta pazienza e giusto il costo dei pezzi di ricambio, potrai ac-quisire conoscenze che ti renderanno sempre più indipendente e libero di muoverti in bici, con un mezzo sem-pre più tuo. Autàrcheia!

Questi piccoli templi del ciclista urba-no, dove puoi trovare vecchi sacerdoti

del tradizionale sapere meccanico, esaltati di ogni età, rigattieri man-cati e semplici curiosi, rappresentano i maggiori centri di diffusione della cultura ciclistica in città.

Negli ultimi anni luoghi e associazioni di questo tipo si stanno diffondendo a macchia d’olio, e nelle vicinanze del Carducci ne troviamo ben tre: la ciclofficina Pontegiallo all’anfiteatro della Martesana aperta la domenica pomeriggio (h14-18), alla Stecca de-gli Artigiani in zona Isola il mercoledì (h17-20) e il sabato (h11-20), la ciclofficina Ruotalibera alla facoltà di Agraria in Città Studi mercoledì e venerdì dalle 16 alle 19.30. Sono in-teramente gestite da volontari; basta davvero poco per sentirsi coinvolti in queste rilassate oasi nella frenesia ur-bana.

Tutto questo è quanto di più imme-diato si possa suggerire a chi volesse prendersi una pausa dal caos cittadi-no e vivere con più serenità e indip-endenza la propria mobilità.

di Paolo Wetzl, LSS A. Volta

Piccoli consigli per un ciclista urbanoPubblichiamo volentieri l’articolo inviatoci da un nostro “collega” voltiano, consigliere alla Consulta e amico, che col-labora con le ciclofficine, nuove iniziative universitarie di supporto gratuito nella riparazione di biciclette. La Redazione

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Cultura / milano

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III28

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 29

Un saluto al 2thebeat, sono Lucio Anneo SenecaE come Gesù Cristo sto per farvi questa predicaAl potere c’è Nerone e per lui la situa è criticaIo vengo da Cordova e c’ho l’etica che provoca

All’inizio posso anche sembrare una persona miteMa poi il mio rap ti uccide come la poliomeliteSpiego la mia dottrina nel De brevitate vitae

Ho il rap fantascientifico come un film di Steven Spielberg

Io sono troppo avanti, tu stai perdendo tempoSpento, ascolti la lezione dietro al banco

Ti incanto, con questo flow son troppo violento

C’è solo un king a Roma e non è il colle der FomentoFomento il pubblico presente dentro al foro

Parlo da un piedistallo e ho una corona d’alloro

Arrivo, mi alzo e poi do consigli a loro“Pensate a fare bene, non pensate solo all’oro”

Come vi dicevo sono solo un precettoreMa ho perso le speranze per quel babbo di Nerone

Speravo che potesse darmi una soddisfazioneMa è troppo negativo manco fosse un elettrone

Sono un tipo stoico, retorico: filosofo socraticoDrammatico e mi rivolgo a te attraverso il tu diatribico

Alcuni dicono che sono un po’ dispoticoTi amo e poi ti uccido come Fedra con Ippolito

Ma forse hai bisogno di una lezioneFai troppo lo sgargiante ma ti manca la ragione

Prendi me ad esempio, non sono AnfitrioneMa ascenderò all’Olimpo tipo zucchificazione

rappus LATINUS metropolitanus

LUCIO ANNEO SENECA

Quarti di finale del 2thebeat

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L'Oblo' sul Cortile | Anno VII, n° III30

superfluo: supereroe inutilesvago

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Febbraio 2013 | L'Oblo' sul Cortile 31

Nespole Catamarano Bulbo

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La piu’ bella, Guido Gozzano

I. Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cuginoil Re di Portogallo con firma sugellatae bulla del Pontefice in gotico latino.

L'Infante fece vela pel regno favoloso,vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Herae il Mare di Sargasso e il Mare Tenebrosoquell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.

Invano le galee panciute a vele tonde,le caravelle invano armarono la prora:con pace del Pontefice l'isola si nasconde,e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.

II. L'isola esiste. Appare talora di lontanotra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:«...l'Isola Non-Trovata!» Il buon Canarïanodal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.

La segnano le carte antiche dei corsari....Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...È l'isola fatata che scivola sui mari;talora i naviganti la vedono vicina...

Radono con le prore quella beata riva:tra fiori mai veduti svettano palme somme,odora la divina foresta spessa e viva,lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...

S'annuncia col profumo, come una cortigiana,l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,rapida si dilegua come parvenza vana,si tinge dell'azzurro color di lontananza...

L’isola non trovata, Francesco Guccini

Ma bella più di tutte l'isola non trovata,Quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino

il Re del Portogallo, con firma sugellatae bulla del pontefice in gotico Latino.

Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata,però quell'isola non c'era, e mai nessuno l'ha trovata.

Svanì di prua dalla galea, come un'idea;come una splendida utopia è andata via

e non tornerà mai più.Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso,

ne parlan piano i marinai con un timor superstizioso.Nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero;

se a volte il vento ne ha il profumo -è come il fumo che non prendi mai.

Appare a volte, avvolta di foschia, magica e bella,ma se il pilota avanza su mari misteriosi è già volata via,

tingendosi d'azzurro - color di lontananza.

As ilhas afortunadas, Fernando Pessoa

Quale voce viene sul suono delle ondeche non è la voce del mare?

E' la voce di qualcuno che ci parla,ma che, se ascoltiamo, tace,

proprio per esserci messi ad ascoltare.

E solo se, mezzo addormentati,udiamo senza sapere che udiamo,

essa ci parla della speranzaverso la quale, come un bambino

che dorme, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,sono terre che non hanno luogo,

dove il Re vive aspettando.Ma, se vi andiamo destando,

tace la voce, e solo c'è il mare.

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